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Autore: NiNieL82    12/12/2012    1 recensioni
Sara ha trent'anni. E come tutti i trentenni e no vive la sua vita un po' incasinata: ha una storia d'amore difficile; è alla ricerca di un lavoro stabile; cerca di ricucire il rapporto con sua madre, logorato da anni di silenzi e di reciproche accuse.
Accadrà un giorno qualche cosa che scombinerà ancora di più i suoi piani. Qualcosa che cambierà la sua vita. E da quel momento nulla sarà più come prima.
[Il titolo della storia può cambiare]
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stanotte ho saputo che c'eri:

una goccia di vita scappata dal nulla.

Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d'un tratto, in quel buio,

s'è acceso un lampo di certezza: sì, c'eri.

È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata.

Mi si è fermato il cuore.

E quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate di sbalordimento,

mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante.

Ora eccomi qui chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri.

E in essa mi perdo.

Cerca di capire:

non è paura degli altri. Io non mi curo degli altri.

Non è paura di Dio. Io non credo in Dio.

Non è paura del dolore. Io non temo il dolore.

È paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre.

Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato.


Oriana Fallaci ‘Lettera ad un bambino mai nato’ (Incipit)



Benvenuto?


Giovedì sera.

Calcetto.

Bene. Almeno non avrò nessuno che mi rompe le scatole per qualche oretta.

Non sono una novellina, nonostante le mani mi tremano.

Ho trent’anni, dannazione! Dovrei essere pronta a tutto questo.

E invece non lo sono. Mi sento le gambe molli come il burro e la gola secca come se dentro ci si fosse depositata una grande fetta del deserto del Sahara.

Mi avvicino alla camera da letto. Mi metto a sedere sul morbido copriletto bianco e apro il cassetto del mio comodino. Prendo una scatola e la rigiro tra le mani.

Stamattina, quando sono andata in farmacia, mi sono resa conto che il cuore aveva smesso di battere mentre la farmacista mi spiegava come usarlo. Eppure non è la prima volta che lo faccio.

Comprai il mio primo test di gravidanza che ero ancora una ragazzina alle prime armi. Con il mio primo ragazzo eravamo sempre stati attenti, tranne quella volta in cui ci eravamo resi conto che non c’erano preservativi in casa: né in camera sua, né in quella di suo fratello, né in quella dei suoi genitori. Decidemmo quindi, un po’ ingenuamente, di rischiare e non usammo nessuna precauzione.

Non mi arrivò il ciclo per due mesi. Due mesi in cui il mio cuore si bloccò e smise di battere ogni volta che entravo al bagno e vedevo la carta igienica priva della più piccola traccia di sangue. Feci di tutto prima di fare un test di gravidanza o molto più semplicemente avvicinarmi al consultorio della mia città: mi avveleni quasi con il prezzemolo bollito; ho dormito con tre borse di acqua calda sotto le coperte rischiando ustioni di primo grado al ventre; ho fatto tre capriole al calare del sole. Tutto quello che trovavo per evitare una gravidanza lo provavo. Quando, dopo l’ennesimo tentativo e il conseguente fallimento, ho deciso di comprare il test di gravidanza ho sentito dentro di me qualche cosa cambiare, spezzarsi per sempre. Forse era quel piccolo ponte di legno che collegava la mia infanzia alla mia attuale adolescenza, ma in quel momento presi coscienza del fatto che ero diventata un’adulta e che da tale dovevo cominciare a comportarmi. Comprai il test e come uno zombie mi incamminai verso casa, conscia che sarei morta di paura poco dopo. Ricordo di essermi chiusa in camera e di aver scartato tutto in fretta e furia e dopo aver nascosto bene il test sotto il maglione, sono corsa in bagno. Piansi per tutto il tempo. Almeno fino a che non notai che il risultato era negativo.

Fu allora che il mio umore cambiò in meno di un secondo e festeggia e gridai come una pazza, rischiando di farmi scoprire da mia madre e buttando tutta la cautela al gabinetto.

Ripresi però in fretta il controllo di me e cercai di nascondere tutto. Occultare le prove è sempre stata una mia gran dote. Se fossi stata una fumatrice mia madre non se ne sarebbe nemmeno accorta, talmente ero brava a mascherare tutte le marachelle che facevo.

Anche quella volta andò bene e mia madre non seppe mai quello che avevo passato. Potevo essere una ragazzina che impazziva d’amore per i Take That e Ligabue, ma non potevo di certo diventare mamma anzitempo. Decisi così che sarei stata attenta sempre. Che non sarei caduta mai più in quella trappola di paura, paura tanto forte quasi da farti male.

Per anni ho cercato di stare attenta, riuscendoci.

Fino ad oggi.

Strisciando i piedi come una condannata a morte mi avvicino al bagno. Scarto il mio test di gravidanza e mi metto sedere nel bidet, guardando il Clearblue –ultimo ritrovato della scienza digitalizzata per scoprire se sei o no incinta- e sospiro affranta. Un solo piccolo gesto quotidiano cambierà la mia vita per sempre.

Strana la vita, no?

Seguo un impulso che viene da dentro di me. Non dal mio cervello, ma direttamente dal mio ventre.

Mi alzo di scatto dal bidet quasi scottasse e apro l’astuccio di cartone.

Mi metto a sedere sul gabinetto e leggo le istruzioni.

Mi tremano ancora le mani, dannazione!

Come ho già detto, non sono una novellina in questo campo, nonostante questo non posso non pensare che a seconda del risultato che otterrò da questo bastoncino la mia vita cambierà radicalmente e drasticamente.

Faccio quello che devo e attendo il tempo prescritto.

Per tutto il tempo, che sembra passare troppo velocemente perché la mia testa riesca a star dietro sia ai miei pensieri che alle mie paure, mi chiedo che madre potrei essere.

Non mi sono mai posta il problema, in realtà. Molto probabilmente noi donne siamo madri da quando le prime mestruazioni fanno capolino nella nostra vita con i dolori lancinanti del menarca, mentre una zia, come una vecchia levatrice, ci avvisa che quelli saranno solo un infinitesimo dei dolori che sentiremo quando metteremo al mondo un bambino. Noi donne facciamo i conti con il nostro corpo già da allora, quando l’infanzia comincia a tramontare e il nostro corpo muta dolorosamente.

Già da quando ho avuto questa coscienza, questa certezza che anche il mio corpo avrebbe procreato mi sono trovata spesso a chiedermi se volessi o no un figlio. E se guardo indietro la risposta è sempre sì. Ho sempre voluto un bambino mio. Ho sempre pensato che sarebbe stato meraviglioso essere madre, aspettare, vedere il mio corpo mutare. Forse quell’istinto in cui ognuna di noi accetta il suo destino ancora prima che esso abbia compimento mi ha dato la possibilità di pensare a tutto questo.

Ora, però, mi rendo conto che non è così. Chi sono io? Sono una ragazza di trent’anni, che non riesce a trovare un lavoro per colpa della più grande crisi mondiale dopo quella del Ventinove. Una ragazza che vive una storia con una persona quasi completamente incapace di mostrare amore, tenerezza a chicchessia, immaginarsi ad un bambino. Sono una donna che con sua madre ha da sanare tanti di quei problemi che nemmeno il migliore psicanalista di questo mondo, forse nemmeno Freud in persona, riuscirebbe a mettere di nuovo in sesto.

Eppure sono qui, seduta sulla tazza che aspetto. E secondo per secondo il tempo passa e il risultato è chiaro.

INCINTA. DUE O TRE.

Ok! Ci deve essere un errore.

Eppure ho letto bene le istruzioni.

Incinta.

Guardo lo stick tra le mie mani e mi accorgo che sto tremando ancora e più forte. E nello stesso tempo mi rendo conto che le mie guance sono bagnate.

Sto piangendo. Eppure il mio cuore non batte per la paura. Non batte per il terrore di non sapere cosa succederà dopo. Batte forte, sì, ma come il cuore di una ragazzina innamorata.

Possibile che non ti conosca e che già ti riesca ad amare così tanto?

Possibile che dopo averti atteso con amori più grandi e più stabili di questo, tu sia arrivato proprio ora, proprio quando non ho nemmeno carta e penna in casa per stilare una lista di nomi con cui potrò chiamarti una volta che sarai nato?

Eppure ci sei.

Avvicino una mano alla pancia. So che è stupido anche solo pensarlo. Delle mie amiche mi hanno spiegato più volte che prima di sentirti devo aspettare ancora tanto tempo.

Sistemo il bagno e corro in salotto. Apro il portatile che sta sul tavolo dell’Ikea e lo accendo. Vista non mi fa attendere troppo, sono più i programmi di tuo padre che mi rallentano.

Perché accendo il computer invece di mettermi a chiamare tutti e dare la lieta novella? Perché ho voglia di vedere come sei adesso.

Sorriso e le lacrime mi bagnano di nuovo il viso. Sei un piccolo vermicello quasi trasparente, ancorato a me da pochi centimetri di cordone ombelicale. Mi porto una mano alla bocca, coprendo il mio sorriso commosso.

Quello sei tu, vero? Che te lo chiedo a fare? Forse non hai nemmeno le orecchie per sentirmi.

Stanca di guardare fissa e di piangere davanti ad un bambino che non sei tu, mi metto a cercare notizie, qualche cosa che mi possa far capire come sei, cosa ti serve, cosa devo fare perché tu cresca bene.

Leggo siti su siti e mi ritrovo a pensare che nulla mi potrà davvero istruire come l’esperienza di averti tra le mie braccia.

Leggo la tua lunghezza approssimativa. Trovo poco, ma leggo che dalla decima settimana peserai cinque grammi e sarai lungo dai tre ai quattro centimetri. E cercando ancora leggo che tra la quinta e la sesta settimana comincerà a formarsi il cuore e che da quel momento lo sentirò battere.

Che strano. Ti parlo e non hai nemmeno un cuore che pulsa. E nemmeno un orecchio per sentirmi.

Con il tasto destro del mouse chiudo tutte le finestre che ho aperto. Sono un infinità.

Le mie mani hanno smesso di tremare e nel mio grembo è rimasto il test.

Positivo.

In un attimo mi rendo conto che con tuo padre non ho mai parlato della possibilità di averti.

In realtà tuo padre non parla mai di bambini.

So che gli danno noia e che non è un patito di marmocchi urlanti, di pannolini e pappette.

Lui e i suoi amici amano la libertà. Alcuni del gruppo sono sposati, altri nemmeno hanno mai preso in considerazione la possibilità di mettere su famiglia. Ho sempre considerato tutto questo molto triste poiché, di tutto il gruppo, quella più giovane sono io e penso che questo traguardo, prima o poi, farà parte della mia vita, con o senza matrimonio.

Le altre, specialmente quelle della squadra degli ammogliati, danno la colpa di tutto alle mamme dei rispettivi mariti. Da una parte è vero. Molti uomini sono eterni bambini perché le mamme li hanno cresciuti così, con l’idea che nessuna donna sarà meglio di loro e nessuna sarà sincera e li amerà come li hanno amati loro.

Alle volte penso che tutto questo sia puro vangelo.

Poi, quando per strada vedo ragazzini con non più di vent’anni con carrozzina e fidanzatina a seguito mi salgono i nervi.

La colpa non è solo delle madri, ma anche di noi donne, troppo remissive verso compagni che non capiscono che per molte di noi mettere su una famiglia è una cosa normale, quasi biologica. Semplicemente abbiamo paura di perdere quella tranquillità raggiunta e non ammettiamo i nostri bisogni. E io faccio parte di questo folto gruppo.

Troppo remissiva, troppo comprensiva, troppo tutto.

Analizzandomi, mi rendo conto che quella parte di me che ho tenuto viva per molto tempo, non può vivere ora che mi preparo a diventare mamma. Tra un po’ quella porta si aprirà e apparirà un uomo sorridente che mi bacerà e mi dirà se ha fatto o no qualche goal durante la partita di stasera. Mi racconterà di qualche avvenimento strano spifferandomi chiacchiere da spogliatoio. Io ascolterò in silenzio, annuirò, svuoterò la sacca che puzzerà irrimediabilmente di sudore e poi preparerò la cena. Ci metteremo a sedere e forse, allora, avrò il coraggio di dirgli tutto.

Già lo immagino. Il viso che sbianca e la mano che accarezza il pantalone. Sarà nervoso e forse comincerà a balbettare. E poi? Poi che cosa mi dirà? Come reagirà? Come darà il benvenuto a nostro figlio?


La chiave girà nella toppa. Scatta la serratura.

È arrivato.

Ad un’ora esatta dalla scoperta della tua esistenza.

Seduta sulla poltrona salto in piedi, quasi sia seduta su dei carboni ardenti.

Sospiro e prendo coraggio. È arrivato il momento della verità.

Entra e come previsto sorride. Si avvicina. Profuma di talco e di muschio verde. Ha fatto la doccia prima di tornare.

Abbiamo vinto. L’ho detto a Lele che una volta sposato avrebbe perso tutto il suo brio. Sta mettendo su chili e corre come una signorina. Con tutto il rispetto per le signorine!”

Poggia il borsone per terra e mettendo il giubbotto nell’attaccapanni continua a raccontare. Tutto come previsto.

Gianni si vuole sposare con Elisabetta. Credo anche che abbiano già deciso la data. In effetti erano arrivato ad un punto in cui dovevano solo decidere se lasciarsi o sposarsi” comincia a raccontare sistemando il colletto della camicia.

Beh! Stanno assieme da quando hanno quattordici anni. Sono stati il primo tutto l’uno per l’altro. È naturale che cerchino qualche cosa di meglio! Penso anche che sia una scelta molto coraggiosa, la loro” rispondo io cacciando calzini sporchi, maglietta sudata e compagnia bella dentro il cesto della lavatrice.

Si avvicina a me e mi guarda. Sta mangiando una merendina e mi dice, con la bocca piena:

Il matrimonio è una scelte delle donne. Un uomo pensa che sia sua l’idea di sposarsi, ma poi ti rendi conto che è stata lei stessa a metterti in testa tutte queste cazzate. Assurdo, ma vero!”

Sospirò e lo guardo. Daniele è la mia parte di cielo. Solo che i nostro colori non sono poi così affini. Secondo Platone, nel suo Simposio, l’animo umano è stato diviso dagli dei, gelosi della nostra felicità e della nostra perfezione. Con questo gesto ci hanno condannati alla continua ricerca del nostro pezzo mancante. È come se prima di nascere una parte di noi venisse divisa e messa in attesa della parte mancante.

Alle volte penso che Daniele sia la mia parte mancante. Lo penso quando facciamo l’amore, quando riusciamo a immergerci nel silenzio più totale, a leggere un libro, ad accarezzarci al buio. Poi lo sento parlare e mi rendo conto che non è può essere quel piccolo pezzo di me perso alla nascita. Lui è fin troppo razionale, al punto da farmi rasentare la rabbia quando cerca di mettere la logica in ogni discorso che facciamo. Io sono più naif. Mi piace pensare che tutto sia semplice, non derivato dai conti, dalle congiunture di mille avvenimenti. Forse è merito dei miei studi classici che cozzano con i suoi basati sulla tecnica più che sull’umanistica.

Due pezzi di cielo, appunto. All’apparenza dello stesso azzurro, ma che se si guarda bene non sono uguali. Uno magari è un azzurro scuro che cozza con il celeste chiaro. Un indaco contro un ciano.

Uguali a vista d’occhio. Ma distinti se valutati meglio.

Sospiro e metto il programma sette giorni per lavare tutto quello che ho messo dentro.

Cosa vuoi per cena?” chiedo riavviando i capelli e tirandoli su li fermo in una perfetta coda di cavallo.

Ordiniamo una pizza?” domanda lui abbracciandomi da dietro.

Mi volto e lo sgrido.

Una pizza? Ma andiamo in pizzeria sabato!”

Fa una smorfia e quasi mi fa tenerezza. Ma devo essere decisa e ferma sulla mia decisione.

Ho qualche fettina in frigo. Che ne dici?”

Solo se mi prometti che le impani e me le prepari assieme a delle patatine fritte!”

Scuoto la testa arresa. Se sarà così anche con mio figlio, non penso che sarò il genitore con più polso.

Prendo l’occorrente e mi metto a preparare.

Daniele si avvicina e riprende a raccontare.

Sai che Francesco ha scoperto che Monica ha fatto un test di gravidanza?”

Sento il cuore perdere un battito.

Davvero!” rispondo io con un pigolio quasi impercettibile.

Sì! Sì! Ancora non lo sa se è incinta. Lo devi vedere. Sembra che lo abbiano condannato a morte, poverino!”

Daniele ride. Io invece sento lo stomaco contorcersi. Possibile che un uomo della sua età possa essere così infantile?

Perché? Se dovesse succedere a te? Pensi che anche tu saresti un condannato a morte?” domando caustica.

Il veleno delle mie parole e del mio tono di voce colpisce in pieno viso Daniele. Mi sorprendo che non abbia barcollato. Mi guarda, da capo a piedi. Per un rapido istante penso che cerchi qualche cosa di diverso in me. Poi, mi rendo conto che non lo sta facendo. Sorride e poggiandosi al lavello mi dice:

Se fossi incinta sarebbe davvero un bel casino!”

Sto cominciando a pelare patate quando me lo dice. Il coltello mi scappa di mano e mi taglio. È un taglio superficiale ma frigge dannatamente.

Daniele corre a prendere lo strofinaccio che uso per asciugarmi le mani quando lavo i piatti. Stringe la ferita e con sorpresa mi rendo conto che il telo chiaro si bagna velocemente con il mio sangue.

Stai più attenta! Dannazione!”

Scossa da quelle parole, tolgo la mano dalla sua morsa in malo modo e sospirando metto la ferita sotto il getto dell’acqua fredda. Subito il lavello si tinge di rosso. Guardo il mio sangue sparire dentro il condotto.

Senti male, piccolo?

Andiamo all’ospedale!” mi dice Daniele guardando il taglio.

Rido divertita del suo panico. Se si spaventa così per un po’ un di sangue è normale che si terrorizzi all’idea di avere un bambino.

Ma che dici! È solo un piccolo taglio!” rispondo.

In effetti, il sangue smette subito di scendere. Asciugo la ferita e la disinfetto. L’acqua ossigenata a contattato con la ferita reagisce e forma una piccola schiuma bianca sul taglio.

Non penso a me. Penso a te, piccolo. Non so se senti il mio dolore. So di essere apposto con l’antitetanica dopo che il cane di mia zia mi ha morso il Natale scorso. So che nessuna spora cattiva può arrivare a te attraverso il mio sangue. Quello che non so è se senti il mio dolore.

E non parlo solo del dolore fisico. Ma parlo anche di quello che mi sta facendo contorcere lo stomaco.

Come previsto tuo padre non è pronto ad accoglierti.

Trentacinque anni non bastano perché possa dire di essere pronto a mettere al mondo un figlio. Prima che venisse volevo dirglielo. Ma ora, mentre guardo dentro l’armadietto cercando i cerotti in un luogo dove so che non sono, decido di rinviare la lieta novella a data da definire.

Magari aspetterò quando avrò la certezza medica che tu sia presente.

Mi hanno spiegato che ci sono delle analisi che dicono esattamente da quanto tu sia incinta, calcolando una sostanza che viene rilasciata nel sangue subito dopo il concepimento.

Copro il mio dito ferito e penso che un giorno lo farò anche con te, soffiando sulla ferita perché l’acqua ossigenata non bruci troppo.

Perché può sembrare stupido, ma anche senza tutti i test di gravidanza, tutte le analisi di questo mondo, già quando stavo seduta su mio copriletto bianco mentre rigiravo tra le mani il test di gravidanza, ti sentivo già dentro di me.

E come un tesoro, come una perla preziosa ti custodirò.

Anche se per molti non sarai benvenuto.





Ed ecco ci qua.

La mia nuova fan fiction originale.

Ci ho messo molto a scriverla.

Voglio dire che qualsiasi avvenimento descritto

persone, luoghi e pensieri dei

protagonisti sono inventati

e quindi puramente casuali.

La storia qui descritta non è stata vissuta in prima

persona da me.

Ho solo deciso di parlare di una ragazza

della mia età che si trova a questo bivio.

Ringrazio chi leggerà e chiunque

per informazioni e per avere

la possibilità di sapere in tempo reale quando

pubblico un nuovo capitolo

metterà mi piace sulla mia pagina Facebook.

Si chiama Niniel82. Ci sono solo io

quindi è facile da trovare.

Vi ringrazio se siete arrivati fino a qua.

E se volete... Lasciate una recensione.

Saprò cosa ne pensate della mia storia.

Accetto ogni tipo di critica.

Basta che sia costruttiva e che miri

a far migliorare il mio stile e i mie errori/orrori

di ortografia e no.

Un bacio e alla prossima.

Niniel82.





   
 
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