L’ultimo
viaggio
It’s
getting’ dark
Too
dark to see
Feels
like I’m knockin’ on Heaven’s door
Non ricordo di
preciso il giorno in cui mi addentrai in questo tunnel nero.
È
tutto così
opaco da quando vi sono entrato dentro, che mi riesce difficile
distinguere
ogni altro elemento se non la paura, il dolore, la solitudine,
l’angoscia.
È
passato
così tanto tempo dall’ultimo giorno in cui ho
scorto un barlume di luce che mi
sono quasi dimenticato come sia sentirsi… felici.
Oh.
Il solo
sostantivo “felicità” mi fa
crescere dentro una rabbia improvvisa, la voglia di strapparmi
l’anima e
calpestarla, di frantumarmi il cuore in mille piccoli, inutili pezzi.
È
tutto così
confuso…
Prendo
l’i-Pod dallo zaino di scuola della Eastpak e indosso le
cuffiette, cercando di
estraniarmi ancora di più da questo mondo che non mi vuole,
non mi ha mai
accettato e mai mi accetterà.
Ho paura.
Il mio dito
si muove dolcemente sul cursore bianco mentre faccio scorrere le
tracce, in
cerca di quell’unica, dannata canzone che non riesco a
togliermi dalla testa e
torna puntualmente nella mia memoria come un tormentone maledetto, un
presagio
a cui non si può scampare.
Eccola.
La faccio
partire, pregustandomi il senso di smarrimento che proverò
non appena sentirò
la voce soave del cantante mormorare parole nere, parole senza
speranza…
It’s gettin’
dark, too dark to see…
Oh, si.
È
veramente diventato tutto nero, troppo nero per vedere.
Ma, in fondo
non posso farci nulla, non è una fatto alla mia portata,
è semplicemente un
essere superiore a me che mi schiaccia, mi tortura, mi impedisce di
vedere la
luce.
Ma poi,
questa benedetta luce, esiste o è solo
un’illusione creata dalla nostra mente?
… feels like
I’m knockin’ on Heaven’s door…
No, non
è
proprio così. Io non mi ritroverò mai a bussare
alle porte del Paradiso, a
patto che sia questo fantomatico luogo; no, io sarò uno di
quegli eterni
dannati, condannati a trascorrere la loro vita nelle fiamme, nel fuoco,
nel
dolore.
Beh, mi
consolo: non sarà poi tanto diverso da ciò che
sto passando ora.
E quella
voce disperata continua a cantare quella melodia punitiva…
È
tutta colpa del Nulla.
È
sempre
successo tutto a causa del Nulla, loro non possono capirlo, non
riusciranno mai
a concepirlo nelle loro stupidi menti ottuse; ma io lo sento dentro la
mia
carne, mi sta mangiando gli organi interni, si, li rosicchia come se
fossero
degli spiedini e si diverte, perché sa che io, per colpa
sua, non provo più
niente, neanche il dolore.
No, è
passato anche quello.
Penso a mia
madre, forse a causa dei fiori che intravedo fuori dal finestrino,
seduto su
questo lercio sedile, su questo squallido treno nazionale; mia mamma
adora le
piante, le piacciono i tulipani: sostiene siano allegri, gioiosi, quasi
dei
preannunciatori del bel tempo.
È
primavera,
mia madre ama questa stagione.
Sarà
certamente in giardino, con i suoi guanti verdi e il cappellino di
paglia, a
potare i rami degli alberi da frutta, a sistemare le aiuole,
perché almeno
quest’anno devono essere più belle di quelle del
vicino, altrimenti che figura
ci farebbe?
Lei.
Io. Nulla.
Non mi ha
mai capito, non ci ha mai provato o forse non le interessava un
granché il
fatto che suo figlio stesse entrando in un buco nero, che poco a poco
lo
avrebbe risucchiato fino a farlo opacizzare, scolorire, sfumare,
sfocare… svanire.
E
adesso che cosa starai facendo, eh, mamma?
Probabilmente niente, non te ne frega un cazzo di me, sei come tutti
gli altri.
Sei sempre stata come loro.
E la canzone
rimbomba, entra nel mio cervello, attacca il mio sistema nervoso, quasi
a voler
assicurarsi che quelle note depresse non escano mai dalla mia mente.
Devono
restare lì.
Da quanto
tempo sono su questo dannato treno? Ho perso la cognizione del tempo.
Ho perso
tutto.
Sento delle
persone ridere, nei sedili più avanti, sembrano felici con
le loro valigie e le
borse stracolme di regali, forse per i figli, gli amici;
chissà, magari stanno
andando a trovare il nipotino appena nato, a fargli gli auguri per la
sua vita.
Be’,
caro, non sai cosa ti aspetta.
Il
paesaggio al di fuori di questo treno è sempre uguale, da
quasi un’ora: i campi
arati fanno da cornice, mentre ciò che davvero attira la mia
attenzione sono le
spighe di grano, alte ed orgogliose; probabilmente il contadino che ha
creato
questo splendore deve aver passato più tempo nei prati che a
casa con sua moglie
e i bambini. Magari hanno divorziato, adesso.
Ci
fermiamo e i miei occhi scorgono un cartellone informativo, che mi fa
capire di
essere alla stazione di un paesino sperduto nei meandri della Toscana.
Sono
vicino alla meta, allora.
Mi
rendo conto che la canzone continua, nonostante io sia concentrato su
quanto
questo posto sia fatiscente: i marciapiedi hanno quasi tutti i ciottoli
saltati
e le obliteratrici sono tutte fuori servizio.
Perché
il mondo crolla?
…
That cold black cloud is comin' down …
Alzo
gli occhi e mi rendo conto che il cielo è davvero decorato
da minacciose nuvole
nere, ora. Ma quanto sono arrivate? Fino a poco tempo fa,
c’era un gran bel
sole.
Quel
detto “dopo un temporale arriva sempre il sole”
è una vera fandonia, che si
sono inventati degli stolti per non ammettere quanto la loro vita fosse
misera,
senza senso.
Io
direi che dopo un nanosecondo
impercettibile di sole torna sempre un infinito temporale.
Ecco,
così si che funziona. Ora è veritiero.
Sento
il pianto di un bambino piccolo e mi rendo conto che anche sulle mie
guance
stanno scorrendo fiumi di lacrime, in sincronia con il neonato.
Da
quanto tempo è che piango?
Da
sempre.
Mi
rendo conto che ho preso la decisione giusta, che la mia vita non ha un
motivo
per continuare ad esistere, che non valgo niente, che l’uomo
non vale niente,
che tutto questo è solo un ridicolo gioco del destino, che
non siamo niente;
capisco che non è importante se ho lasciato casa mia poche
ore prima per
scappare, cercando un niente, fuggendo da un niente.
Non
è grave se mia madre e mio padre sono disperati cercando di
ritrovarmi, se le
loro vite non saranno più le stesse, quando li chiameranno.
Io
ho fatto questo viaggio in treno per un motivo.
Mi
farò fuori. Mi ucciderò.
E
non posso di certo farlo a Milano, quel posto fetido e schifoso che ho
sempre
odiato, che mi ha reso la vita un tale inferno. No, voglio morire in un
luogo
prestigioso, in modo da potermi credere un minimo degno, anche se so
benissimo
che non è così.
Sento
le voci dell’altoparlante gracchiare.
Sono
arrivato.
Pisa.
Stazione di Pisa.
****
Sembra
una bella città, questa.
Ci
sono strade ben tenute e ristoranti di lusso, contornati da turisti
venuti qui
da tutto il mondo, quelle tristi riproduzioni delle carrozze
ottocentesche e aiuole
riempite in malo modo di fiori colorati.
Finzione.
Ho
sempre pensato che Pisa fosse una città magnifica, una culla
di storia e
sapienza, di arte e vanità, dove i più
prestigiosi scienziati dell’antichità
avevano soggiornato.
Invece
è solo l’esatta copia di ogni altro luogo del
pianeta: viscido, schifoso,
superficiale, falso.
Ma
non ha più importanza, oramai, perché non
cambierà nulla il posto, sono tutti
uguali, tutti squallidi, contaminati dall’essenza distruttiva
del genere umano,
dalla sua aggressività.
Quindi,
in qualsiasi paese io andrò, troverò sempre la
stessa sensazione di non
appartenenza.
Non
faccio parte di tutto ciò.
Non
c’è un motivo preciso per il quale ho deciso di
togliermi la vita, no; non c’è
stato un fattore scatenante, come la rottura di un fidanzamento, la
morte di
una persona cara, la scoperta di una malattia mortale.
Semplicemente,
non sono parte del mondo, per quanto io abbia provato ad esserlo.
E
che senso ha continuare a vagabondare in un buco nero in cui nessuno ti
desidera,
ti cerca? Perché dovrei impormi questo supplizio, se nessuno
avrà mai una
parola buona per me?
La
morta sembra una prospettiva allettante se messa in confronto a tutto
ciò.
Ma
non ha senso continuare a crogiolarmi nella mia depressione, in fondo
ci sguazzo
dentro da quando sono bambino, non ci faccio neanche più
caso.
…
it’s gettin’ dark too dark to see…
È
troppo tempo che non vedo, oscurato
dall’oscurità che ha preso il sopravvento,
rendendomi impossibile apprezzare i
dettagli di questa vita.
Questa
vita che mi tortura, che mi ha ucciso. Si, perché io sono
già morto, mi ha
ammazzato il mondo. Il mondo infame.
«Mi
scusi, signora…» la mia voce risulta debole, una
fievole fiammella al chiaro di
luna, esattamente come me, che tengo gli occhi socchiusi per paura di
guardare
il sole.
Sono
già morto.
Nessuno
si ferma al mio richiamo, è ovvio, me lo sarei dovuto
aspettare; sono
invisibile, lo sono sempre stato, le persone non mi vedono, non mi
ascoltano.
Non
mi sentono.
Mi
faccio spazio tra la folla spingente, cercando di trovare un piccolo
varco per
sgattaiolare via: non mi piacciono le persone, non amo stare nei luoghi
in cui
gli occhi si possono puntare su di me, mi fanno paura.
Io
ho sempre avuto paura.
Inizio
a correre tirando gomitate alla gente, che finalmente mi nota e inizia
a
gridarmi contro parole vuote, insulti che non mi feriscono neanche
più. Sono
come serpenti, sibilano alla mia vista, sperando di farmi del male, di
vedermi
gemere.
Ma
non mi fanno più alcun effetto, il dolore più
grande me lo infliggo da solo.
Corro
disperatamente, come un pazzo in cerca della sua via di uscita.
E
poi la vedo.
Alta,
fiera si staglia nel cielo, spezzando quel paesaggio cittadino, dando a
tutto
ciò le sta intorno un’aria tronfia, orgogliosa.
La
Torre di Pisa.
E
allora mi rendo conto che, si, ha avuto senso fare questo lungo viaggio
per
arrivare fino a quello splendore, fino a quell’altissima
costruzione, splendida
ed elegante.
Questo
è il mio viaggio.
L’ultimo
viaggio.
Voglio
che sia spettacolare, almeno la mia morte, che lasci il segno a
differenza di
ciò che è stata la mia vita; forse la morte
è davvero rinascita per
me.
Non
sento più le persone che schiamazzano, i giapponesi che
fanno foto a qualsiasi
monumento, le guide turistiche che scortano persone vicino
all’imponente torre.
Esiste
solo più il mio intento.
Prendo
a camminare, anche se non so bene come ci sono riuscito,
perché le gambe non
rispondono ai miei richiami, vanno avanti come un motore autonomo che
sa già
dove andare.
Dev’essere
così che ci si sente al punto di morte: consapevoli.
Non
mi fermo nemmeno quando incontro un’aiuola, la calpesto e
vado avanti,
consapevole del fatto che non importa se una guardia mi
verrà a sgridare,
perché sto per morire.
Sono
già morto.
Vedo
una famiglia riunirsi orizzontalmente, le spalle abbracciate
l’uno con l’altro,
il sorriso gioioso stampato sui loro visi, la macchina fotografica
tenuta in
mano da un passante, che gentilmente gli scatta
quell’immagine. Sembrano
felici.
Loro
sono vivi.
Io
sono morto.
Credo
che i miei occhi siano vuoti, senza più alcuna
emozione… L’apatia può essere
considerata tale? Non credo proprio.
Attraverso
il bel giardino che si trova davanti alla torre, è ben
tenuto, con l’erbetta
verde tagliata: perfetto per le persone venute qui, magari viaggiando
per ore.
Anche
io ho viaggiato su un fetido treno per poter essere davanti a questa
magnificenza, per trovarmi in questa Pisa superba che mi guarda
dall’alto al
basso, senza neanche considerarmi, ma cambierà idea,
farà vedere al mondo
intero chi sono.
Sono
un morto.
L’impeto
di vittoria e vendetta si spegne in me, non appena la consapevolezza di
essere
un nulla travestito da festa torna
in
me. Chi voglio prendere in giro? Prima finisco questa faccenda, meglio
è.
«Potrebbe
essere così gentile da scortarsi, signore? Vorrei
fotografare la torre.»
Sta
parlando con me, quest’omino dagli occhi
svegli e il sorriso furbetto? Si, mi sta fissando.
Scoppio
a ridere come non ho mai fatto in tutta la mia non-vita
e mi rendo conto che sembro uno stupido, che sono ridicolo
e l’uomo adesso mi guarda con aria sconvolta, pensando che
sono pazzo.
Oh,
dio. Io sono davvero pazzo!
Rido
ancora di più non appena quel pensiero mi colpisce. Non ci
riesco, a smettere,
ci sto provando ma è così divertente sapere che
l’unica persona che mi ha
notato, l’ha fatto solo perché ero in mezzo alla
sua visuale: gli ero d’intralcio.
Lascio
lì quel signore, mi asciugo le lacrime che mi hanno rigato
le guance: sono
dovute un po’ alle risate, un po’ al pianto che
esse hanno scaturito.
Mi
metto in coda per entrare alla torre, ho già acquistato il
biglietto via
internet, con la carte che i miei genitori mi hanno dato, sperando che
comprando videogiochi mi avrebbe tirato su di morale.
Mamma,
so che non vedi l’ora di
sapermi morto.
Ma
io sono già morto.
I
poliziotti stanno di guardia, una corda
rossa che mi separa dall’ingresso. Mi tasto la tasca sinistra
e tiro un sospiro
di sollievo quando sento che c’è
ancora.
Sorrido
ad uno dei due agenti, quando mi chiedono il ticket: ho imparato a
fingere, mi
viene semplice increspare le labbra in un’imitazione spenta
di un riso.
Anni
ed anni di allenamento, in fondo.
Sono
dentro.
Pensavo
mi avrebbe fatto una strana sensazione ritrovarmi in quel luogo, invece
rimango
pacato, capendo che la decisione di farla finita è giusta:
non mi emoziono di
fronte a nulla, neanche alla mia morte.
Certo,
perché sono già morto.
Non
sono l’unico in quella stramba costruzione inclinata, anzi,
è gremita di gente
che spera di essere trascinata in un’altra dimensione, in
un’altra epoca, dove
il consumismo non era ancora presente e loro sarebbero stati migliori.
Ma
è solo un’illusione, come tutto il resto,
d’altronde.
Salgo
le strette e ripide scale, senza soffermarmi
sull’antichità e l’importanza
storica della torre in cui mi trovo, ma solamente al mio obiettivo,
quello di
arrivare in cima.
E
poi?
Poi
non lo so; ignoro cosa farò quando arriverò alla
vetta, esattamente come non
conosco il motivo per cui avevo così la smania di arrivare
in questa dannata
città, su questo dannato edificio.
Forse
mi sentirò sopra al mondo, per qualche attimo
riuscirò a credere di essere qualcuno.
Mi
illudo.
Questa
torre mi ha sempre affascinato per la sua particolarità,
perché riuscivo ad
immedesimarmi in essa: è splendente, eppure storta,
inclinata, diversa.
Continuo
a salire e non mi fermo alle sale, dove gli altri turisti si piazzano a
guardare ogni minimo dettaglio: non sono qui in gita culturale, no.
Il
mio obiettivo è arrivare all’ottavo livello della
torre, in cima.
Cammino
così tanto che mi fanno male le gambe, non so dire da quanto
tempo salgo,
quanto manca alla vetta, ma sento persone fermarsi per terrore
dell’altezza,
quindi devo essere vicino.
Ci
sono, ci sono quasi, mi
dico.
E
poi arrivo.
Esco
sul tetto e vedo le guardie ovunque, mi putano gli occhi addosso, siamo
in
pochi ad essere arrivati fin quassù, forse un paio di
uomini; si sente la
pendenza, mi sembra di essere in bilico, ho la nausea, non è
una gran bella
sensazione.
Questo
edificio è davvero unico.
Tasto
la tasca sinistra, è ancora lì, rigido, pulito,
pronto per l’uso. Gli agenti
non mi danno troppa importanza, sono più preoccupati a
controllare gli uomini
di mezza età che guardano il panorama, scambiandosi foto e
commenti.
Devono
essere felici, di quella loro vacanza.
Questo
è l’ultimo viaggio per me,
sapete?
Per
fare tutto avrò circa qualche istante, niente di troppo
doloroso, ma se voglio
giungere al termine devo essere scattante, veloce. So di esserne
capace,
nessuno sospetterebbe mai di un giovane dall’aria timida ed
innocua, come me.
Sento
il vento scompigliarmi i capelli. Tra poco ci chiederanno di scendere,
quindi
devo farlo.
Ora.
Lo
so, è così che deve andare, questa è
la morte che ho sempre progettato,
desiderato, anche se non so bene il perché. Sorrido. Sono
proprio matto.
Le
guardie guardano gli altri, infilo la mano nella tasca sinistra e tiro
fuori il
pugnale, gettando a terra la fodera
in cui lo avevo avvolto.
Gli
agenti adesso mi hanno visto, vengono verso di me con i manganelli in
mano,
pronti a fermarmi, ma io sono più veloce: in fondo
è tutta la vita che mi
preparo per questo momento.
Un
colpo solo, perfetto.
Dritto
nel mio cuore.
Non
avrei potuto avere più mira, penso accasciandomi a terra,
mentre sento il
sangue scorrere veloce, imbrattandomi tutta la maglia. La vista mi si
offusca,
sento delle grida, delle mani toccarmi.
Ma
non ha più importanza, perché ci sono riuscito.
Chiudo
gli occhi, sento l’aria rinfrescarmi il viso, mentre la voce
di Axl Rose canta
a squarciagola nella mia testa, ormai confusa.
…
it’s gettin’ dark too dark to see …
Finalmente
sono felice, proprio come avevo sempre pensato: sapevo che la morte mi
avrebbe
fatto rinascere, mi avrebbe reso possibile capire quanto è
bello vivere.
È
andato tutto proprio come volevo,
in questo mio ultimo viaggio, riesco ancora a
pensare, prima che la morte mi porti via con lei.
Era proprio così
che avevo
immaginato di andarmene.
Fine
*
*
Questa storia è arrivata seconda e ha vinto il Premio Giuria come storia più apprezzata al contest "Un treno per...", indetto da Esis, sul forum di Efp.