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Autore: Eryca    09/12/2012    3 recensioni
E allora mi rendo conto che, si, ha avuto senso fare questo lungo viaggio per arrivare fino a quello splendore, fino a quell’altissima costruzione, splendida ed elegante.
Questo è il mio viaggio.
L’ultimo viaggio.

*
Di estate Pisa è gremita di turisti, venuti da tutto il mondo per ammirare lo splendore della famosa Torre Pendente. Ma c’è anche qualcun altro, una persona di cui non è importante ricordare il nome, perché è una nullità. Una nullità corsa fino a Pisa per il suo ultimo viaggio.
*
Seconda Classificata e Vincitrice del Premio Giuria al contest "Un treno per...", sul forum di Efp.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ultimo viaggio

 

 

 

It’s getting’ dark

Too dark to see

Feels like I’m knockin’ on Heaven’s door

 

 

 

 

Non ricordo di preciso il giorno in cui mi addentrai in questo tunnel nero.

È tutto così opaco da quando vi sono entrato dentro, che mi riesce difficile distinguere ogni altro elemento se non la paura, il dolore, la solitudine, l’angoscia.

È passato così tanto tempo dall’ultimo giorno in cui ho scorto un barlume di luce che mi sono quasi dimenticato come sia sentirsi… felici.

Oh. Il solo sostantivo “felicità” mi fa crescere dentro una rabbia improvvisa, la voglia di strapparmi l’anima e calpestarla, di frantumarmi il cuore in mille piccoli, inutili pezzi.

È tutto così confuso…

Prendo l’i-Pod dallo zaino di scuola della Eastpak e indosso le cuffiette, cercando di estraniarmi ancora di più da questo mondo che non mi vuole, non mi ha mai accettato e mai mi accetterà.

Ho paura.

Il mio dito si muove dolcemente sul cursore bianco mentre faccio scorrere le tracce, in cerca di quell’unica, dannata canzone che non riesco a togliermi dalla testa e torna puntualmente nella mia memoria come un tormentone maledetto, un presagio a cui non si può scampare.

Eccola.

La faccio partire, pregustandomi il senso di smarrimento che proverò non appena sentirò la voce soave del cantante mormorare parole nere, parole senza speranza…

It’s gettin’ dark, too dark to see…

Oh, si. È veramente diventato tutto nero, troppo nero per vedere.

Ma, in fondo non posso farci nulla, non è una fatto alla mia portata, è semplicemente un essere superiore a me che mi schiaccia, mi tortura, mi impedisce di vedere la luce.

Ma poi, questa benedetta luce, esiste o è solo un’illusione creata dalla nostra mente?

… feels like I’m knockin’ on Heaven’s door…

No, non è proprio così. Io non mi ritroverò mai a bussare alle porte del Paradiso, a patto che sia questo fantomatico luogo; no, io sarò uno di quegli eterni dannati, condannati a trascorrere la loro vita nelle fiamme, nel fuoco, nel dolore.

Beh, mi consolo: non sarà poi tanto diverso da ciò che sto passando ora.

E quella voce disperata continua a cantare quella melodia punitiva…

È tutta colpa del Nulla.

È sempre successo tutto a causa del Nulla, loro non possono capirlo, non riusciranno mai a concepirlo nelle loro stupidi menti ottuse; ma io lo sento dentro la mia carne, mi sta mangiando gli organi interni, si, li rosicchia come se fossero degli spiedini e si diverte, perché sa che io, per colpa sua, non provo più niente, neanche il dolore.

No, è passato anche quello.

Penso a mia madre, forse a causa dei fiori che intravedo fuori dal finestrino, seduto su questo lercio sedile, su questo squallido treno nazionale; mia mamma adora le piante, le piacciono i tulipani: sostiene siano allegri, gioiosi, quasi dei preannunciatori del bel tempo.

È primavera, mia madre ama questa stagione.

Sarà certamente in giardino, con i suoi guanti verdi e il cappellino di paglia, a potare i rami degli alberi da frutta, a sistemare le aiuole, perché almeno quest’anno devono essere più belle di quelle del vicino, altrimenti che figura ci farebbe?

Lei. Io. Nulla.

Non mi ha mai capito, non ci ha mai provato o forse non le interessava un granché il fatto che suo figlio stesse entrando in un buco nero, che poco a poco lo avrebbe risucchiato fino a farlo opacizzare, scolorire, sfumare, sfocare… svanire.

E adesso che cosa starai facendo, eh, mamma? Probabilmente niente, non te ne frega un cazzo di me, sei come tutti gli altri. Sei sempre stata come loro.

E la canzone rimbomba, entra nel mio cervello, attacca il mio sistema nervoso, quasi a voler assicurarsi che quelle note depresse non escano mai dalla mia mente. Devono restare lì.

Da quanto tempo sono su questo dannato treno? Ho perso la cognizione del tempo.

Ho perso tutto.

Sento delle persone ridere, nei sedili più avanti, sembrano felici con le loro valigie e le borse stracolme di regali, forse per i figli, gli amici; chissà, magari stanno andando a trovare il nipotino appena nato, a fargli gli auguri per la sua vita.

Be’, caro, non sai cosa ti aspetta.

 

Il paesaggio al di fuori di questo treno è sempre uguale, da quasi un’ora: i campi arati fanno da cornice, mentre ciò che davvero attira la mia attenzione sono le spighe di grano, alte ed orgogliose; probabilmente il contadino che ha creato questo splendore deve aver passato più tempo nei prati che a casa con sua moglie e i bambini. Magari hanno divorziato, adesso.

Ci fermiamo e i miei occhi scorgono un cartellone informativo, che mi fa capire di essere alla stazione di un paesino sperduto nei meandri della Toscana.

Sono vicino alla meta, allora.

Mi rendo conto che la canzone continua, nonostante io sia concentrato su quanto questo posto sia fatiscente: i marciapiedi hanno quasi tutti i ciottoli saltati e le obliteratrici sono tutte fuori servizio.

Perché il mondo crolla?

… That cold black cloud is comin' down …

Alzo gli occhi e mi rendo conto che il cielo è davvero decorato da minacciose nuvole nere, ora. Ma quanto sono arrivate? Fino a poco tempo fa, c’era un gran bel sole.

Quel detto “dopo un temporale arriva sempre il sole” è una vera fandonia, che si sono inventati degli stolti per non ammettere quanto la loro vita fosse misera, senza senso.

Io direi che dopo un nanosecondo impercettibile di sole torna sempre un infinito temporale.

Ecco, così si che funziona. Ora è veritiero.

Sento il pianto di un bambino piccolo e mi rendo conto che anche sulle mie guance stanno scorrendo fiumi di lacrime, in sincronia con il neonato.

Da quanto tempo è che piango?

Da sempre.

Mi rendo conto che ho preso la decisione giusta, che la mia vita non ha un motivo per continuare ad esistere, che non valgo niente, che l’uomo non vale niente, che tutto questo è solo un ridicolo gioco del destino, che non siamo niente; capisco che non è importante se ho lasciato casa mia poche ore prima per scappare, cercando un niente, fuggendo da un niente.

Non è grave se mia madre e mio padre sono disperati cercando di ritrovarmi, se le loro vite non saranno più le stesse, quando li chiameranno.

Io ho fatto questo viaggio in treno per un motivo.

Mi farò fuori. Mi ucciderò.

E non posso di certo farlo a Milano, quel posto fetido e schifoso che ho sempre odiato, che mi ha reso la vita un tale inferno. No, voglio morire in un luogo prestigioso, in modo da potermi credere un minimo degno, anche se so benissimo che non è così.

Sento le voci dell’altoparlante gracchiare.

Sono arrivato.

Pisa. Stazione di Pisa.

 

 

 

****

 

 

 

Sembra una bella città, questa.

Ci sono strade ben tenute e ristoranti di lusso, contornati da turisti venuti qui da tutto il mondo, quelle tristi riproduzioni delle carrozze ottocentesche e aiuole riempite in malo modo di fiori colorati.

Finzione.

Ho sempre pensato che Pisa fosse una città magnifica, una culla di storia e sapienza, di arte e vanità, dove i più prestigiosi scienziati dell’antichità avevano soggiornato.

Invece è solo l’esatta copia di ogni altro luogo del pianeta: viscido, schifoso, superficiale, falso.

Ma non ha più importanza, oramai, perché non cambierà nulla il posto, sono tutti uguali, tutti squallidi, contaminati dall’essenza distruttiva del genere umano, dalla sua aggressività.

Quindi, in qualsiasi paese io andrò, troverò sempre la stessa sensazione di non appartenenza.

Non faccio parte di tutto ciò.

Non c’è un motivo preciso per il quale ho deciso di togliermi la vita, no; non c’è stato un fattore scatenante, come la rottura di un fidanzamento, la morte di una persona cara, la scoperta di una malattia mortale.

Semplicemente, non sono parte del mondo, per quanto io abbia provato ad esserlo.

E che senso ha continuare a vagabondare in un buco nero in cui nessuno ti desidera, ti cerca? Perché dovrei impormi questo supplizio, se nessuno avrà mai una parola buona per me?

La morta sembra una prospettiva allettante se messa in confronto a tutto ciò.

Ma non ha senso continuare a crogiolarmi nella mia depressione, in fondo ci sguazzo dentro da quando sono bambino, non ci faccio neanche più caso.

… it’s gettin’ dark too dark to see…

È troppo tempo che non vedo, oscurato dall’oscurità che ha preso il sopravvento, rendendomi impossibile apprezzare i dettagli di questa vita.

Questa vita che mi tortura, che mi ha ucciso. Si, perché io sono già morto, mi ha ammazzato il mondo. Il mondo infame.

«Mi scusi, signora…» la mia voce risulta debole, una fievole fiammella al chiaro di luna, esattamente come me, che tengo gli occhi socchiusi per paura di guardare il sole.

Sono già morto.

Nessuno si ferma al mio richiamo, è ovvio, me lo sarei dovuto aspettare; sono invisibile, lo sono sempre stato, le persone non mi vedono, non mi ascoltano.

Non mi sentono.

Mi faccio spazio tra la folla spingente, cercando di trovare un piccolo varco per sgattaiolare via: non mi piacciono le persone, non amo stare nei luoghi in cui gli occhi si possono puntare su di me, mi fanno paura.

Io ho sempre avuto paura.

Inizio a correre tirando gomitate alla gente, che finalmente mi nota e inizia a gridarmi contro parole vuote, insulti che non mi feriscono neanche più. Sono come serpenti, sibilano alla mia vista, sperando di farmi del male, di vedermi gemere.

Ma non mi fanno più alcun effetto, il dolore più grande me lo infliggo da solo.

Corro disperatamente, come un pazzo in cerca della sua via di uscita.

E poi la vedo.

Alta, fiera si staglia nel cielo, spezzando quel paesaggio cittadino, dando a tutto ciò le sta intorno un’aria tronfia, orgogliosa.

La Torre di Pisa.

E allora mi rendo conto che, si, ha avuto senso fare questo lungo viaggio per arrivare fino a quello splendore, fino a quell’altissima costruzione, splendida ed elegante.

Questo è il mio viaggio.

L’ultimo viaggio.

Voglio che sia spettacolare, almeno la mia morte, che lasci il segno a differenza di ciò che è stata la mia vita; forse la morte è davvero rinascita per me.

Non sento più le persone che schiamazzano, i giapponesi che fanno foto a qualsiasi monumento, le guide turistiche che scortano persone vicino all’imponente torre.

Esiste solo più il mio intento.

Prendo a camminare, anche se non so bene come ci sono riuscito, perché le gambe non rispondono ai miei richiami, vanno avanti come un motore autonomo che sa già dove andare.

Dev’essere così che ci si sente al punto di morte: consapevoli.

Non mi fermo nemmeno quando incontro un’aiuola, la calpesto e vado avanti, consapevole del fatto che non importa se una guardia mi verrà a sgridare, perché sto per morire.

Sono già morto.

Vedo una famiglia riunirsi orizzontalmente, le spalle abbracciate l’uno con l’altro, il sorriso gioioso stampato sui loro visi, la macchina fotografica tenuta in mano da un passante, che gentilmente gli scatta quell’immagine. Sembrano felici.

Loro sono vivi.

Io sono morto.

Credo che i miei occhi siano vuoti, senza più alcuna emozione… L’apatia può essere considerata tale? Non credo proprio.

Attraverso il bel giardino che si trova davanti alla torre, è ben tenuto, con l’erbetta verde tagliata: perfetto per le persone venute qui, magari viaggiando per ore.

Anche io ho viaggiato su un fetido treno per poter essere davanti a questa magnificenza, per trovarmi in questa Pisa superba che mi guarda dall’alto al basso, senza neanche considerarmi, ma cambierà idea, farà vedere al mondo intero chi sono.

Sono un morto.

L’impeto di vittoria e vendetta si spegne in me, non appena la consapevolezza di essere un nulla travestito da festa torna in me. Chi voglio prendere in giro? Prima finisco questa faccenda, meglio è.

«Potrebbe essere così gentile da scortarsi, signore? Vorrei fotografare la torre.»

 Sta parlando con me, quest’omino dagli occhi svegli e il sorriso furbetto? Si, mi sta fissando.

Scoppio a ridere come non ho mai fatto in tutta la mia non-vita e mi rendo conto che sembro uno stupido, che sono ridicolo e l’uomo adesso mi guarda con aria sconvolta, pensando che sono pazzo.

Oh, dio. Io sono davvero pazzo!

Rido ancora di più non appena quel pensiero mi colpisce. Non ci riesco, a smettere, ci sto provando ma è così divertente sapere che l’unica persona che mi ha notato, l’ha fatto solo perché ero in mezzo alla sua visuale: gli ero d’intralcio.

Lascio lì quel signore, mi asciugo le lacrime che mi hanno rigato le guance: sono dovute un po’ alle risate, un po’ al pianto che esse hanno scaturito.

Mi metto in coda per entrare alla torre, ho già acquistato il biglietto via internet, con la carte che i miei genitori mi hanno dato, sperando che comprando videogiochi mi avrebbe tirato su di morale.

Mamma, so che non vedi l’ora di sapermi morto.

Ma io sono già morto.

 I poliziotti stanno di guardia, una corda rossa che mi separa dall’ingresso. Mi tasto la tasca sinistra e tiro un sospiro di sollievo quando sento che c’è ancora.

Sorrido ad uno dei due agenti, quando mi chiedono il ticket: ho imparato a fingere, mi viene semplice increspare le labbra in un’imitazione spenta di un riso.

Anni ed anni di allenamento, in fondo.

Sono dentro.

Pensavo mi avrebbe fatto una strana sensazione ritrovarmi in quel luogo, invece rimango pacato, capendo che la decisione di farla finita è giusta: non mi emoziono di fronte a nulla, neanche alla mia morte.

Certo, perché sono già morto.

Non sono l’unico in quella stramba costruzione inclinata, anzi, è gremita di gente che spera di essere trascinata in un’altra dimensione, in un’altra epoca, dove il consumismo non era ancora presente e loro sarebbero stati migliori.

Ma è solo un’illusione, come tutto il resto, d’altronde.

Salgo le strette e ripide scale, senza soffermarmi sull’antichità e l’importanza storica della torre in cui mi trovo, ma solamente al mio obiettivo, quello di arrivare in cima.

 E poi?

Poi non lo so; ignoro cosa farò quando arriverò alla vetta, esattamente come non conosco il motivo per cui avevo così la smania di arrivare in questa dannata città, su questo dannato edificio.

Forse mi sentirò sopra al mondo, per qualche attimo riuscirò a credere di essere qualcuno.

Mi illudo.

Questa torre mi ha sempre affascinato per la sua particolarità, perché riuscivo ad immedesimarmi in essa: è splendente, eppure storta, inclinata, diversa.

Continuo a salire e non mi fermo alle sale, dove gli altri turisti si piazzano a guardare ogni minimo dettaglio: non sono qui in gita culturale, no.

Il mio obiettivo è arrivare all’ottavo livello della torre, in cima.

Cammino così tanto che mi fanno male le gambe, non so dire da quanto tempo salgo, quanto manca alla vetta, ma sento persone fermarsi per terrore dell’altezza, quindi devo essere vicino.

Ci sono, ci sono quasi, mi dico.

E poi arrivo.

Esco sul tetto e vedo le guardie ovunque, mi putano gli occhi addosso, siamo in pochi ad essere arrivati fin quassù, forse un paio di uomini; si sente la pendenza, mi sembra di essere in bilico, ho la nausea, non è una gran bella sensazione.

Questo edificio è davvero unico.

Tasto la tasca sinistra, è ancora lì, rigido, pulito, pronto per l’uso. Gli agenti non mi danno troppa importanza, sono più preoccupati a controllare gli uomini di mezza età che guardano il panorama, scambiandosi foto e commenti.

Devono essere felici, di quella loro vacanza.

Questo è l’ultimo viaggio per me, sapete?

Per fare tutto avrò circa qualche istante, niente di troppo doloroso, ma se voglio giungere al termine devo essere scattante, veloce. So di esserne capace, nessuno sospetterebbe mai di un giovane dall’aria timida ed innocua, come me.

Sento il vento scompigliarmi i capelli. Tra poco ci chiederanno di scendere, quindi devo farlo.

Ora.

Lo so, è così che deve andare, questa è la morte che ho sempre progettato, desiderato, anche se non so bene il perché. Sorrido. Sono proprio matto.

Le guardie guardano gli altri, infilo la mano nella tasca sinistra e tiro fuori il pugnale, gettando a terra la fodera in cui lo avevo avvolto.

Gli agenti adesso mi hanno visto, vengono verso di me con i manganelli in mano, pronti a fermarmi, ma io sono più veloce: in fondo è tutta la vita che mi preparo per questo momento.

Un colpo solo, perfetto.

Dritto nel mio cuore.

Non avrei potuto avere più mira, penso accasciandomi a terra, mentre sento il sangue scorrere veloce, imbrattandomi tutta la maglia. La vista mi si offusca, sento delle grida, delle mani toccarmi.

Ma non ha più importanza, perché ci sono riuscito.

Chiudo gli occhi, sento l’aria rinfrescarmi il viso, mentre la voce di Axl Rose canta a squarciagola nella mia testa, ormai confusa.

… it’s gettin’ dark too dark to see …

Finalmente sono felice, proprio come avevo sempre pensato: sapevo che la morte mi avrebbe fatto rinascere, mi avrebbe reso possibile capire quanto è bello vivere.

È andato tutto proprio come volevo, in questo mio ultimo viaggio, riesco ancora a pensare, prima che la morte mi porti via con lei.

 

Era proprio così che avevo immaginato di andarmene.

 

 

 

 

Fine

*

*

Questa storia è arrivata seconda e ha vinto il Premio Giuria come storia più apprezzata al contest "Un treno per...", indetto da Esis, sul forum di Efp. 

   
 
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