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Autore: Mauro Raul    17/12/2012    1 recensioni
"Più metabolizzavo questo concetto più capivo che non si vive il presente ma un ipotetico ideale futuro roseo. Smisi di dare consigli."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Ho rifatto di nuovo quel sogno…” Disse Mike guardando dalla finestra
“Te la senti di raccontarmelo ancora?” Ero seduto qualche metro dietro di lui.
“Si.. certo..” Disse incerto Mike “ mi trovo in questo corridoio senza finestre la luce però c’è, arriva da un punto indefinito. Guardo in fondo al corridoio ,che dista da me non più di 20 passi, e noto che prosegue secco verso destra. So che girato l’angolo c’è l’uscita, ne vedo il bagliore e sento la brezza che penetra nel corridoio” Mike fece una pausa. Sapevo che a quel punto andava in crisi. Aspettai in rispettoso silenzio per qualche secondo, poi accavallai le gambe facendo strusciare i miei vestiti, dando a Mike l’input di proseguire “C’è davanti a me un castello di carte alto più di me e largo quanto il corridoio stesso. Mi avvicino non senza fatica e cerco di farlo crollare spazzando le carte in basso col piede, anche questa volta il castello non si muove di un centimetro. Rimango bloccato senza più andare avanti.
“Quand’è l’ultima volta che hai fatto qualcosa di soddisfacente? Come aver preso un 8 in matematica o aver costruito qualcosa con le tue mani?” Gli chiesi
“Non lo so… mi fa schifo matematica, e non ho una gran manualità”
“Riflettici e la prossima volta che ci vediamo, portami almeno due esempi. In qualsiasi ambito sia,  anche con le ragazze” gli dissi facendogli l’occhiolino. Mike si rilassò un poco, si vedeva che soffriva quando parlavamo ma era giusto così.
Era ormai ora di pranzo, così lasciai l’aula di ricevimento e uscì dalla scuola. Notavo che sempre più giovani si presentavano alle sedute di psicologia volontarie, sapevo che qualcuno lo faceva per scampare a alle interrogazioni, ma era solo una minoranza.
 
 
“Com’è andata oggi a scuola?” chiese mia moglie dopo un lungo silenzio. Eravamo a tavola, la mattinata mia aveva consumato la parola e oltre al “Ciao” spento al mio rientro, non avevo detto nulla.
“Bene bene…” risposi, perso nell’arancione bruciacchiato della mia carota.
“Bravo figliolo, e la verifica di Inglese?”
“Odio ingle…” alzai lo sguardo e la vidi sorridere, mi prendeva in giro “scusa”
“tranquillo, com’è andata oggi a scuola?” mi ripeté
“Noto sempre più un distaccamento dei ragazzi dalla realtà. Sono già prede della società prima ancora di esserci entrati” dissi “Oggi poi è stato eclatante, due ragazzi hanno fatto quasi lo stesso sogno. Quello del corridoio che ti dicevo” la guardai per capire se ricordava “solo che uno intravedeva l’uscita l’altro a malapena ci vedeva”
“E’ abbastanza chiaro il perché, no?”
“Il perché si ma non basta quello per farli star meglio, non basta aprirgli la porta e fargli vedere il loro problema rannicchiato come un rospo”
“fortuna che sei tu lo psicologo” disse sorridendo ancora. Fortuna che c’era lei e che c’era il suo sorriso, mi dissi.
 
 
Il giorno seguente non fu diverso. Passai 4 ore con 5 ragazzi tutti, chi più, chi meno, manifestavano questa insicurezza nel raggiungere i propri obiettivi. Tutti avevano dei sogni belli e si illuminavano mentre mi raccontavano come si vedevano da grandi, sapevano tuttavia che sognare il risultato è solo il profumo del dolce pane, c’era ancora da attraversare la trafficata strada prima di riuscire ad entrare nel forno. C’era chi il forno non sapeva nemmeno quale fosse.
Da parte mia capivo ma non sentivo. Ero cresciuto in una famiglia agiata, avevo frequentato un’università più per curiosità che per passione e avevo trovato lavoro grazie agli agganci di mio padre. Non me ne vergognavo, ma spesso sentivo di non essermi mai veramente meritato la vita che avevo. I ragazzi li capivo, e razionalizzavo i loro problemi cercando di dargli i consigli più utili (cosa che uno psicologo non sempre dovrebbe fare).
 
La scuola dove lavoravo era un vecchio, o antico (a seconda dei punti di vista), ospedale. Ampie stanze, tutte molto luminose. Sapevo che tra gli studenti si erano create leggende macabre che divertivano i ragazzi più grandi e spaventavano le ragazze più ingenue
Quella mattina ero un po’ in ritardo, camminavo svelto tra i corridoi della scuola, e, ad eccezione delle urla degli insegnanti più passionali, la calma dormiva (insieme a tanti studenti). Girai l’angolo imboccando l’ultimo lungo corridoio in fondo al quale ricevevo i ragazzi. La porta era socchiusa probabilmente Mike mi attendeva.
Quel corridoio serviva ben 6 aule e la prima era quella di geografia, l’ultima la mia. Mi venne in mente la leggenda dell’aula di geografia; si diceva che avesse ospitato un pazzo veterano di guerra, il povero mutilato aveva l’emofilia, una malattia ereditaria che impedisce al sangue di coagulare in tempi normali. Bloody lucky (così lo chiamavano) si era ferito ad una gamba  ed era stato internato; una mattina in preda ai ricordi della guerra uscì dalla stanza, trascinandosi aghi e riaprendosi la ferita; percorse tutto il corridoio lasciando una lunga strisca di sangue per poi buttarsi da una delle finestre.
Ero a due aule di distanza, e avevo negli occhi ancora l’immagine del povero veterano quando senti un rumore basso e potente, poi silenzio. Sentì le mie gambe tremare, non sapevo di avere paura, una crepa larga quanto il mio pugno mi superò e fu tutto buio.
 
Tornai in possesso dei miei sensi molto lentamente, e dopo un lasso di tempo indefinito. Era buio, e avevo la vista annebbiata, poi sentì un odore acre e denso come di calcinacci e terra.  Come prima il silenzio copriva quasi ogni rumore, ma questa volta era imposto. Solo una sirena in lontananza.
 Infine il tatto. Ero steso a pancia in giù, la testa di lato che guardava la mia mano col palmo contro il terreno: questo arto era intatto. Provai a muovere l’altra mano e mille aghi mi trafissero l’intero braccio sinistro che tuttavia non si spostò di un millimetro. Era sotto a un masso (o meglio un muro crollato) fino a metà avambraccio. Le gambe stavano bene, per quanto il concetto di stare bene vada contestualizzato: la scuola in seguito ad un terremoto era crollata e il piano dove prima camminavo si era congiunto con quello sotto,  ero precipitato per 3 metri atterrendo di faccia. Tutto questo pero ancora non lo sapevo.
Considerando sempre la tragica situazione ero finito, fortunatamente, in una specie di minuscola caverna. Probabilmente visto che al momento del crollo mi trovavo in un corridoio, la forma delle macerie aveva mantenuto più o meno la stessa morfologia.
Alzai la testa per guardarmi intorno, non curandomi del lamenti della colonna vertebrale, il cunicolo si estendeva per circa 20 metri e poi sembrava girare a destra, da lì intravedevo qualcosa di simile ad un bagliore. Se fossi riuscito a liberare il braccio avrei dovuto strisciare, non senza fatica: l’altezza del cunicolo era poco più alta del mio corpo.
Per qualche motivo mi vennero in mente le estati insieme a mio fratello. Passavamo interi pomeriggi  in cantina dove il nonno teneva tutte le scorte del negozio. Per gli occhi pieni di fantasia di due bambini quella cantina era un luna park: barattoli di cetrioli, bottiglie di vino, vestiti, spazzolini da denti, profumi ma soprattutto scatole, un sacco di enormi scatole, scenario della maggior parte dei nostri giochi: auto da corsa, navicelle spaziali e spesso i soldati che strisciano per terra…
Il mio corpo ricordò quei giochi e i movimenti che facevamo, avevo qualche possibilità di farcela. Restava comunque il problema del braccio sotto al muro.
Nonostante il cunicolo fosse molto basso era comunque abbastanza largo, cosi infilai la punta delle scarpe sotto la sottile fessura per fare leva e cercare di allentare la morsa sul braccio, incredibilmente si mosse! Seppur di qualche millimetro, ancora pero non bastava. Appoggiai un piede contro il muro per spingermi via mentre l’altro continuava a far leva, sapevo che mi sarei frantumato le poche ossa rimaste integre ma era l’unica.
“uno..”
“due…”
“tr…..” non riuscì nemmeno a finire di dire quel monosillabo che la voce mi abbandonò: inutile dire il dolore che provai.
 
Il braccio, o quel che ne restava, era libero. Mi autocommiserai per un po’, poi capii che non ne sarei uscito se andavo avanti cosi, perdevo sangue ed ero sempre più debole. Alzai lo sguardo in direzione di quell'accenno di bagliore, la scelta era chiara: restare li e morire oppure trascinarmi per il cunicolo inseguendo più una speranza che una certezza.
Non sono il protagonista di un libro che alla sua ultima battaglia capisce il significato dell’universo, infatti sotto tonnellate di macerie era più l’istinto di sopravvivenza a guidarmi che i miei ideali. Non decisi di martoriare ancora le mie ferite lungo il cunicolo per arrivare ad abbracciare mia moglie, non me ne fregava niente. Dovevo sopravvivere, se ce l’avessi fatta tutto il resto sarebbero stati effetti collaterali.
Ultimo ricordo di questa storia è che giunto fino al bagliore questo era svanito e il corridoio semplicemente finiva. Prima di perdere i sensi credo che qualcuno mi abbia in qualche modo tirato su.
 
Dopo aver raccontato una trentina di volte quello che mi era capitato alle telecamere e giornali vari, la mia vita torno quasi normale ad eccezione del fatto che la scuola non c’era più. Molti studenti persero la vita tra cui Mike. Mi dispiacque molto, non l’avevo conosciuto abbastanza da aver instaurato un rapporto di amicizia pero era un ragazzo che si era perso e ora non aveva più possibilità di ritrovare la strada. Fatto sta che compresi quanto i nostri unici remi siano le speranze, che spesso sono di carta ma la differenza la si nota quando sono ormai sciolti nell’acqua.
Più metabolizzavo questo concetto più capivo che non si vive il presente ma un ipotetico ideale futuro roseo. Smisi di dare consigli.
 
Oggi, dopo 6 anni, apro la porta del mio ufficio la mattina e la prima cosa che vedo, sono io riflesso nello specchio che ho montato di fronte all’entrata per ricordarmi tutte le mattine come sono fatto (qualche cliente lo trova stranamente inquietante, mah…)
   
 
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