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Autore: _Fy    11/12/2012    1 recensioni
Un grande amore.
Un incidente.
Un destino beffardo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era lì, accovacciata su quella sedia di plastica di quello sperduto ospedale situato nella città di Seattle.

Sospesa tra la vita e la morte.

In attesa di una risposta che l'avrebbe potuta mandare su in paradiso o dritta all'inferno.

Sedeva lì, sola, sola tra la gente che come lei aspettava la risposta universale alle sue mille domande.

La vista annebbiata dalle lacrime che premevano per scendere dai suoi occhi nocciola.

La mano stretta a pugno, talmente forte che le nocche le diventarono bianche.

Il corpo immobile ad eccezione del piede destro che si muoveva ritmicamente a causa del nervosismo.

Lo sguardo puntato sul pavimento bianco, bianco come le mura, come ogni cosa in quell'ospedale.

Il vociare continuo dei medici e delle infermiere, veniva trasformato dal suo cervello in un ronzio fastidioso, un ammasso di suoni sovrapposti.

Un rumore indistinto.

Una parte del suo cuore, batteva forte, lo sentiva sanguinare.

L'altra, era dietro quella porta, mentre lottava per non morire.

Sentiva lo stomaco attorcigliarsi.

Sentiva la bile salirle e bruciarle la gola.

Sentiva se stessa e il dolore di quel terribile momento.

Tutto il resto era ovattato.

Dietro quella porta c'era la sua intera vita, la vita che aveva scelto di vivere e che voleva vivere ancora.

Dietro quella porta, c'era l'uomo che amava più di se stessa.

Dietro quella porta c'era James, il suo James.

L'uomo timido che aveva conosciuto in quel caffè del centro dopo averlo urtato e inevitabilmente macchiato la felpa verde con il cappuccino ancora fumante comprato poco prima.

L'uomo che le aveva sorriso ripetendole che non importava fermando il flusso ininterrotto delle sue scuse.

L'uomo dolce che con evidente impaccio, le aveva offerto un altro cappuccino invitandola a sedersi con lui.

L'uomo simpatico che la faceva ridere con le sue battute.

L'uomo testardo che le aveva sottratto un appuntamento e poi un altro ancora.

L'uomo romantico che l'aveva stretta a sé le sere di inverno quando fuori il vento picchiava forte.

L'uomo geloso che finiva per farle una sfuriata ogni qual volta qualcuno si avvicinava troppo.

L'uomo iroso che amava litigare per le piccolezze e che puntualmente le chiedeva scusa imbronciato come un bimbo.

L'uomo paziente che la lasciava sfogare quando era nervosa.

L'uomo che la zittiva con un bacio quando si ritrovava a straparlare.

Un uomo che adesso rischiava di perdere per via di un incidente stradale a causa di un ragazzo ubriaco che non aveva misurato le responsabilità del suo gesto prima di mettersi in macchina e guidare.

Un ragazzo che non aveva riportato alcun male se non una stupida ferita alla tempia sinistra.

Un ragazzo che avrebbe portato un grosso peso sulla coscienza se lui fosse morto.

Sentì il cuore accelerare la sua corsa quando udì la porta della sala operatoria aprirsi.

Il suo cervello registrò solo i passi veloci del dottore che si avvicinavano alla sua figura.

- La signorina Stevenson?

Chiese guardandosi in giro alla ricerca di una risposta.

- Sono io

Mormorò incerta la donna.

Il momento della verità era arrivato e Sarah non era sicura di voler sapere il verdetto finale.

Avrebbe preferito rimanere lì, in quel limbo lastricato di speranza, nel suo purgatorio personale.

Il dottore abbassò gli occhi per un attimo e lei sentì il cuore fermarsi nel petto.

- Purtroppo il paziente Jhonson non ce l'ha fatta, lo hanno portato qui con troppo ritardo e in condizioni disastrose. Abbiamo fatto il possibile, mi dispiace.

Chissà quante volte aveva dovuto dire quelle parole, chissà quanti uomini, quanti bambini, donne o anziani, aveva visto morire.

Quante grida di dolore.

Quante lacrime aveva visto versare.

Si domandò se ci si potesse mai abituarsi alla sofferenza umana.

Se dopo anni, il cuore potesse diventare impassibile.

Giudicare quel dolore, come quotidianità.

Rimase immobile, osservando la schiena del dottore che si allontanava.

E come per farle più male, la sua mente butto giù una lista di tutte le cose che aveva perso e che le sarebbero mancate.

Le sarebbero mancati i suoi occhi neri, così intensi e scuri, da non riuscire a distinguere le pupille.

Il naso dritto e proporzionato che si ostinava ad appoggiare sul suo collo niveo per sentire l'odore della sua pelle.

Le sarebbe mancata la sua bocca, dolce e carnosa, che aveva baciato tante volte e che avrebbe voluto baciare ancora.

Le sarebbe mancata il suono della sua voce, caldo e roco.

Le pieghe che formava la sua fronte quando era perplesso.

Le piccole rughette intorno agli occhi quando lui rideva.

Le sue mani grandi che le accarezzavano il viso piccolo e tondo.

I capelli ricci che si ostinava a non tagliare e che lei accarezzava spesso con le dita.

L'odore dolce della sua pelle mischiato a quello frizzante del dopobarba che proprio non le piaceva.

Le sarebbe mancato litigare con lui.

Le sarebbe mancato scherzare e ridere come due bambini.

Rincorrersi e lanciarsi i cuscini come due adolescenti.

Sognare con lui, sognare una casa, un bel matrimonio e due figli di cui già avevano scelto i nomi.

Ed ora era lì, spettatrice di una realtà che rinnegava, in cui quei sogni stavano andando in pezzi davanti ai suoi occhi.

Invano erano stati i suoi tentativi per salvarli.

Invano sarebbero stati i suoi sforzi per rimetterne insieme i cocci di quel che restava.

Si lasciò cadere sul pavimento freddo dell'ospedale.

Non una lacrima, non un lamento.

Solo silenzio.

Un muto dolore che le scavava il petto creando in lei una voragine.

Un muto grido di sofferenza.

Una richiesta d'aiuto silenziosa.

Rimase lì, forse per minuti, forse per ore.

Poi, raccattò la sua borsa e ciò che rimaneva del suo cuore e silenziosa come era arrivata, andò via.

   
 
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