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Autore: aniasolary    09/12/2012    24 recensioni
(Storia da revisionare)
Young Adult con elementi sovrannaturali e di Mistero.
In un pomeriggio assolato, le urla di una bambina oscurano il cielo; lei è un'arma, lei non potrà mai vivere, lei non può fare altro che nascondersi.
Anni dopo, un ragazzo trova la sua fotografia fra i documenti di suo padre. Un padre assente, troppo lontano da tutto e da tutti, così preso dai documenti fra cui c'è quella fotografia.
Sei appena venuto a conoscenza della presenza di un burrone. Vai a vederlo. Non ti aspetti che ci cadrai dentro.
Quella ragazza.
Quell'arma.
Quel ragazzo.
Il suo mondo.
Sogni spezzati.
L'amore difficile.
Vite in sospeso.
Amicizie distanti.
Vite rimaste indietro.
Vite in pericolo.
Buio.
Speranza.
Ed un uomo nell'ombra.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Until capitolo 1

1.

Soggetto pericoloso

 

La luce rossa lampeggia.

«Ma l’hai acceso?»

«Ci sto ancora provando.»

Nero, rosso. Nero, rosso. Nero, rosso.

«Dai, faccio io.»

«Ci riesco da solo.»

Nero, rosso. Nero, nero, nero, nero…

Verde.

«Che cosa faresti senza di me?» mi dice Cameron, alzando le braccia verso il soffitto come Jim Carrey quando apre le acque  il brodo  della zuppa al pomodoro in “Una Settimana da Dio”.

Si lascia cadere sul letto, con la faccia soddisfatta e il joystick fra le mani.

«Penso che potrei morire.» Mi siedo accanto a lui. 

Quando si volta verso di me, vedo una smorfia guastargli completamente il viso. «Questa cosa l’hai detto all’ultima con cui sei stato?»

«No, no.» Mi volto e prendo il joystick dietro di me. «Le ho detto grazie.» Mi viene fuori una risata.

«Bastardo.» Mi dà una gomitata, ed io distolgo lo sguardo. Sul suo vecchio televisore, Goku crea l’onda energetica nel caricamento del gioco.

Faccio spallucce, ma non riesco a trattenere il sorriso, mentre la sua risata cancella il resto come con un colpo di spugna.

«Comunque, io prendo Goku.» gli dico.

«No, dai, lo prendi sempre tu, Martin.»

«E allora, una volta in più.»

«No.»

«Dai, Cameron…»

«Ti ho detto che questa volta… »

«Ehi.» La porta si è aperta, e al posto del poster di Scarlett Johanson travestita da Vedova Nera, vedo la sorella di Cameron che ci sorride. «Vi va un panino?»

«No.»

«Sì.» dico io, e posso sentire che Cameron sta trattenendo il respiro, almeno per un secondo.

Devo sorriderle e poi tutto il resto verrà naturale. Qui mi ci vuole dello sforzo in più, devo ammetterlo. 

«Martin, Goku puoi prenderlo tu.» mi dice Cameron.

Lascio che quel pensiero mi sfugga via.

Scuoto la testa. «Non importa, Holly, ho cambiato idea.»

Holly mi guarda strano, gli stessi occhi neri del fratello, lo stesso modo di storcere la bocca quando non capisce qualcosa… non credo di poter mai farlo con Cameron a sesso inverso.

Holly si alza nelle spalle e chiude la porta.

«Non pensarci nemmeno.» fiata Cameron.

«Ehi, l'ho fatto apposta, sapevo che solo così mi avresti fatto prendere Goku.»

«È sempre una ragazza, la sai la regola.»

«Sì, me l’hai imposta quando avevamo quattordici anni.»

«Da quando hai cominciato ad avere ragazze.»

«Sì, mi ricordo…»

«Sicuro?»

«Sì.» Prendo un respiro, roteo gli occhi e mi massaggio il mento. «Tutte le femmine dell’Universo, tranne lei.»

«Ecco.» Mi dà una pacca sulla spalla.

Non mi ricordo esattamente di come io e Cameron siamo diventati amici, amici sul serio: di quelli che aiutano l’altro a rialzarsi in una partita a calcio e che si dividono il sandwich a  scuola quando l’altro si è dimenticato i soldi per il pranzo. Tutto è sfocato, confuso, con risate chiare e voci che imitano il rombo dei motori in sottofondo.

«Scommetto che ti batto.» La voce di Cameron mi riporta a galla nella sua stanza disordinata. Io e lui, seduti sul suo letto, la playstation e i libri di Chimica aperti per terra, reduci di un inutile tentativo di studio che non è riuscito.

Un angolo della bocca mi si alza verso l’altro, mentre clicco su play.

«Provaci.»

***

Esco dal portone di casa di Cameron. Sotto il braccio ho un contenitore di plastica con alcuni pezzi di crostata al cioccolato che mi ha dato sua madre, e questi, sorella o non sorella, Goku o Vegeta, non potevo proprio rifiutarli. 

Entro in casa, la porta in mogano si apre silenziosa.

«Papà?»

Lo chiamo.

Non risponde.

«Sei nel tuo studio?» dico. Mi avvicino alla porta in cui di solito passa il tempo quando si porta il lavoro dell’azienda a casa. Busso, ma non sento nient’altro che silenzio.

Scrollo le spalle e vado in cucina. Apro il contenitore, addento un pezzo di torta e il sapore del cioccolato mi si scioglie sulla lingua, dolce.

Mi appoggio al ripiano in marmo, di schiena. 

Si mangia seduto al tavolo, Martin. Dio santo, sento i suoi rimproveri anche quando Doreen ha il giorno libero.

A volte ho l’impressione di perdermi: anche quando ero piccolo, la mia casa mi sembrava incredibilmente grande. L’ho sempre vista con un occhio un po’ analitico, come se non fosse mai stata davvero mia. Con gli anni, però, ho imparato a raggiungere la mia stanza e la sala da pranzo anche al buio, come adesso.

Anche se, nel tempo di raggiungere una stanza dall’altra, ho finito il pezzo di torta.

Sbuffo.

La sala da pranzo è ordinatissima, brilla quasi fosse appena comprata, come tutte le volte in cui Doreen pulisce tutta la casa.

Il tavolo, però, è pieno di fogli.

Mi avvicino e ne prendo in mano qualcuno. Numeri e documenti, e dichiarazioni, e certificazioni e…

Soggetto pericoloso.

I miei occhi si fermano su queste due parole, uno più uno fa due, due parole, sì, proprio queste, mentre cerco di capire come mai una cosa del genere dovrebbe importare al direttore di un'azienda commerciale. Mentre cerco di capire che cosa c’entri l’Archie High School con tutto questo, la mia scuola. Abbonamento al pullman.

I miei occhi afferrano qualche segnale tutto insieme. Pericolo. La mia scuola. Una persona.

La sua foto è grande quanto una fototessera.

La ragazza che il foglio chiama Sarah Pierce non sorride: la sua bocca è ferma in un’espressione che non dice niente, un niente forte e vibrante. Sembra sul punto di aprire la bocca e gridare, o, al contrario, di restare per sempre in silenzio. 

Stringo di più il foglio fra le mani. Ha gli occhi spenti. Sono lampadine trasparenti, fulminate. Celeste chiaro. 

Capelli lunghi, castani, e un po’ di lentiggini sul naso.

«Martin, sei lì?» La voce di mio padre mi raggiunge le orecchie. Dura solo un secondo, quello di rimettere il foglio al suo posto e sommergerlo con altri pieni di numeri e parole strane. 

Mi sento la gola secca, il respiro accelerato. «Sì.»

Entra nella stanza.

O forse no, prima entrano i suoi occhi, e non fissano me. Semplicemente, si fermano sui fogli sul tavolo, davanti a me, davanti a lui. Temo che abbia chiamato “Martin” qualche suo documento importante.

«Tutto bene?» Fa qualche passo verso di me, ancora con giacca e cravatta dell’ufficio, lo sguardo duro di quando lavora fino a tardi, il suo sguardo di sempre da quando ho ricordo.

«Mhm-mhm.» Annuisco.

«Hai studiato da Cameron?»

«Ehm...» Che cosa c’entra un soggetto pericoloso fra le tue carte? Non riesco bene a mettere insieme le parole. «Sì... però ti volevo chiedere…»

Mentre mio padre assottiglia gli occhi, prende tutti i fogli con un movimento delle  braccia che si chiudono sul tavolo in un finto abbraccio.

Fa per uscire, veloce.

«Papà…»

«Martin, ascolta. C’è un cliente che sta aspettando delle carte proprio qui giù, ora dovremmo tornare in ufficio. Non mi aspettare alzato.»

«Sì… ok… ma mi potresti dirmi che cosa…»

«Martin, tutto quello che hai da dirmi, me lo dici domani.» Mio padre si volta verso di me e ho l’impressione di guardare un estraneo. Una persona qualunque in metropolitana, di quelle che non fissi mai per più di un secondo perhé è così che ti hanno insegnato.

Sono perso in una grande casa con un estraneo.

«Ma…»

«Spegni tutto, prima di andare a letto.»

Esce dalla stanza, non riesco a muovermi. Sento i suoi passi allontanarsi, il rumore della serratura, il tintinnio delle chiavi, il legno che sbatte.

La puzza della sua assenza si fa strada in casa, raggiunge le mie narici e mi entra nei polmoni.

Ogni casa ha il suo odore, e questo è il suo.

Mi passo una mano fra i capelli. Sento pulsare la vena sul collo e non so se è per rabbia o per delusione.

Ma una cosa è certa, adesso.

Scoprirò tutto da solo.

***

«Ingoia, prima di bere.» Doreen mi toglie il piatto davanti, mentre io mando giù l’ultimo boccone di pancetta insieme al sapore aspro del succo all’ananas. La guardo di traverso, e non posso che notare che mi sta guardando allo stesso modo. I suoi capelli sono sottili anche se scuri, sembrano trasparenti, mi lasciano vedere il suo viso e tutte le sue smorfie.

«Scusa.» biascico, mentre mi metto in piedi. Doreen si alza le maniche della maglietta, a lasciare vedere le braccia magre, e passa il panno sulla tovaglietta per lavare via le briciole. Tutto questo, senza togliermi di dosso i suoi occhi scuri.

«Hai studiato, ieri?»

«Che cosa?»

«Chimica, no? Non era quella la materia in cui hai preso una F?»

Intendi dire una delle tante?

Mi avvicino all’uscio della porta, una mano sulla nuca a grattarmi il collo. «Ah… ah, già.» 

«Martin, per favore, impegnati, tuo padre non sarà contento di questi tuoi risultati. Renditi conto di quello che fai, non pensare sempre e solo a giocare, sei grande, ho già tanto da fare, non posso controllare che tu faccia i compiti come quando eri piccolo. Stai diventando un uomo, insomma, vedi come sei diventato alto, quasi lo superi, sarai più di un metro e ottanta? Con quella F che figura ci fai? E…» Bla, bla,bla… Dei voti che prendo a scuola importa più a Doreen che a mio padre. La sento anche dal bagno, mentre mi lavo i denti.

«Capisco che è una materia difficile. E poi se una persona è portata è portata, è vero, non sto dicendo che devi diventare il nuovo Einstein, Martin. Ma dimostra almeno un po’ di impegno, non voglio che porti a casa una A+, ma almeno una sufficienza…»

«’Apito. » Sputo nel lavandino. Mi pulisco la bocca, esco dal bagno e mi metto lo zaino in spalle.

Doreen spazza sul pavimento. «E poi non c’è niente di male a chiedere un po’ di aiuto, se hai bisogno di lezioni private... tuo padre non si arrabbierà, vedrai.»

Raggiungo la porta. «Doreen, di’ a papà che non c’è bisogno che mi venga a prendere, oggi.»

Doreen alza lo sguardo, due ciuffi di capelli scuri le sfiorano le guance. «Perché?»

«Ciao, Reen. »

Mi chiudo la porta alle spalle.

***

A fine giornata, Cameron mi è accanto sul suo skate, con le braccia distese in una specie di mossa di karate. Anche se ci sono almeno dieci centimetri a sollevarlo da terra, è sempre più basso di me.

«Come mai ti mischi alla plebe?»

«Non mi mischio alla plebe, ho detto solo che oggi prendo il pullman.»

«Cioè, ti mischi alla plebe.»

Cameron si ferma all’improvviso e si fa volare lo skate in mano, se lo sistema sotto il braccio e mi guarda con gli occhi assottigliati, come se avesse visto qualcosa di schifoso, tipo il pasticcio di carne della mensa.

«Lo dici sempre prima di salire sulla tua splendida Ferrari.» aggiunge.

«Non è mia, è di mio padre.»

«Capirai la differenza.»

Scuoto la testa, mentre una sonora risata attira la mia attenzione. Mi volto, una ragazza mi sbatte contro la spalla per passarmi accanto. Si gira verso di me, con le labbra lucide di rossetto e i capelli biondi lunghissimi.

«Scusa.» mi fa, e le sue amiche la raggiungono.

Le sorrido di rimando. «È tutto ok.»

Continua a sorridere, allontanandosi, mentre anche le sue amiche mi fissano per quel secondo in più che non guasta mai.

«L’hai vista?» mi chiede Cameron.

«I miei occhi funzionano.»

«Forse i suoi ne hanno diverse, di funzioni.»

«Perché?» chiedo, anche se quella bionda ora è solo una macchiolina in mezzo alla folla e non ho più nemmeno presente di che colore siano i suoi occhi.

«Era pareeeecchio interessata.» Cameron mi dà una gomitata.

Mi metto a ridere. «Se vuole, io sono qua.»

Cammino ancora verso il pullman. Il cielo è grigio, almeno per quel poco che posso vedere dalle nuvole che lo ricoprono. Nuvole nere, enormi.

La porta del bus si apre.

«Ci vediamo domani.» gli dico, mentre mi allontano. Volto leggermente la testa verso di lui, e così posso vederlo mentre alza la mano, piega il braccio e lo mette vicino alla tempia.

«Sissignore.»

Cameron. 

Scuoto la testa, senza trattenere una risata.

«E ricordati della rivincita alla Play.» mi grida.

«Goku o Vegeta, il migliore sono sempre io.»

«Convinto.» biascica. Lo saluto con la mano e salgo sul bus. All’interno, tutto è grigio come i contenitori che usa sempre Doreen per conservare i pezzi di pizza avanzati. Poggio la mano su un sedile, grigio un po’ più grigio del resto, lo stesso colore dei topi di fogna che sono stati l’ultima cosa che sono riuscito a vedere del documentario prima di addormentarmi durante l’ora di Biologia. Infilo una mano in tasca.

«Hai l’abbonamento?» mi chiede l’autista. Baffetti, occhiali grandi e rotondi.

«No, compro il biglietto.» Prendo una banconota da cinque, lui la afferra e la sostituisce con il biglietto, veloce. 

Cerco un posto degno di me fra la plebe.

Pff, mi sembra di sentire Cameron. Ok, cerco un posto fra i tanti puliti e comodissimi che ci possono essere. Lei hai capelli ricci, crespi, e allora passo direttamente all’altra, perché se è così non può essere lei

E scoprirò chi è.

Lei è rossa, e il suo sguardo incrocia il mio proprio quando mi soffermo a guardarla. Occhi verdi.

Non è lei.

Capelli neri. Biondi. Castani con ciocche blu in mezzo. Occhi azzurri, troppo grandi però. Occhi marroni.

Lei non c’è.

Raggiungo uno dei pochi posti ancora disponibili. Butto lo zaino a terra e mi siedo al posto che si affaccia al finestrino. Metto gli auricolari e la voce di Kurt Cobain mezzo fatto mi entra nelle orecchie, scazzata dal mondo e delusa, come me in questo momento.

Volto la testa.

La voce di Kurt Cobain continua a cantare ma io smetto di respirare, perché lei si sta passando una ciocca dietro l’orecchio. Capelli umidi, castani, qualche ciocca più scura per la pioggia che è appena cominciata a cadere. La porta dell’autobus che si chiude scandisce un battito che mi inciampa nel petto, mentre io deglutisco e lei si lascia andare sul sedile.

«Com’è andata oggi, Sarah?»

Sarah viene fuori dalla voce strascicata dai baffi dell’autista. Posso vedere il suo viso riflesso nel vetro, riflesso guastato dalle gocce che scendono fuori, gocce che prendono il posto dei suoi occhi, delle sue labbra, diventano le vene del suo collo. 

Pelle chiara. 

La linea del naso che le fa ombra sul viso.

«Al… solito.» risponde, dice, sussurra piano con una voce limpida. Si stringe le mani in grembo, come se avesse freddo, e allora mi costringo a respirare, a togliere una cuffietta dall’orecchio per ascoltarla.

«Non mi piace questa risposta, Sarah.»

Vedo le sue spalle alzarsi leggermente. «Non… può cambiare.»

«Tutto può cambiare, lo sai.»

Si volta. Il suo profilo sembra rischiarato da una luce, sullo sfondo della pioggia che cade, acquazzone, acqua che scende e bagna i vetri, fa un rumore che sembra imitare la batteria della canzone che sto ascoltando.

Abbassa lo sguardo sulla sua borsa e ne estrae un taccuino. Non riesco a vedere che cosa scrive: la vedo fermare la matita sulla carta, alzare lo sguardo di fronte a lei e poi tracciare qualcosa.

Soggetto pericoloso – Sarah sta sfogliando il suo taccuino.

Soggetto pericoloso – Sarah – dà uno sguardo al cellulare, la luce del display le illumina gli occhi, colore del cielo.

Soggetto pericoloso – Sarah – sussulta, quando il pullman si ferma all’ennesima fermata.

«Ultima fermata.» dice l’autista, ed io mi sto già alzando dal mio posto, anche se sarei dovuto scendere molto tempo fa.

Mi alzo la cerniera delle felpa.

Pioggia, fango, almeno due chilometri a piedi.

Non me ne importa più di tanto.

Mi importa di sapere chi è lei.

Scendo dalle scale del bus, veloce, giusto il tempo di voltarmi di nuovo e guardarla più da vicino.

Ehi, ciao. Ho trovato la tua foto fra la roba di mio padre. 

Sei un soggetto pericoloso.

Scende di qualche scalino, piano piano, e alza il viso.

Ti va di parlare un po’? Forse se so qualcosa di te saprò qualcosa anche su chi è mio padre, sai.

Forse saprò qualcosa su chi sono io.

Mi guarda.

Il vento le muove i capelli, le sfiorano il seno, sento il rumore del suo respiro e non riesco a muovermi, la sto guardando.

Camminava piano per paura di inciampare, ma forse è qualcosa di più serio.

Ce l’ha spiaccicata in faccia, la paura.

Come se avessero fatto un incidente: Sarah aveva la precedenza e la paura bastarda le ha tagliato la strada e le è andata addosso.

E poi non l’ha lasciata mai più.

Le si aggrotta la fronte, i suoi occhi sembrano più grandi, si sistema lo zaino su una spalla e trema, temperatura gelida di un pomeriggio d'Inverno.

Sbatte le ciglia e svolta verso destra.

È tardi.

È buio.

È freddo.

Sento il rombo del motore del bus che percorre la strada, mentre la guardo andare via. Si dissolve fra i bagliori che alleggiano in quei vetri che fanno i lampioni della strada.

Mi incammino verso casa.

Cerco di immaginare il motivo per cui dovrei stare lontano da lei.

*

*

*

*

Ciao a tutti! *.* Prima di tutto, ringrazio le splendide persone che mi hanno lasciato una recensione per il prologo... ben undici! <3 Grazie anche a chi ha inserito la storia fra le seguite, le ricordate e le preferite <3 Non me lo aspettavo, e sono davvero felicissima che abbiate accolto questa mia storia in modo così caloroso <3

In questo capitolo avete conosciuto un nuovo personaggio. Non vi parlo di lui, spero che più o meno vi siate fatti un'idea di com'è :) Accetto critiche e suggerimenti, naturalmente. Cerco sempre di fare meglio ed io spero di non deludervi <3

Grazie infinite, a tutti voi.

Ania <3

   
 
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