C’è un sacco di oro
là fuori, lontano
Il tesoro che ho trovato è più che sufficiente
Dobbiamo andare alle montagne lontane
Al di là di montagne e per mari
Alla vecchia montagna dove il vecchio drago riposa
Cieco, nell’oscura notte dei sotterranei
Dio, ti prego, portami
via da qui…
Blind Guardian “The Hobbit”
I |
l sole picchiava impietoso sui miei capelli neri. I miei occhi grigi riuscivano a malapena a mettere a fuoco il paesaggio attorno a me ed il mio cervello era impegnato nello sforzo di indirizzare un piede davanti all’altro, ancora ed ancora. Era il sesto giorno ormai che percorrevo quella landa desolata e la mia schiena portava i segni dei miei giacigli notturni, poco più che lastre di ardesia dure e taglienti. A peggiorare la situazione, le cinghie che assicuravano l’anello di bronzo che reggeva la spada, mordevano la pelle delle spalle, irritata dal sole e dal sudore secco.
Intendiamoci, non che in quel momento mi preoccupassi granché del mio aspetto fisico. Sapevo di
apparire gonfio ed arrossato ma non mi importava. Le
mie uniche preoccupazioni, oltre al mettere un piede davanti all’altro senza
inciampare, erano quelle di trovare acqua e cibo, e possibilmente un po’
d’ombra.
Ad un certo punto il mio cervello si sforzò di farmi
mettere a fuoco qualcosa. Beh, devo averci messo più di qualche secondo, direi
quasi un minuto per farlo. Ma, per Istar,
se quello non era un gruppetto di palme, allora era il migliore dei miraggi a
cui avevo mai assistito. Anche perché, in fin dei conti era
l’unico a cui avessi mai assistito.
Grazie a qualcuno lassù, non era un miraggio. Mentre mi avvicinavo agli alberi avrei dovuto notare le
impronte di una cavalcatura, ma al mio cervello, lo sforzo di farmi notare la
possibile salvezza era costato troppo.
Giunsi alle palme e mi accasciai contro un tronco,
lieto di quell’ombra. Guardai in alto e vidi i datteri
che trasudavano il loro dolce succo. Più in là, quasi a testimoniare la
presenza di acqua sotto quella terra brulla, un cactus
pieno di fiorellini azzurri si ergeva in tutto il suo turgore, mentre una
lucertola si crogiolava al sole cocente.
Con uno sforzo costrinsi i miei muscoli ad
obbedirmi. Mi avvicinai al cactus e lo decapitai con un colpo di spada.
Affondai i denti e la faccia nella frescura offerta dalla linfa e masticai le
fibre della pianta fino a succhiarne tutto il liquido aspro.
Dopo qualche minuto, dissetato, salii su una palma deciso a calmare i morsi della fame con i datteri.
Ne raccolsi diverse manciate e li ingoiai direttamente
sull’albero, sputando i noccioli sul terreno. Dopo una trentina di frutti mi sentivo molto meglio. Lo stomaco non brontolava più e adesso
avevo una possibilità in più di sfuggire alla morte in quel deserto.
“Non vorrei disturbare il tuo lauto pranzo,
figliolo, ma mi chiedevo se potessi scendere da quell’albero
e spiegarmi cosa ci fai qui.”
Quella voce inaspettata mi colse di sorpresa.
Rischiai di piombare giù a corpo morto, ma riuscii a conficcare le unghia della mano nella corteccia cedevole della palma e
a tenermi appeso.
Avevo detto prima delle impronte di una cavalcatura.
Bene, adesso cavallo e cavaliere stavano sotto di me e
mi guardavano.
Il cavaliere era abbigliato in foggia strana.
Portava una veste lunga di colore azzurro chiaro che lo copriva per intero.
Sulla testa indossava un copricapo formato da un fazzoletto dello stesso colore
della tunica e fissato con un laccio di cuoio. Aveva la barba brizzolata e
lunga e gli occhi nerissimi, infossati in un viso percorso da una rete di rughe
fitte. Cavalcava un cavallo bianco, piccolo e slanciato.
Scesi dall’albero, maledicendomi ad ogni metro che
facevo verso il basso. Lo spadone giaceva accostato al tronco dell’altra palma
e tra me e lui, lo straniero con il cavallo.
Lui si accorse del mio sguardo e i suoi occhi
corsero allo spadone.
“È una bella spada. È tua?” mi chiese.
Annuii. “Vedi forse qualcun altro?”
Lui scoppiò in una risata. “Per Abdul
Azif e le sue quaranta mogli vergini! Parli come un
idiota!”
Si riferiva al fatto che l’accento con cui parlavo
la sua lingua era orribile. Mi strinsi nelle spalle. Non sembrava avere
intenzioni ostili, ma non potevo esserne sicuro.
“Da dove vieni?” mi chiese.
“Da Kurkaam.”
“Mai sentito.”
“È un villaggio al confine tra
Spalancò gli occhi. “Per il guercio Abdul! Vieni dall’estremo Nord. Hai viaggiato molto allora!”
C’era ammirazione nella sua voce.
“Questo è il ventiseiesimo giorno.”
“Dov’è la tua cavalcatura?”
“Morta. Tre giorni fa.” Mentii. Avevo barattato il
cavallo per due otri d’acqua con un mercante di passaggio il
giorno prima.
“Come ti chiami?”
“Grum.”
Rise di nuovo. La cosa iniziava a darmi sui nervi.
“Che cosa ci trovi da
ridere? Qual è il tuo nome?”
“Mi chiamo Ahmed ibn Muhammad ibn
Yussuf el-Hazared.” E si inchinò sulla sella.
“E dimmi, Ahmed ibn eccetera, quando ti
avvertono di un pericolo imminente, come ti chiamano? Pronunciano forse tutti i
tuoi nomi?”
Sembrò sorpreso. “No. Mi chiamano soltanto Ahmed.”
Sorrisi, anche se le mie
labbra screpolate protestarono. “Vengo da una terra rude e pericolosa. Non ho
tempo di pronunciare tutti quei nomi. Potrei morire nel frattempo.”
Annuì, impreparato al mio ragionamento. Chissà
perché, nell’immaginario dei popoli del sud, siamo degli incolti bruti che
agitano le armi forsennatamente e che urlano a squarciagola.
Non avevo ancora deciso se potermi fidare di lui e
abbassare la guardia. Mi spostai verso il tronco su cui era appoggiata la
spada.
“Che cosa vuoi da me?” gli
chiesi.
Scrollò le spalle. “Cosa potrei
volere? Possiedi qualcosa oltre allo spadone?”
“No.”
“Allora non voglio niente. Tu,
piuttosto, cosa vuoi?”
La mia testa iniziò a girare. Barcollai tenendomi
alla palma.
“Ehi, straniero! Ti senti bene?”
Borbottai un “no” confuso,
poi caddi
in avanti verso l’oscurità.
M |
i risvegliai confuso. Ero disteso su una stoffa
ruvida e spessa, rossa. Il mio spadone giaceva appoggiato ad uno scranno di
legno, accanto alla parete. Pensavo di stare ancora male, dato che la parete
sembrava muoversi. Poi, mi resi conto che la parete si muoveva davvero! Ero in
una tenda e la stoffa tremava alla brezza leggera del deserto. Mi tirai su,
appoggiandomi sui gomiti quando un capogiro fece
roteare tutto l’ambiente circostante. Tirai un respiro profondo e attesi che la
brutta sensazione passasse. Quindi
mi alzai in piedi. Sentivo ancora la testa pesante e tutto attorno a me
ondeggiava. Mi diressi verso lo spadone, lo presi e stavo per infilarlo
nell’anello dietro la schiena quando mi accorsi che
non avevo più le cinghie di cuoio. Rovistai nella capanna per un poco, ma non
le trovai. Allora poggiai lo spadone sulla spalla ed uscii.
Ero in un accampamento dei nomadi del deserto.
C’erano circa venti, forse trenta tende, alcune piccole, altre simili alla mia.
Cavalli e cammelli erano rinchiusi in un recinto alla mia destra, poco distante.
Alcune donne e alcuni uomini mi diedero uno sguardo stupito,
poi ripresero a discutere tra loro.
“Ti sei ripreso prima di quello che pensassi, straniero!”
Il vecchio cavaliere si avvicinò e mi mise una mano
sulla spalla.
“Quello non ti servirà qui”, disse, indicando con un
cenno lo spadone. “Non ti faremo del male.”
“Che cosa mi è successo?”
chiesi con voce impastata.
“È stato il cactus.”
“Pensavo che il loro succo fosse dissetante.”
“E lo è, infatti. Ma tutti
gli abitanti del deserto sanno che non bisogna bere il succo di un cactus quando questo fiorisce. Provoca un sonno molto
profondo, cosa che nel deserto è molto rischiosa. Molti viandanti sono passati
dal sonno alla morte per essere caduti addormentati sotto il sole.”
Annuii. Quel vecchio mi aveva salvato la vita. “Ti
ringrazio. A quest’ora sarei cibo per gli avvoltoi.”
Lui liquidò i miei ringraziamenti con un cenno della
mano. “Va tutto bene, non preoccuparti.”
Mi guardai intorno.
“Quanto tempo ho dormito?” chiesi, notando il sole
che stava per tramontare.
“Circa undici ore. Un po’ poco, considerando quanto
succo hai ingerito.”
Mi strinsi nelle spalle. “Sono sempre stato
resistente ai veleni. Piuttosto, dove ci troviamo?”
“Questo è un accampamento nomade. Siamo circa a
quattro giorni di cammino dalla città di Al-wabr.” Indicò la direzione dell’est.
Annuii soddisfatto.
“Allora sono a metà del viaggio.”
“Dove sei diretto?”
“Alla montagna dei nani.”
Mi squadrò sospettoso. “E hai viaggiato da oltre le Piana di Istar, da solo, per
andare alla montagna dei nani?”
“Sì.”
“E suppongo che tu abbia
intenzione di attraversare le Lande di Pietra da solo, bussare alla porta della
montagna e farti accogliere a braccia aperte dai nani!”
“In effetti…”
“E perché un barbaro del
nord si spingerebbe così a sud per andare alla montagna dei nani?” mi chiese,
convinto che gli stessi raccontando un sacco di fesserie. “Non vedono di buon
occhio gli umani! Lo sanno tutti!”
“Per lavoro. Mi hanno chiamato e hanno chiesto il
mio aiuto.”
Scoppiò a ridere. “Come no! E per
quale motivo hanno chiesto il tuo aiuto?”
“Devo uccidere un drago”, risposi, strizzandogli
l’occhio.
L |
o lasciai a bocca aperta, ma il suo sbalordimento
durò poco. Le sue spalle vennero scosse da una risata
che durò qualche minuto.
“Tu! Uccidere un drago! Ha! E come
hai intenzione di fare?”
“Gli taglierò la testa con
la mia spada.”
“Per i cento eunuchi di Al-Kazar! Sei la persona più folle che abbia mai
conosciuto, barbaro! Avrei dovuto lasciarti arrostire al sole del deserto! Il
tuo cervello doveva essere già ben cotto!”
Scrollai le spalle. Tutto sommato
era un vecchio superstizioso, forse ignorante, ma di sicuro non cattivo. Decisi
che gli avrei lasciato in bocca i pochi denti che l’età gli consentiva.
“Dimmi, Ahmed. Avete uno
sciamano in questo accampamento?”
“Uno sciamano?”
“Sì, una persona che pratica la magia, conosce le
erbe, etc.”
“Vuoi dire uno shair?”
“ Sì.”
“Vieni, ti accompagno da
lui.”
Lo seguii fino ad una tenda di spesso tessuto.
Dentro, l’aria odorava di spezie e incensi. Un vecchio stava tritando delle
bacche in un pestello di roccia.
“Salute, Huzam.”
“Salute a te, Ahmed. Chi porti con te?”
Mi accorsi solo allora che era cieco. I suoi occhi
avevano un velo lattiginoso che copriva interamente le pupille.
“È un viaggiatore stremato dalle fatiche del
deserto. L’ho salvato dai cactus oblianti.”
“Un atto gentile da parte tua.”
Si volse verso di me e fece un inchino.
“È un onore accogliere un potente signore nella mia
umile dimora.”
Mi inchinai a lui. “Il mio nome
è Grum.”
“Sei delle tribù del nord?”
“Sì.”
“E sei un cacciadraghi, non è vero?”
“Sì.”
“Lo sapevo. Ho sentito le vibrazioni della tua arma.
Il Supremo mi ha tolto la vista ma le mie orecchie
distinguono chiaramente il suono della magia. L’hai qui con te?”
“Sì.”
“Porgimela.”
Accostai la lama alle sue mani. Huzam
avvicinò il palmo aperto al piatto della lama e le rune incise sull’arma
iniziarono a scintillare.
“È molto potente. Avverto la forza dell’incantesimo
che l’avvolge. Il simile sconfigge il suo
simile.”
Ero sbalordito. Un vecchio mago di una tribù del
deserto aveva percepito l’incantesimo segreto gettato sulla spada.
La lama di acciaio
purissimo, ribattuta su sé stessa centinaia di volte era stata poi temprata nel
sangue di un drago. Era stato un anno di lavoro durissimo da parte del fabbro del villaggio. Poi, mio nonno, lo sciamano, aveva inciso sul
piatto della lama le rune di potere che legavano lo spirito del drago alla
spada. Quindi, era stata immersa per un anno
nell’acqua di un lago consacrato agli spiriti dei ghiacci. Il suo filo era
divenuto durissimo e poteva tagliare una scaglia di drago spessa quattro dita
con un solo colpo. Infine il conciatore di pelli aveva avvolto cuoio di drago
sull’impugnatura e legato un cordolo di pelle di drago per fissare il cuoio all’elsa.
“Era la spada di mio padre.”
Ahmed era rimasto sbalordito.
L’immagine di barbaro rozzo e volgare che si era costruito di
me si stava sgretolando alle parole del vecchio Huzam
come una statua d’argilla essiccata.
“Huzam! Stai dicendo che quest’uomo è davvero
un cacciatore di draghi?” chiese Ahmed con un tono di
voce stridulo.
Huzam rise. “Me ne sono accorto
anch’io che sono un povero cieco, e tu che l’hai avuto davanti agli occhi per
tutto questo tempo non hai capito niente? Ahmed,
amico mio, stai invecchiando!”
Rimisi la lama sulla schiena. Ahmed
adesso mi guardava con stupore e rispetto.
“Per il djinni di Al-wabr! Un cacciadraghi!
Sembra che stasera festeggeremo in tuo onore!”
S |
iamo rimasti in pochi ormai. In tutto il paese siamo numerosi quanto le dita di una mano. La verità è che
pochi riescono ad avere un’aspettativa di vita lunga. Se sei bravo, puoi uccidere quattro, cinque draghi e con i
soldi ricavati lasciare il lavoro e ritirarti nella tua nuova casa. Oppure puoi restare ucciso nel tentativo di ucciderne un
altro. Allora il lavoro termina con la tua vita.
Mio padre, il leggendario cacciadraghi
Kraz, uccise più di venti bestie. Era il migliore nel
suo lavoro. Poi, invecchiando, decise di trasmettermi tutta
la sua esperienza. Mi allenai con lui per quattro lunghi anni. Quindi,
lo accompagnai nelle sue ultime cacce, osservandolo attentamente
mentre attendeva la preda, apprendendo i suoi trucchi e le sue tattiche.
Quando poi l’inverno scorso morì
per la febbre che consuma, mi diedi da fare. Uccisi il mio primo drago da solo,
senza che nessuno avesse richiesto i miei servigi. Doveva essere il mio
battesimo del sangue. In effetti, di sangue ne versai più del dovuto, almeno
del mio. Ma lo uccisi. E uccisi anche gli altri tre
che erano insieme a lui nel suo nido. Beh, a dire il
vero due di essi erano poco più che cuccioli, ma
l’altro era rapido come un serpente velenoso. Ma alla fine il duro acciaio
della mia lama ha avuto la meglio.
E così la tradizione della
mia famiglia è continuata. I miei servigi sono stati richiesti da villaggi insidiati
da quelle bestiacce e da signorotti che dovevano difendere il loro feudo.
Questo dei nani della Montagna era il primo incarico ufficiale che ricevevo da
un’altra razza. La mia fama cresceva.
Q |
uella sera l’accampamento era in fermento. I tamburi
ed i flauti suonarono tutta la notte. Le ragazze danzarono per ore attorno ai
falò e lo strano vino del deserto, aspro e frizzante, corse giù per le gole di
molti. Anche della mia. Ricordo soltanto Ahmed che continuava a riempire la mia coppa di altro vino e che mi
dava pacche sulle spalle, finché le immagini e i suoni non si confusero e caddi
nell’oblio.