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Autore: mariolino    08/12/2012    0 recensioni
Questa è la storia di un dramma realmente accaduto. Una storia di una famiglia, frutto della fantasia dell'autore, ma che rispecchia migliaia di famiglia che hanno vissuto quel dramma stesso. Una storia basata su uno dei più grandi attentati del XX secolo. Una storia dalla quale si può trarre insegnamenti. Una storia per non dimenticare.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Storia di un dramma prediletto 
 
Busso per tre volte alla sua porta. Niente. Riprovo, silenzio profondo. Mentre me ne sto per andare sento dei passi lenti che dall’interno dell’abitazione si dirigono verso la porta. Eccolo, la persona con cui mesi prima ho scritto intere lettere  in cui esprimevo il mio desiderio di incontrarlo e di scrivere un libro riguardo alla sua storia. Ora ce l’ho di fronte, avvolto da capelli grigi e una folta barba dello stesso colore. Dalla sua camicia a quadretti bianco-neri con aperti i primi tre bottoni intravedo come si è lasciato andare, come quei muscoli, quei pettorali, quegli addominali siano spariti dopo il dramma. Ha detto addio al nuoto, per restare a rimuginare e riflettere sulla sua vita. Il mio piede sinistro entra per prima in quella casa piena di ricordi. Neanche il tempo di fare entrare il piede destro che indicando un quadro col dito inizia a parlare: 
- Guardi, eravamo una bella famiglia: io, mia moglie e mia figlia. Vivevamo una vita felice, che però quel giorno è terminata. Gli ultimi anni prima della sua morte mia moglie ed io abbiamo vissuto nel dolore. Non c’era giorno che non pensavamo alla nostra amatissima figlia scomparsa. Poi qualcuno mi ha portato via un’altra parte di me: mia moglie. 
Mi fa accomodare su una poltrona rossa e mi serve un caffè. Prima di iniziare, gli chiedo di darmi del “tu”.
- Senti, ti andrebbe di raccontarmi quel giorno drammatico che ha cambiato la tua storia, ma anche quella di moltissime altre famiglie nonchè della tua nazione.
Accendo il registratore ed io dicendogli “Puoi partire” comincia a raccontare.
 
 
 
 
 
 
 
 
- 1 –
 
"Ricordo che era una giornata dal tempo bellissimo. Quella mattina i caldi raggi del sole penetravano dalla finestra fino ad illuminarmi il viso e a svegliarmi. In calzoni ed ancora insonnolito andai in cucina, dove Jacqueline, mia moglie, mi attendeva con in mano la tazza del caffè. Le diedi un bacio e mi sedetti a tavola accanto a lei. Mi sedetti ma subito mi rialzai ad accendere la radio: “Oggi  è martedì 11 settembre 2001. Ascoltiamo subito le notizie.”
Andai in camera a vestirmi. Indossai una camicia bianca con pantaloni neri, delle scarpe eleganti nere appena comperate ed una collanina oro sul collo.
Ritornai in cucina e salutai Jacqueline dicendole che l’avrei chiamata a mezzogiorno. Uscii sulla strada ed entrai nella mia bella macchina rossa.
Mia moglie dall’uscio mi salutava con la mano.
“Ti amo” le dissi e lei mi rispose altrettanto “Anch’io tesoro, ti amo moltissimo!”
Poi partii in direzione di New York City. Come ogni volta, all’entrata della metropoli seguivano lunghe code di auto. Per fortuna riuscii ad arrivare in tempo ai grandi, agli eleganti, ai due maestosi grattacieli dell’architetto Yamasaki. Lavoravo al World Trade Center, nella torre sud luogo dove mi diressi subito dopo essere uscito dalla mia macchina. Presi poi il lift fino al 78º piano. Mi diressi verso la mia bella scrivania con sopra alcune foto dei miei cari ed un pacco di bozze da correggere. Ricordo che mi sembravano infiniti! Prima di cominciare a lavorare osservai il meraviglioso panorama che mi si prostrava di fronte, al di là di quelle grandi vetrate. Osservai i tanti grattacieli di Manhattan, moderni e alti anche se non come quello in qui siedevo io. Dove lavoravo io, le “Torri Gemelle”, per qualche tempo erano stati gli edifici piú alti del mondo. Dopo avere riflettuto su questa informazione continuai a guardare con gli occhi aguzziti di un’acquila la metropoli dei grattacieli. Sotto di essi colonne di formichine, automobilisti bloccati come al solito tra le via di Manhattan, si muovevano a rillento. Volsi poi lo sguardo al mio “gemello”, ovvero la torre nord di quelle due “Torri Gemelle”. Gemelle, ovvero identiche in tutto e per tutto, non erano: la torre nord infatti era alta 410 metri, sui 408 metri della torre sud, la mia. Inoltre la torre nord aveva sul tetto un’antenna, alla quale voltai lo sguardo e pensai che fu costruita come se volesse comunicare con il Paradiso. Guardai l’orologio digitale sulla scrivania: erano le 8:20. Adesso era ora di lavorare!
Cercavo faticosamente di non guardare il meraviglioso panorama che c’era di fronte a me e tenevo la testa e gli occhi bassi su quei fogli. Eppure dopo appena cinque minuti rivoltai lo sguardo verso quel panorama da favola. Ma sapevo che non ero al World Trade Center per ammirare il panorama. Eppure c’era qualcosa dentro di me che mi diceva che avrei dovuto avere bene in mente quel panorama. 
 
 
 
 
 
 
2 –
 
Premo il pulsante “stop” sul registratore per accarezzare il suo gatto che si è accovacciato ai miei piedi. Lui ne aprofitta per andare in bagno. Ritorna e si siede comodamente riprendendo con un bel “Dove eravamo rimasti?”. 
- Ogni mattina quando arrivavo in ufficio avevo sulla scrivania un pacco di fogli da correggere. Avrei dovuto esserne abituato, eppure quella mattina quei fogli mi sembravano infiniti. Per un momento pensai a mia moglie Jacqueline, la quale lavorava in un supermercato. Per alcuni secondi voltai nuovamente lo sguardo sul panorama. Per concentrarmi pensavo “Devo concentrarmi in modo che finisco prima di correggere le bozze, finisco il mio lavoro in anticipo e posso andare a divertirmi in questa bella metropoli!” anche se di “divertirsi” non mi sembrava il caso.
Quello di correggere bozze era un lavoro che mi avevano offerto sette anni prima alcuni amici. Avevo appena perso il lavoro, passavo giornate intere a chiedere in giro se avessero bisogno di qualcuno. Avrei fatto di tutto, dall’operatore ecologico al “buttafuori” delle discoteche. Mi sarebbe piaciuto fare il contadino, come i miei genitori. Ho vissuto la mia infanzia in campagna, in mezzo agli animali. Solo a sedici anni mi trasferii a New York. Alcuni week-end andai a trovare i miei nella loro fattoria. Avevo una famiglia a New York, ora quest’ultima metropoli era la mia casa. Eppure ogni volta che mi recavo da mamma e papà mi sentivo a casa. Nessuno dei miei fratelli e sorelle era diventato contadino. Mio fratello aveva sposato una turca ed era andato a vivere a İstanbul come avvocato. Mia sorella si era follemente innamorata di un bell’uomo palestrato di Miami. Si sposarono, ma due anni dopo divorziarono. Il suo ex marito era ricco, abitava in una villa sul mare a Boca Raton. Con lui aveva concepito un figlio, che è ritornato con sua madre a New York dopo il divorzio. Da tre anni si era fidanzata di uno di origini irlandesi che abitava fuori New York. Mia sorella si era follemente innamorata di colui che in casa chiamavamo “l’irlandese”. Una sera mia sorella ci informa tramite telefono che il suo fidanzato e morto. Si è suicidato. Non ne sapremo mai il motivo.
 
 
 
 
 
 
 
 
- 3 -
 
- Alle 8:44, dopo aver posato uno sguardo veloce sull’orologio, rivolsi per l’ennesima volta lo sguardo su quel panorama. Sopra i grattacieli un cielo azzurro senza nuvole si prostrava come suggestivo sfondo. Era come se io ero il “padrone” di Manhattan e che potevo osservare da dov’ero tutto quello che la gente faceva, ogni azione che magari doveva essere segreta era spiata dagli agenti del World Trade Center. Pensai alle mie belle vacanze appena trascorse al mare in Italia con la mia famiglia. Appena un momento dopo vidi che tra i grattacieli un’ombra lunga e stretta si muoveva. Da dietro l’Empire State Building vidi apparire un’aereo. Lo riconobbi subito che era un’aereo dell’American Airlines poichè appena due mesi prima ne presi uno in direzione della Sicilia, in Italia. Ma mi sembrava che l’aereo stesse volando ad una quota troppo bassa. Oltre alla questione della quota c’era anche la direzione: si stava dirigendo verso di noi, verso i due grattacieli soprannominati Twin Towers o “Torri Gemelle” in italiano. Mi convinsi che avrebbero deviato appena potevano per non abbattere contro di noi. Erano le 8:46. Il tempo di guardare l’orologio e vidi che l’aereo, o perlomeno l’ala sinistra dell’aereo, era quasi a faccia a faccia con me. Un grande rumore, nessuno si muove. Con la testa, a rillento, rivolsi lo sguardo verso la torre nord, con nel mezzo l’aereo. Panico totale: chi gridava, chi si avvicinava alle vetrate rivolte verso quel grattacielo per osservare, chi come me non aveva parole per l’accaduto e non sapeva cosa fare. Poco dopo da quel grattacielo con l’antenna che toccava il cielo cominciava ad uscire fumo, un fumo nero, un fumo di paura. Alcuni miei colleghi provavano a telefonare ad alcuni amici che lavoravano nella torre nord. Durante queste chiamate premevano il tasto “vivavoce”, in modo che tutti potevano sentire le loro condizioni. Se noi siamo disperati nel grattacielo nord regna panico assoluto. Ci comunicavano di non riuscire piú a respirare, tutti i locali erano pieni di fumo. Alcuni rompevano le finestre, quelle grandi moderne vetrate, per potere respirare. Nessuna delle persone all’interno di quell’aerep si salva. Le persone che lavoravano ai piani  piú bassi riuscirono a uscire da quel fumo per mezzo delle scale. I lift erano guasti. Alcune di queste persone si diresse nel mio grattacielo, nel grattacielo sud, e ci riferì l’accaduto vissuto in prima persona. 
Noi invece, che per fortuna il nostro grattacielo si trovava ancora in buone condizioni, non sapevamo cosa fare. Stavamo bene, ma eravamo confusi. Stavamo male per i nostri amici del grattacielo accanto. Arrivavano di continuo informazioni tutte diverse fra loro: “Evacquare l’edificio! Restate ai propri posti e continuate a lavorare! Non è niente di grave!”. 
Confusione, ecco quello che regnava in quei momenti di panico.
 
- 4 -
 
Interrompo la registrazione per la seconda volta, il cellulare di quel grande uomo di cui ne ho tanto sentito parlare suona. Si reca in cucina e discute per ben dieci minuti. Ritorna in salotto e continua a raccontare la sua storia. 
- Telefonai di seguito a Jacqueline la quale era al lavoro al supermercato: “Jacqueline sono io, George. Hai sentito del World Trade Center? Qui regna un caos assoluto, spero che non mi succeda niente di male. Sono preoccupato per Sarah, proprio la torre nord, quella in cui lavora, è stata colpita da un’aereo. Il mio grattacielo non ha subito danni, ma anche qui siamo tutti molto preoccupati. Ritornando a Sarah l’ho provata a chiamare al cellulare ma non risponde. Puoi provare a chiamarla tu? Fammi sapere, un abbraccio, baci, ciao!”.
Sarah era mia figlia. Lavorava nel lussuoso, moderno, panoramico ristorante dell’ultimo piano della torre nord del World Trade Center. Non riesco a spiegare la preoccupazione che avevo. Avvolto da mille pensieri aspettai che mia moglie mi telefonasse dandomi buone notizie.
Ricordo che dopo quella telefonata vidi attorno a me delle persone che si rimettevano a lavorare. Mi chiedetti come facevano a lavorare in un caos simile, vedendo che a pochi metri di distanza, nel grattacielo nord, molte persone stessero soffrendo. 
Nel grattacielo sud si trovava una banca giapponesi. Questo popolo viene molte volte collegato con ordine, educatezza, gentilezza. Anche in questa occasione dimostrarono le loro qualità. Come piú volte avessero provato, tutti i componenti della banca scesero dalle scale in fila ordinati in direzione del pianterreno per poi uscire. Le altre persone li guardavano stupiti, incuriositi vedendoli evacquare l’edificio. Arrivati al pianterreno li bloccarono dicendo che tutto era a posto e di ritornare ai propri posti a lavorare. Alcuni decisero di uscire lo stesso dall’edificio. A queste persone venne annunciato che non li avrebbero pagati per un giorno. Avranno un giorno di “vacanza”. Cercai anch’ io di rimettermi al lavoro, ma non ci riuscii.
Non riesco la sensazione che ho provato nel vedere dalla grande vetrata di fronte alla mia scrivania, volgendo lo sguardo verso il grattacielo accanto in fiamme e con un aereo nel mezzo, alcune persone che si buttarono. Sospesi el vuoto si girarono piú volte su sè stessi fino a non sentire un grande ed acuto “bum!”. Sono arrivati a terra, ora sono in un mondo migliore. I locali erano avvolti dal fumo, non c’era altra soluzione se non volevi morire soffocato. Sento grida disperate, sia di quelle persone che sono sul bordo della finestra pronte a buttarsi, sia di quelle persone che sono sospese nel vuoto, sia delle persone che, come me, assistono a queste scene tremende. Mai mi abituerò a quel rumore, a quelle grida. Per strada moltissime persone assistono a queste drammatiche scene, il traffico è bloccato. Tutti sono sotto le Torri Gemelle e ci guardano, guardano quelle visioni tremende.
 
 
- 5 - 
 
- Cercavo di non pensarci, ma era inutile. Cercavo di nasconderlo, ma non serviva a nulla. La preoccupazione per Sarah era infinita. Cercavo, anche se difficile, di tenere gli occhi puntati sulle persone che cercavano di sfuggire alla morte buttandosi nel vuoto. Speravo di non vedere tra queste persone anche Sarah. 
Accanto a me persone disperate, col fazzoletto in mano, alcune al telefono. I minuti passavano a rillento. Provavo continuamente a digitare sullo schermo del mio vecchio natel il numero di mia figlia. Nessuna risposta. Mia cara figlia Sarah, mia unica figlia. Sentii una voce, seguita da grida, pianti urla di persone che si gettano dalle finestre. Sento che qualcuno urla prima di gettarsi nel vuoto: “Dad I love you! Mom too!”. Quell’urlo “Papà ti voglio bene! Anche a te mamma!” era diverso dagli altri. Impossibile, Sarah che ha scelto di morire? Per un momento mi ero convinto che era la voce di Sarah.
Presi dal cassetto della scrivania una sua foto di quando era andata con delle sue amiche nella capitale russa Mosca. Con le sue amiche, Maria e Sandra, si vantava nel dire in quale posto stupendo e famoso lavorava. La sera precedente Sarah mi diede il numero di Maria e Sandra in caso di emergenza. Come se fosse programmato che il giorno seguente sarebbe successa una catastrofe del genere, cerco di chiamare Maria ma non risponde nessuno. Dopo aver ascoltato la voce della sua mamma, con la quale avevo anche avuto prima di sposarmi una storia amorosa, con il suo accento greco lasciai un messaggio dopo il segnale. Pensai ancora un po’ al passato di me e di Alexandra, la quale da Nicosia, capitale di Cipro, era fuggita con sua sorella in America. Come destino al porto, quando ella arrivo, io mi stavo imbarcare per la Francia. Quella nave per la Francia non ha mai potuto fare la mia conoscenza.
 
 
Qui subito riceviamo l’ordine di evacquare dall’unica scala ancora accessibile. Come è successo con l’altro, anche il nostro edificio comincia a prendere fuoco. Anche qui comincia a uscire quel grosso fumo nero. Prima di andarsene alcuni prendono con è gli oggetti maggiormente preziosi che custodivano nella scrivania. Io no, adesso di beni materiali non me ne importa piú nulla. In questo momento penso a salvarmi la vita. Comincio a scendere di un piano. Vedo già mia figlia che mi aspetta fuori dall’edificio e mi corre incontro per abbracciarmi. Sulle scale vedo una signora con le braccia bruciate. La prendo in braccio e la porto fino in basso, piú veloce che posso. Le fiamme possono all’improvviso spostarsi anche di metri. Ero talmente felice nel mio ufficio prima delle 8:46. Sul volto avevo stampato un sorriso che ora nè a me nè agli altri sembrava comparire sulle labbra. Forse ero il solo a pensare di sorridere in momenti come questi. Ma come fare a sorridere? La mia coscienza mi schiaffeggia violentemente. Ma come puoi pensare in questo momento di sorridere quando accanto a te persone si lanciano dalle finestre, si uccidono perchè privi di una via di fuga? La giovane signora che tengo tra le braccia continua a ripetere confusamente: « The child, the child! ».
La rassicuro dicendole che il suo bambino sta bene, anche se non so cosa intenda con "The child". 
Persone a gran fretta mi superano a scendere giú per le scale con una persona tra le braccia. Persone che stanno peggio di me, con la faccia sanguinante oppure con il mento storto, o con un occhio tutto bianco. Sono scene orribili, quelle scene che mi resteranno per sempre nella memoria, Come anche il rumore delle persone che dopo avere preso il volo arrivano a terra. Il rumore delle loro gride disperate. Il rombo alla fine della morte.
Le scale di quel grattaciello mi sembravano infinite. Ogni giorno salivo quell’edificio del World Trade Center con il lift, mai a piedi. Arrivammo al pianterreno, sfiniti. Degli uomini gridavano di uscire dai garage. Tutti eseguirono quegli ordini ma io rimasi lì, fermo immobile. Vidi attraverso grande vetro della porta d’entrata di quel grattacielo, all’esterno, un mucchio di cadaveri. Tutti sparpagliati. Qui si avvicinò un signore il quale mi disse nuovamente di uscire dai garage. Cominciai a scendere il primo gradino, ma un grande suono, quel grande rumore di uno schianto che ormai conoscevo. Mi girai e vidi che un’altra persona aveva raggiunto il suolo. Ormai non avevano via di scampo. O morire soffocati o rompere le finestre e buttarsi nel vuoto, davanti ad un’immensa folla di persone che per strada assistevano, tristi, piangendo. Qui andai nei garage, da dove fui finalmente libero. Volgo la testa verso la torre nord che, come la torre sud, è in preda alle fiamme. Delle persone attraverso dei buchi nelle finestre sventolano un fazzoletto bianco. Poi, anche nel mio grattacielo alcune persone cominciano a buttarsi. Sono attimi di tensione, attimi di paura. Quando alcuni di questi corpi raggiungono morti il suolo dalla strada alcune persone accorrono piangendo disperati. Sono i loro famigliari, come se colpevoli di non aver potuto fare niente.
Alcuni dei famigliari di queste persone che hanno deciso di buttarsi nel vuoto non sanno ancora che fine abbia realmente fatto il loro famigliare. Un fotografò molte di quelle povere persone. Una di queste fu al centro dell’attenzione per diversi mesi. Anche sui giornali apparve la foto di un uomo con camicia bianca e pantaloni neri, sospeso nel vuoto a testa in giú. Tutti si chiedono chi sia questa persona. Trovano alla fine la vera sua identità, così che possano i genitori avere una tomba su cui piangere.
Quando esco la signora che tenevo in braccio la lascio su una panchina vicino, in compagnia di un medico. Lei mi ringrazia dolcemente e mi abbraccia. « Non so cosa avrei fatto senza di lei. Probabilmente sarei morta. Grazie mille, gliene sarò per sempre grata! »
Intanto mi metto alla ricerca di Sarah, la mia figlia prediletta. Chiedo ad alcuni camerieri che lavoravano con lei al ristorante all’ultimo piano della torre nord. Di lei non hanno notizie. Telefono a Jacqueline: «Jacqueline, sono Geroge. Sono uscito adesso dall’edificio. Hai notizie di Sarah? Non è arrivata a casa?»  
Mi rispose di negativamente. La rassicurai dicendole che mi sarei messo subito a cercarla e che non sarei ritornato a casa senza avere sue informazioni. 
Mi avvicino così a quei cadaveri che ebbi visto in precedenza dall’interno. Poverini, cosa hanno dovuto subire. Che paura avranno avuto nel momento di essere sospesi in aria. Sono tutti diversi tra loro: quelli asiatici noti con gli occhi a mandorla, persone di colore di cui noi negli Stati Uniti ne siamo tanto abituati, sudamericani e veri e propri statunitensi. Tra questi lì, sdraiata con una bellissima maglia rossa e con una minigonna nera c’è mia figlia. Sulla testa i suoi bellissimi capelli biondi hanno ora preso un colore rosso sangue. Le vado incontro, così da portarla via da lì ma un agente grida: « 
Andate via tutti! Svelto, scappate! »
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Quelle urla per me sono ora invane. Devo riuscire a portare via Sarah. La prendo sotto le ascelle ma un poliziotto mi viene incontro e dicendomi di lasciare Sarah lì com’è. Rifiuto, infuriato urlo il nome di mia figlia. Questo con tutta la sua forza mi porta via. Qui alzo gli occhi al cielo: la torre sud sta crollando. Qui comincio a correre, ad allontanarmi da quel posto. Vedo alcuni pezzi del grattacielo cadere su di me, ma riesco a schivarli. Tutti. Come non mai ho corso in vita mia. Questione di cinque secondi al massimo, neanche. Quel grande grattacielo del World Trade Center in cui c’era il mio bellissimo ufficio da qui ammiravo quel panorama spettacolare ora non esiste piú. Ora se alzo gli occhi in alto non vedo piú quel grandissimo e modernissimo grattacielo. Posso solo vedere quel bel cielo azzurro di quel bellissimo martedì 11 settembre 2001.
Ora non si può piú chiamare questo complesso Twin Towers, le Torri Gemelle. Un suo gemello è morto. Al suo posto al suolo un ammasso di rottami ed alcuni cadaveri sparsi qua e là. Ed intanto la torre nord continua a bruciare, a spargere fumo fino a molti chilometrı piú là. Intanto mi rimetto alla ricerca di Sarah. Qui telefono a mia moglie: «Jacqueline, ho visto Sarah. Ora che è crollato il mio grattacielo, la torre sud, l’ho nuovamente dispersa. Potresti venire sul posto? Dì al tuo datore di lavoro che è un’emergenza.»
Mi rispose che sarebbe arrivata piú presto possibile. Dopo un quarto d’ora Jacqueline era al mio finaco alla ricerca di nostra figlia. Tra quelle grosse macerie trovammo tanti di quei poveri cadaveri, ma non nostra figlia. Poverina, ha scelto tra le due possibilità quella maggiormente rapida. Attorno vigili del fuoco erano intenti di migliorare, per quel che si poteva ancora migliorare, la situazione. Seguiti da poliziotti che facevano in modo di non fare avvicinare troppo le persone all’unica torre rimasta. Altri di loro per strada indicavano alle macchine dove proseguire una volta arrivati davanti alle Torri Gemelle, o meglio la torre gemella, la torre nord. Ormai le strade erano piene di passanti, turisti che assistevano tristemente a questa drammatica situazione. Eravamo ancora in preda alla disperazione nel non trovare Sarah quando un poliziotto ci disse di spostarci. Guardai in alto ma per fortuna il grattacielo accanto a noi non stava crollando come avvenuto in precedenza. Ci spostammo come tutti gli altri sulla strada. Anche mia moglie potè purtroppo assistere a quel brutto spettacolo di persone che si gettarono dalle finestre, quell’urlo atroce e poi un grande frastuono. Jacqueline mi guarda turbata. Poi aggiunge: «E nostra figlia...»
Io le faccio cenno di sì con la testa. Ella rimane a bocca aperta sconvolta, spaventata, turbata. Dunque rivolge lo sguardo verso quel bellissimo grattacielo in fiamme. Sarah aveva un carattere forte. Anche in questo caso ha voluto fuggire al nemico, non ha voluto che fosse il nemico ad ucciderla. Povera Sarah. Sabato sarebbe dovuta partire dai nostri parenti in Francia, a Tolosa. Jacqueline avverte i suoi genitori di quello che sta succedendo e di quello che già è successo. Ma sono già informati dell’accaduto. Tutto il mondo ne parla. Insieme a quelle persone disperate ci sono anche molti con una telecamera in mano. Possibile che io e mia moglie saremmo finiti su qualche canale di qualche nazione del mondo. Avvolti dalla disperazione, dalla tensione di sapere se è finalmente tutto finito o se ancora succederà qualcosa. Nessuno lo sa. 
Ma le due torri del World Trade erano soprannominate Twin Towers, torri gemelle, non poteva esistere l’una senza l’altra. Questione di pochi secondi che in quel posto non rimangono che macerie. Anche la torre nord, che fu colpita ancora prima della sua compagna, crolla portandosi con sè tante vittime. Questo come tocco finale di questa terribile situazione. Si sperava che restasse almeno una torre di quelle Torri Gemelle, ma niente. Una sola torre non aveva piú motivo di esistere. Uno tra i simboli maggşormente famosi di New York City ora non esiste piú. Non c’è piú quell’altissimo grattacielo con quella grande antenna che toccava il cielo. Qualcuno quella comunicazione tra l’antenna di quel grattacielo e il cielo l’ha tagliata. Nel luogo dove c’era il mitico, il grande, il lussuoso, il moderno complesso del World Trade Center ora non rimangono che macerie. Alcune di quelle persone per strada o altre di tutto lo stato non sapranno mai che fine hanno veramente fatto i loro famigliari che quel giorno per un motivo o l’altro si trovarono in quel posto. Alcuni nel vedere cadere la torre nord, la torre da cui la maggior parte di persone si sono buttate dalle finestre, la torre in cui la situazione era maggiormente grave, pensarono che anche il loro famigliare era morto. Altri pensarono che si fosse buttato da una finestra e che non l’avessero notato. Altri che fosse uscito dalla torre senza che nessuno lo notasse. Senza che io ne fossi a conoscenza alcuni gentili uomini avevano rischiato la vita per salvare quelle persone sotto le macerie fino alla caduta dell’ultimo grattacielo. Mi riportarono Sarah, la baciarono sulla mano come una principessa. Difatti per me lei era una principessa. Avverto subito anche il suo ragazzo, Mark. Dalla banca arriva velocemente sul posto. «Eccola.» - dico a Mark. Davanti si inchina davanti a lei, le bacia quei capelli una volta biondi ma ora rossi di sangue. La bacia sulla bocca, un bacio profondo. Un bacio intenso come il primo, quello fatto a Miami in vacanza. 
 
 
 
 
Sarah, la nostra unica figlia. Appena sei mesi prima Jacqueline era rimasta incinta di un bambino, ma poche settimane prima che lui nascesse il bimbo morì. Era un periodo pieno di buone notizie. Appena il giorno precedente della sua morte, il 10 settembre 2001 Sarah venne in camera nostra a svegliarci. La colazione era pronta. Cosa si vuole avere di piú da una figlia così. Di seguito ci comunicò: «Mark ieri sera mi ha chiesto di sposarlo. Ho accettato. È stato bellissimo. Mi ha portato sul Empire State Building all’ultimo piano, da dove si godeva di un panorama fantastico. Si è inginocchiato, e con un anello nella mano mi disse quella fantastica domanda. Alle mie spalle avevo il World Trade Center, sembrava proprio che io ero in mezzo alle due torri. Sempre come se fossimo nel mezzo di quelle due torri ci siamo baciati dopo che io ho accettato la sua proposta.»
Jacqueline fu contentissima, io un po’ meno. «Hai appena 27 anni, sei proprio sicura della scelta che hai fatto? Non pensi che tu sia ancora troppo giovane per sposarti?» ma poi mi resi conto che quello che maggiormente volevo era che mia figlia fosse felice. Le diedi la mia benedizione, mi baciò sulla guancia me e mia moglie. Quando ella uscì di casa pochi minuti dopo aggiunsi sorridendo e con tono impostato: «E così sia!»
Quanto Sarah aveva sognato quel magico giorno in cui si sarebbe sposata! Perfino sul punto di morire avrà tristemente pensato "Addio matrimonio!".
Mark stava accanto a noi, con il viso coperto di lacrime come mai lo avevo visto. Tra il sudore di quella soleggiatissima ma terribilissima giornata di settembre che rovinava sempre di piú la moderna capigliatura di Mark ricoperta di gel e tra le lacrime sul viso Mark era davvero, come noi tutti, rovinato. Anche lui adesso non sapeva cosa fare. In quel momento ci disse che voleva suicidarsi. Come dargli torto: un così giovane bel ragazzo, innamorato con una bellissima ragazza con la quale aveva da poco deciso di sposarsi. Sognavano un avvenire, un avvenire che per quella copia mai avverrà. Un avvenire sfrantumato dalla caduta delle Torri Gemelle, da quel fumo grigio tossico che non permetteva a Sarah di respirare, quel fumo che condusse Sarah alla morte. Mark era di San Francisco, da madre della Guinea-Bissau e padre di San Diego. Per motivi di lavoro venne qui a New York, dove si introdusse facilmente alla vita sfrenetica della city. Mark nel momento della caduta della seconda torre, ove aveva lo studio mia figlia, chiamò sua madre Jalife. Ella venne, non accompagnata dal marito il quale era ritornato per una settimana in California per lavoro. Due giorni piú tardi avrebbe dovuto raggiungere anche lui la moglie e il figlio a New York. Jalife era a New York da due giorni, solo per conoscere personalmente la sposa, i genitori di ella e di festeggiare prima di un vero e proprio matrimonio. Infatti Domenica 16 settembre 2001 ella avrebbe dovuto celebrare il matrimonio civile in municipio. Tutti i loro parenti accorsero per il matrimonio civile tra Sarah e Mark, accorsero tutti per nulla. Accorsero per vedere la morte di Sarah, accorsero per consolare il povero Mark.
«Gli abbiamo aiutati nei preparativi del loro matrimonio, ora aiuteremo nei preparativi di quel memorabile funerale.» disse Jacqueline.
Per questo chiamò tutti i suoi parenti ed amici della Francia per chiedergli di poter partecipare al funerale della povera Sarah. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tra la catastrofe delle due grattacieli e tra i rimorsi della coscenza e peniseri rivolti ai propri cari persi durante quel disastro a tutti venne fame. Fame per non pensare. Fame per non avere tormenti. Mangiammo su un ristorante di un enorme grattacielo, non distante da ciò che una volta erano le Twins Towers del World Trade Center. Ricordo bene che ordinai un piatto di spaghetti all’arrabbiata. Jacqueline invece un piatto di Spaghetti. Con noi vennero pure Mark e Jalife, l’altra mamma disperata di quella tavola numero 11, quasi per coincidenza con la data di quel giorno. Jalife raccontò di quante volte era andata in quella banca del mio grattacielo, quello sud, quella banca di quei giapponesi che bene allineati e ordinati scesero all’ingresso ma poi comunicarono loro che tutto era in ordine. Jalife infatti, pur abitando a San Francisco, veniva spesso a New York City. Quelle volte che veniva visitava sempre le Torri Gemelle. Quando andava in quella banca giapponese certe volte ci incrociavamo. La portavo nel mio ufficio, le offrivo una tazza di caffè. Come ognuno che veniva nel mio ufficio disse: «Che stupendo panorama che hai da quassú!».
Mai, forse, potrò riammirare un panorama simile. Quel bell’ufficio in cui ci andavo tanto volentieri, con i miei simpatici colleghi e con le mie innumerevoli bozze da correggere che ogni mattina giacevano sulla mia scrivania. 
Dopo mangiato, sempre in quel ristorante di Manhattan, parlammo consolando quanto potevamo Mark. Ma non era il solo a dovere essere consolato: tutti già sentivamo la mancanza di Sarah. Poi scendemmo da quell’alto grattacielo che mi ricordava quell’edificio in cui siedeva il mio ufficio. Ritornammo assieme a Jalife e mia moglie Jacqueline sul posto siede di quel drammatico terrore. Mark non ci accompagnò. Da prima di mangiare che diceva che voleva andare a casa, ma noi lo trattenemmo in modo da consolarlo così che non si sentisse solo. Stavo per fermarlo ancora, ma Jacqueline mi suggerì: «Lascialo andare, povero ragazzo!»
Ormai tutto era finito, ma il panico assisteva ancora quelle strade buie di Manhattan. Tutta la metropoli sentiva la mancanza di quei due grattacieli. Da ora in poi il volto di New York cambiò definitivamente. Tutti i newyorchesi si unirono fra loro consolandosi per quella grave perdita. 
Passeggiamo poi tra le strade di New York, riflettendo senza parlare e alcune volte ripensando alle Torri Gemelle si faceva qualche commento. Intravedevo nelle facce dei newyorchesi la disperazione, alcuni lo mostravano apertamente altri invece con la testa bassa marciavano in modo che nessuno potesse immaginare quanto stavano soffrendo. Io tenevo la testa alta, non avevo paura del nemico. Jalife fece come me, cercò di fare come me ma si avvertiva benissimo dal suo volto di colore che era in preda al panico. Mia moglie Jacqueline marciava a testa passa, a volte scontrandosi con un passante. Per un momento alzava la testa per scusarsi: «Oh, I’m sorry!» ma poi la chinava nuovamente verso quelle strade costruite con quell’asfalto nero. Alcuni grattacieli in vetro illuminavano, con la luce del sole qui riflessa, i nostri vestiti, illuminava la nostra disperazione. 
Ora, da oggi 11 settembre 2001, la vita della nostra bellissima metropoli e quella dei suoi abitanti cambierà per sempre. Il nostro pensiero era rivolto a Sarah, a quelli che come lei sono coraggiosamente fuggiti dal nemico. Dopotutto le sole due uniche possibilità che avevano era o buttarsi, gettarsi nel vuoto, oppure quello di restare rinchiusi nel grattacielo finchè non li veniva a mancare il respiro o fino a che il grattacielo non crollò. Jalife, passando di fronte ad una chiesa, chiese di fermarvici un attimo per pregare. Noi la seguimmo all’interno. Come noi molte persone pregavano, inginocchiati di fronte alla statua della Madonna di Lourdes. Pregare per un attimo mi ridiede la felicità, la gioia di vivere. Ma uscendo da quella chiesa ritrovavo quelle facce disperate, quella metropoli diversa dal solito. Ricordi che dopo essere sceso tutti gli scalini e ritrovandomi su un marciapiede in cui poco distante giaceva una cabina telefonica, dunque girai nuovamente indietro lo sguardo verso quella chiesa. Non ricordo che chiesa era, dove si trovavo. In quelle ore marciavamo a caso, senza una meta precisa. Ci ritrovammo poi di fronte a Central Park. Diversamente dal solito Jacqueline disse: «Non andiamo nel parco, restiamo come adesso a gironzolare per le strade.»
Tutti, io compreso, eravamo della stessa opinione. Non volevamo affrontare il silenzio pacifico di quel paradiso verde in città. Il silenzio era ora il nostro nemico. Ci bastava un minuto di pausa perchè i ricordi si reimpadronirono della nostra mente. Non volevamo ricordare, non ce la facevamo. Avevamo bisogno del caos cittadino, dei rumori per così distrarci dall’accaduto. 
Su un marciapiede vidi una signora cinese che piangeva, mostrava una foto di un suo caro. Lavorava al World Trade Center, ma io non lo conoscevo. 
Era ormai quasi ora di cena, ma nessuno voleva tornare a casa, nessuno voleva essere in compagnia deel silenzio. Andammo in un ristorante italiano e ordinai una pizza. Jalife dopo avere ordinato la  cena telefonò suo figlio Mark. Non rispose nessuno, alchè ci preoccupammo. Pensammo pure che si fosse suicidato. Poi Mark richiamò sua mamma, e le chiese dov’erano. Ella allora rispose che erano a mangiare in un ristorante e che se voleva era ben voluto. Poco dopo Mark arrivò con un sorriso smagliante, ma notavo che anche il suo bel sorriso non era lo stesso di sempre. Passammo la serata felicemente, per quanto potessimo essere felici. Mark tenne sempre quel suo sorriso smagliante, e rise con noi. Ad un certo punto Jalife chiese a suo figlio: «E adesso cosa intendi fare?»
«Ricomincio una nuova vita, voglio fare una famiglia. Sarah vuole che io sia felice, e io felice sarò.»
Notammo alcuni che sui propri negozi attaccavano dei poster con su una foto delle Torri Gemelle ancora intatte. Sopra venne scritto: "This is the 11th of September 2001!"
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
In quel ristorante ricevetti una chiamata di mio cognato dalla Francia. Mi fece le piú sincere condoglianze e disse che se volemmo avremmo potuto usufruire del biglietto di Sarah per andare in Francia a trovarli. Distrattamente accettai, ma subito dopo Jacqueline mi rimproverò. 
Mi disse che avremmo dovuto organizzare il funerale di Sarah. Avevo organizzato che Sarah sarebbe stata esposta una settimana dopo nella camera mortuaria, e quando saremmo ritornati dalla Francia avremmo celebrato il suo funerale.
Era buio quando uscimmo da quel ristorante italiano. Mark aveva bevuto piú del solito ed era leggermente ubriaco. Poi attorniati da cartelloni pubblicitari di Times Square e dalla musica ad alto volume delle discoteche io e mia moglie salutammo Jalife e Mark. Volevo prima di partire ritornare sul posto dell’accaduto, sul luogo ove fino a neanche undici ore fa sorgevano due grattacieli magnifici, quello sud dove lavoravo io e quello nord con l’antenna che toccava il cielo dove lavorava Sarah. Prendemmo la metropolitana, la mia macchina era distrutta. Degli ubriachi cantavano allegramente, magari per non ricordare dell’accaduto, del fatto principale di questa giornata. Anche loro forse avevano perso un proprio famigliare, e per dimenticare si davano all’alcool. Questi scesero in una fermata prima della nostra, dicendoci: «Per l’11 settembre ci diamo alla pazza gioia!»
Io ho fatto un sorriso, e loro se ne sono andati. Poi mi rivolsi verso mia moglie e le diedi un bacio. Uscimmo dalla metropolitana, e sui muri c’erano fotografie delle torri in fiamme, oppure delle torri ancora in perfetto stato. Vicino c’erano delle foto di alcune persone che si lanciavano dai grattacieli, tra questi un uomo capovolto a testa in giú cadeva velocemente. Vicino a questa foto ce n’era una di dimensioni minori che quella vicina. Anch’ella stava cadendo da un grattacielo. Mai dimenticherò quella situazione, quelle grida disperate e quel rombo delle vittime che toccano il suolo. Il rombo, il frastuono della morte. 
Nel vedere quella foto dissi improvvisamente, senza quasi riflettere: «È Sarah!»
Jacqueline osservò attentamente quella foto, poi aggiunse: «Ce ne saranno state molte di persone che le somigliavano!»
Ma io ero sicuro. Jacqueline ha cominciato ad incamminarsi verso casa, e io intanto ho comprato quella fotografia. Poi, mettendola nella tasca della giacca, ho raggiunto mia moglie.
Nell’arrivare a casa nostra, vedendo il posteggio per la macchina vuoto commentai: «La macchina non c’è piú, così come le Torri Gemelle, così come nostra figlia.»
Poi entrammo in casa, dopo una giornata indimenticabile nella nostra storia, indimenticabile nella storia di New York City, indimenticabile nella storia degli Stati Uniti. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi cambiai ed in calzoni, proprio come quella mattina prima di andare al lavoro, quindi raggiunsi Jacqueline a letto. Ci baciammo, e lei chiuse gli occhi cominciando a dormire. La stanchezza cominciava ad affliggere anche me, e fu solo qualche minuto prima di addormentarmi che mi chiesi: «Questa terribile catastrofe sarà capitata per un errore? Due piloti distratti di due aerei diversi si sono schiantati in quel bel cielo azzurro contro le Twin Towers? Oppure tutto questo è un atto di terrorismo organizzato già da tempo? Se ciò fosse realmente così chi c’è dietro a tutto questo?»
Non ebbi piú la forza di continuare a riflettere le cause dell’accaduto che mi addormentai. Sognai di mia figlia Sarah nella torre nord che comincia a bruciare, e da una finestra ella cerca di attirare la sua attenzione a me che sono nel mio ufficio a lavorare tranquillamente. Io non la vedo, e continuo a correggere le innumerevoli bozze di quella mattina. Vedo una ragazza pronta a lanciarsi da una finestra, e riconosco che quella è mia figlia. Troppo tardi per fermarla, che lei si è già buttata. Durante la caduta mi guarda con occhi lucidi, e sento che mi vuole comunicare: « Papà, papà, perchè non mi hai salvato?»
Qui mi sveglio. Faccio una doccia, mi vesto ma dimentico che non ho piú un lavoro. Jacqueline sta ancora dormendo. Vado in cucina e le preparo la colazione, ormai ora è lei l’unica che ha un lavoro. La giornata passa e io mi preparo a diventare casalingo. Preparo le valigie per il nostro viaggio in Francia, nostro di Sarah e Mark. L’indomani 13 settembre 2001 partiamo. Sarah amava la Francia, il paese d’origine di Jacqueline. Amava Parigi, ma amava anche la campagna vicino a Tolosa dove abitavano i suoi zii. Spesso con loro andava anche al mare. Alcuni suoi cugini, nel vederla parlare francese con la "r" inglese , ridevano di questo e la imitavano. Sarah amava l’eleganza con cui si vestivano le donne francesi, lo charme che possedevano. Mia figlia diceva sempre che una donna la si valuta dall’eleganza, dalla simpatia e dalla buona educazione. Sarah si vestiva sempre in modo elegante, con tacchi alti e minigonna. Ricordo che arrivata a casa dai suoi viaggi in Francia mi diceva sempre che in spiaggia i maschietti francesi le chiedevano continuamente di uscire con loro oppure di fare amicizia. Nel vedere una giovane e bella ragazza bionda americana tra le spiagge francesi attirerebbe sicuramente l’attenzione a tutti. Ma la maggior parte di questi suoi fans era attratto da Sarah solo per il suo bel seno, e volevano solo portarla a letto. Ella andava spesso in giro in bikini, e quando salutava quelli che conosceva in spiaggia questi le rispondevano posando gli occhi sui suoi seni. Sarah aveva una dota particolare per il bello. Quando poteva partecipava a feste sulla spiaggia o frequentava discoteche. Era molto amata da tutti, e dopo avere incontrato nuovamente i suoi amici questi mi dissero: «Mai dimenticheremo la gioia con cui Sarah viveva, la felicità che mai le mancava, il suo bel sorriso e la sua gentilezza e simpatia!»
Finisce anche la nostra permanenza in Francia e riprendiamo l’aereo verso New York. Mia moglie Jacqueline vede qualcosa fuori uscire dalla tasca della mia giacca. Lo prende e vede la foto da me comprata la sera dell’11 settembre in cui mostrava una ragazza bionda cadere dal grattacielo. 
«È Sarah!» aggiunsi io. Jacqueline mi guardò con occhi malinconici per un secondo, e poi rigettò lo sguardo sulla fotografia. Qui si mette a piangere, io la consolo abbracciandola. Poi si addormenta con il viso bagnato di lacrime.
La sveglio poi quando atterriamo all’aeroporto di New York. Qui ora è mattina, ed anche io appena arrivato a casa e dopo aver sistemato le cose devo rigettarmi nel traffico cittadino per rivedere l’organizzazione del funerale di Sarah di domani. Lei è nella camera mortuaria, con quel bel sorriso che ha sempre tentato di avere. Mentre sto pregando entra il parroco, che mi mette un braccio sulla spalla. Qui esco, e tra le strade di Manhattan vedo la comunità islamica di New York marciare lentamente, scusandosi per l’accaduto. Verrò poi a sapere che alcuni kamikaze di Al Quaeda, sotto ordine di Osama Bin Laden, si sono schiantati per loro volontà contro le Torri Gemelle. La comunità islamica tiene un discorso, dicendo che non è perchè è successo questo fatto che noi ora dobbiamo avercela su con i musulmani. Anche loro sono contro Al Quaeda, contro i terroristi islamici. Sono anche loro contro la violenza, ed è dispiaciuta moltissimo per la caduta dei due grattacieli. Anche loro sono newyorchesi e anche per loro questa è una grande e triste perdita. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’indomani mi sveglio mettendomi la camicia bianca e pantaloni neri. Ormai l’ho lavata e stirata, essendo io il casalingo, ma quella camicia bianca e quei pantaloni neri sono quelli che avevo su il giorno della catastrofe, l’11 settembre. Con mia moglie Jacqueline, anche lei vestita elegante e con un fazzoletto in stoffa con su dei fiori nella tasca dei pantaloni, ci dirigiamo verso la chiesa dove Sarah ci sta aspettando. Inizia il funerale, e ci sediamo accanto a Mark, avvolto dalle lacrime, e da Jalife avvolta invece da uno scialle rosa che guarda con occhi espressivi la bara ove si trova mia figlia. Poi seguiamo il carro funebre fino al cimitero. Qui viene sepolta Sarah, attorniata da tutti i suoi cari famigliari, attorniata da tutti i suoi innumerevoli amici. Qui getto la foto comprata dei secondi precedenti alla morte di mia figlia nella tomba con lei. Jacqueline inizia a piangere, e appoggia il capo sulla mia spalla ancora forte e reggente malgrado tutto. Facciamo un significativo segno della croce e ce ne andiamo. Innumerevoli persone ci fanno le loro condoglianze. Ringraziamo tutti e ritorniamo a casa.
Non dimenticheremo presto la data della morte di mia figlia, della morte di migliaia di altre persone, l’11 settembre 2011. Al Quaeda ha voluto attaccare gli Stati Uniti, ferire il cuore di tutti. Quel giorno non mi chiesi mai chi fosse stato, solo a sera tarda riflettei. Eravamo avvolti dalla disperazione, alcuni scelsero il suicidio altri, come me e Jacqueline, affrontammo il futuro, le conseguenze faccia a faccia. Da questo attacco terroristico noi siamo diventati piú forti, piú coraggiosi. Quella giornata memorabile sarà il giorno simbolo del terrorismo, e mai ce lo dimenticheremo in onore della patria, in onore di tutti quelli che non ce l’hanno fatta. Ormai pensavamo che ci sarebbe stata una cosa simile, americani e arabi non sono mai andati d’accordo. Per tutti, dunque, era un dramma prediletto.
 
 
 
  
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