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Autore: Dama Grigia    11/12/2012    3 recensioni
"Prima di poter cercare di capire cosa fosse, il dolore divenne una fitta lancinante. Fu come se una lama mi stesse trafiggendo, sentii perfino il freddo del metallo, ma intorno a me c’era solo aria impregnata di tabacco. E l’aria non trafigge la carne. Ed ecco che il sangue cominciò a fluire, inarrestabile. "
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"Lui, mio figlio, divenne l’unica ragione per cui la mattina mi svegliavo.
Finchè non morì per mano di quello che aveva il coraggio di farsi chiamare dottore.
La rabbia cieca che provavo verso quell’uomo, quel verme, mi portò a prendere una decisione."
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Ero stimato, rinomato e conosciuto dai miei concittadini come Dottor Rizzoli, chirurgo illustre, uomo rispettabile. Vivevo agiatamente, non avevo preoccupazioni.
Poi successe. Quasi da un giorno all’altro mi ritrovai accerchiato, assediato: avvocati, polizia, accertamenti. Tutto per un errore, perché di questo di trattò: una distrazione. Avevo i miei problemi, dopotutto, non lo feci certo volontariamente. Non fu colpa mia! D’accordo, lo ammetto, forse avrei potuto stare più attento. Fatto sta che lasciai un batuffolo, ma che dico, una traccia quasi invisibile di cotone nel ventre di un ragazzino prima di dare i punti di sutura. Certo, non fu professionale, ma dal momento in cui l’infezione lo uccise non ebbi un attimo di tregua fino alla notte prima del processo. Perché, sì, arrivarono perfino a processarmi per uno sbaglio. 
Quella notte mi alzai da letto completamente sudato, tanto tormentosi erano i miei incubi. A passi rapidi mi diressi verso il salotto, aprii le ante di un mobiletto e ne estrassi con fare febbrile una bottiglia, non so cosa fosse esattamente, non m’importava a patto che fosse alcolico. Tracannai il contenuto della bottiglia senza preoccuparmi di prendere un bicchiere. Improvvisamente avvertii un fastidio, come se qualcosa mi stesse pungendo lo stomaco. Dall’esterno, mi resi conto con stupore. Prima di poter cercare di capire cosa fosse, il dolore divenne una fitta lancinante. Fu come se una lama mi stesse trafiggendo, sentii perfino il freddo del metallo, ma intorno a me c’era solo aria impregnata di tabacco. E l’aria non trafigge la carne. Ed ecco che il sangue cominciò a fluire, inarrestabile. Non feci in tempo nemmeno a farmi prendere dal panico: a poco a poco mi afflosciai a terra, respirai per l’ultima volta l’odore di sigaro del mio salotto e chiusi gli occhi, senza sapere cosa fosse successo.
 
No, lui non seppe cosa gli era accaduto, e mai lo saprà. 
Non ho bisogno di presentarmi, non è importante il mio nome. Ero un uomo qualunque, uno come tutti. Beh, non proprio, ad essere sinceri. La mia storia è triste all’inverosimile, sembra appartenere a una soap opera. Ero felice, nella semplicità della mia vita. Quando però mia moglie se ne andò, e non certo per suo volere, mi ritrovai da solo con un bambino di tre anni che mi chiedeva ogni giorno quando sarebbe tornata la mamma. Ed io ogni volta rispondevo con un vago “presto”. Dopo un anno la domanda era ormai se la mamma fosse tornata, e la risposta consisteva in un “sì” poco convinto. 
Quando divenne sufficientemente grande per capire, smise di fare domande. 
Lui, mio figlio, divenne l’unica ragione per cui la mattina mi svegliavo.
Finchè non morì per mano di quello che aveva il coraggio di farsi chiamare dottore. 
La rabbia cieca che provavo verso quell’uomo, quel verme, mi portò a prendere una decisione. 
Erano le tre del mattino quando rientrai in casa. Pensavo che sarebbe stato più difficile introdursi nell’ospedale. Avevo quello che mi serviva. Salii le scale come un condannato sale al patibolo. Entrai nello studio e mi diressi sicuro verso la scrivania, su cui giaceva una bambola di stoffa arrangiata. Presi la mia refurtiva: una cuffietta da dottore. La cuffietta di quel dottore. Nel risvolto interno, alcuni capelli che un tempo dovevano essere stati neri ma che adesso apparivano ingrigiti. Un paio di punti con l’ago ed eccoli fissati sulla testa del simulacro. Afferrai un taglierino e ne posai la punta sul ventre del pupazzetto. Attesi qualche secondo: non mi chiesi se fosse giusto quanto stavo per fare, mi chiesi se avrebbe funzionato. Scossi la testa e spinsi di più. La lama lacerò la stoffa e penetrò l’ovatta. Ecco.
Passò del tempo, non so quanto. Infine presi una seconda bambola dal cassetto. Un colpo di forbici e mi tagliai una ciocca di capelli, la cucii sul capo del fantoccio ed affondai la lama per la seconda ed ultima volta.
   
 
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