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Autore: Winry977    08/12/2012    0 recensioni
Ero un illuso, sapevo che la sua anima non apparteneva più a questo mondo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La sua era una solitudine incolmabile. Sapevo di esserci sempre stato per lei, ma evidentemente non abbastanza. La perdita di quell'unica persona che le aveva dato sostegno era stata uno shock. In un qualsiasi momento, ovunque si trovava sola o con me che fosse, aveva lo sguardo perso nel vuoto, sicuramente persa nei ricordi. Ero l'unica persona rimasta, ed evidentemente non ero abbastanza. Per quanto io mi interessassi a lei, le ripetessi che non era sola, lei non mi dava credito.

Ci amavamo. Io, la amavo follemente. Ma forse, neppure questo era abbastanza per colmare quella tristezza, l'assenza di lei. Sua sorella.

Una volta mi disse che dal giorno del suo funerale non si sentiva più... viva. Era come un fiore che appassiva molto velocemente, mi diceva. Io restavo pietrificato da quelle sue parole. Impressionato, e facevo di tutto per starle vicino, per confortarla. Ma niente. Nulla poteva placare quel vuoto.

Sarei dovuto essere più presente di quanto non lo fossi già allora, eppure io le stavo attaccato come una calamita.

Accadde tutto in un giorno di fine settembre, più precisamente era quasi sera, e il sole era sulla via del tramonto. Io mi aggiravo per le strade della nostra cittadina senza far caso a dove mettevo i piedi o alla direzione in cui camminavo. Ero perso nelle mie fantasie, nei miei pensieri. Attraversai un viale alberato e senza accorgermene mi ritrovai davanti la sua casa. Non era ancora tramontato il sole, come ho già detto, e dalla sua casa non proveniva una nota.

Lei vivevo sola sin dal momento in cui la sua splendida sorella era scomparsa dalla faccia della terra. E da quello stesso momento aveva preso a suonare assiduamente quel pianoforte nero che teneva nel salotto, al centro di esso, facendo risuonare le note fino al di fuori dell'appartamento.

E quando si passava e si sentiva quella o quell'altra melodia, la gente esclamava “Ehi, ascolta! Nina sta suonando di nuovo!” e si fermava ad ascoltare senza interpretare il significato di quelle note così malinconiche che solo io riuscivo a tradurre per il verso giusto.

Sì, si chiamava Nina, ed i suoi genitori si erano sbizzarriti chiamando sua sorella Nana.

Eravamo rimasti solo io e lei. Il marito di Nana si era chiuso nella sua depressione, scomparendo dalla società e tagliando contatti con tutti. Per quanto Nina cercasse di parlargli, per confortare lui, e per essere confortata anche lei, lui non si faceva mai trovare, e lei sembrava essere avvolta da una nuvola nera.

Passeggiando trovai strano il fatto di non aver udito alcuna melodia e tutte le luce erano spente per di più. Credetti che fosse uscita, ma la sua auto era parcheggiata lì, davanti il garage, e sapevo che per scrupolo lei non usciva mai a piedi. Poteva forse dormire? Mi chiesi osservando la finestra della sua camera, con le tende messe davanti al vetro. Feci spallucce, mentre i dubbi si ammassavano nella mia mente e decisi di andare a bussare. Con mio grande stupore mi accorsi che la porta era aperta, o per meglio dire socchiusa, lasciando intravedere uno spiffero dell'interno della casa. Con la fronte corrugata sorpassai l'usco e mi accolse un silenzio mostruoso.

-Nina?- la chiamai più volte. Niente, non si sentiva alcun rumore, sospiro, alcuna voce. Niente. Un silenzio tombale. Cominciai a preoccuparmi, mentre mi tornva in mente la sua parabola del fiore che appassiva. Perquisii il primo piano della casa, e niente, di lei neanche l'ombra. Salii al secondo piano, accorgendomi che il sole ormai era quasi giunto al di là dell'orizzonte. Entrai nella prima porta di un corridoio non troppo lungo, delineato da una ringhiera in legno che si affacciava sul piano di sotto a mo' di terrazzino o balcone. Era la stanza di sua sorella, ne riuscivo a sentire l'odore. Usava sempre un profumo dolce, di cannella, e la stanza ne era impregnata. Un senso di vuoto malinconico mi invase. Notai che le coperte del letto rotondo erano tutte scombinate e spiegazzate, ed intuii che Nina ci aveva dormito. Scossi il capo con disapprovazione, pensando che quella era stata una sofferenza quasi voluta.

Uscii da lì, ed entrai nella stanza accanto, nonché quella di Nina, nella quale avevamo trascorso, giornate, notti, sia felici che tristi. Sbalordito da quello che vidi. Tutto era sottosopra: penne, quaderni, libri, boccette di cosmetici, vestiti e tanti altri oggetti erano sparsi per terra sul tappeto rosso a frange; le coperte del letto erano tutte buttate ai suoi piedi, una sedia era sottosopra... un dubbio più terrificante di quello di prima sopraggiunse nella mia testa e vi si instaurò, mentre io cercavo di convincermi che non fosse successo niente.

Uscii dalla camera freneticamente e mi affacciai sul corridoio lasciando vagare lo sguardo sul piano di sotto. Nulla. Mi voltai e vidi che in fondo al corridoio c'era uno spiraglio di luce provenire da dietro una porta mal socchiusa. Percorsi quei pochi metri, sorpassando camere in cui non ero mai entrato, e che Nina mi aveva detto di essere completamente vuote. Aprii la porta con mano tremante, e squadrando lentamente il bagno in cui mi ero ritrovato, alla mia sinistra la vidi.

Era lì, per terra, seduta e con le gambe distese sul pavimento a mattonelle bianche. In una mano dischiusa teneva una lama, mentre l'altra, la destra, era semplicemente vuota e più aperta dell'altra, ma sanguinolenta e piena di tagli sui polsi. Sotto di essa si estendeva una pozzanghera di sangue dall'odore metallico.

Mi avventai su di lei, con un groppo in gola. -N...no... no... Nina... Nina, rispondimi...- mormorai sommessamente quelle parole, incoraggiandola invano a parlare. Le sollevai il viso: le palpebre erano abbassate, nascondendo i suoi occhi marroni, le guance un tempo colorate di un simpatico rosso, erano ora pallide lasciando intravedere quelle poche lentiggini che aveva sempre cercato di nascondere sotto il trucco o con il suo stesso rossore. Il rossore di una persona allegra, che con la depressione si era completamente trasformato in un pallido rosa. Era fredda. Dal suo naso non usciva alcun respiro che potesse riscaldare anche un dito.

Strinsi gli occhi, e le lacrime cominciarono a scorrere giù per le guance, fino a gocciolare dalla mandibola al corpo esanime di lei. Delle macchiette scure si andavano a formare sui nostri vestiti, e in parte colpivano il braccio sano di lei.

Delicatamente le presi il braccio ferito, accarezzando le ferite in via di solidificazione e anche il lato non offeso dall'arma che teneva sul palmo dell'altra mano. Due lacrime caddero sul suo sangue.

-No... Nina... perché lo hai fatto? Perché?- la osservai con la vista offuscata dalle lacrime, scorgendo maggiormente i suoi capelli castani tendenti ad essere sbarazzini e scompigliati, lunghi fino alle clavicole, ed il suo ciuffo che spesso le ricadeva sull'occhio sinistro. Glielo scostai, accarezzandola.

-Nina... oh, Nina!- guardai verso la porta. -C...C'è qualcuno? Qualcuno mi sente? C... chiamate un medico! Qualcuno la salvi!- cominciai ad aggrapparmi alla speranza che qualcuno potesse sentirmi e che potesse salvarla. Ero un illuso, sapevo benissimo che ormai la sua anima non apparteneva più a questo mondo. Il suo braccio era ormai violaceo, macchiato di rosso, e le ferite stavano diventando croste sulla sua pelle.

Piansi, facendo risuonare i miei singhiozzi in tutta la casa, stringendola a me, chiamando il suo nome, sussurrando frasi dolci nella speranza che si svegliasse. Un illuso, ecco cos'ero. Affondai il viso tra i suoi capelli, sentendo lo stesso odore di sua sorella. Mi morsi il labbro, tremante, ed cercai di guardare altrove per calmarmi. E nel farlo mi accorsi di qualcosa poco distante da noi. Su una piastrella erano poggiati una penna ed un fogliettino bianco. Lo presi e lessi fugacemente e ripetutamente le poche parole che lei aveva impresso su di esso con la sua calligrafia ordinata e dalle linee dolci.

-Nana... sto arrivando.-

  
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