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Autore: 97dubhe97    17/12/2012    0 recensioni
"Vieni via con me..."
Oliver finalmente ritrova la felicità, ma a quanto pare non è il suo destino...
scritta per un concorso
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DUE MESI …
 
 
Nel cielo c’erano le stelle. Ero immerso nell’afa di una calda notte di luglio, sdraiato in un prato della periferia di Roma. Stavo appunto contemplando l’immensità del cielo sopra di me, meravigliandomi di quelle lucine che erano sempre per me motivo di consolazione, ma anche di strazio: assieme alla mia ex, guardavo sempre le stelle anche perché lei conosceva a menadito il nome di tutte le costellazioni. In quel momento stavo appunto pensando a lei, Violet, il mio primo vero amore e al perché era successo tutto questo. Semplicemente lei era venuta da me, dicendomi che da un po’ di tempo non provava più nulla nei miei confronti, “le mancavano emozioni”.
Ricordai, con una fitta al cuore, le lacrime che ho versato per lei, tutti i tentativi inutili di riconquistarla, quanti “No!” avevo ricevuto come risposta, quanto ho sofferto per lei e quanto ancora soffrivo. Tutte queste cose mi facevano molto male, ma quello che mi faceva soffrire ancora di più, erano i nostri ricordi, quelli belli. Molti mi chiedono: “La ami ancora?” io dico sempre: “No, sono innamorato dei nostri ricordi …”. Ammetto che questa mia ossessione è malsana, ma io non riuscivo a girare pagina per davvero. Tutti quei bei momenti, erano impossibili da dimenticare. Se a questo poi si aggiunge la speranza che non si spegneva mai di poter vivere altri momenti del genere con lei …
Pensavo alla prima volta in cui l’ho vista, nel bar sotto casa, alla prima volta in cui ho sfiorato i suoi boccoli color ebano, a tutte le volte in cui mi sono specchiato nei suoi occhi verde ghiaccio. Alle volte in cui la prendevo in giro perché era piccola ed esile e lei fingeva di tenermi il broncio e poi veniva da me, si alzava in punta di piedi e mi schioccava un leggero bacio sulle labbra, con quella bocca che sembrava dipinta, dal tanto era perfetta, morbida e rossa. Io la stringevo forte tra le mie braccia, sentivo le sue manine calde che indugiavano sulla mia schiena, i suoi baci leggeri sul collo, la maglietta che cadeva a terra, la felicità che ogni volta provavo nel stare con lei, come se fosse sempre la prima. La sensazione che sentivo in quei momenti, era di assoluta appartenenza. Lei era tutta mia, solo mia. Io ero suo. O almeno così credevo.
Quando iniziarono ad arrivarmi le voci “L’ho vista baciare un altro, era mano nella mano con un ragazzo biondo, …” io ho sempre fatto finta di nulla, perché la mia fiducia in lei era totale. Il mio cuore era totalmente in mano sua e non avrei mai pensato che lei lo avrebbe calpestato così.
 Mi ripetevo sempre che non era possibile, sicuramente l’avevano confusa con una qualche ragazza, magari che le assomigliava. In fondo non era l’unica ragazza coi capelli scuri e ricci in tutta Roma. Negli ultimi tempi, però, era cambiata: era più schiva, fredda. Io pensavo fosse a causa dei suoi frequentissimi litigi coi genitori: lei voleva venire a vivere da me, suo padre non voleva perché sosteneva che otto mesi assieme erano troppo pochi, di aspettarne un altro paio. Io facevo di tutto per credere che fosse solo per questo  alla fine mi convincevo sempre. Doveva essere così: noi ci amavamo …
Quando sentii le lacrime iniziare a sgorgarmi dagli occhi, li chiusi con violenza e tornai al presente: lei non c’era più, era finita.
   I miei amici avevano bevuto, erano ubriachi. Io no, ero lucido. Mi chiamo Oliver, ho ventuno anni, i capelli castani ricci e gli occhi verdi. La mia debolezza e stupidità, avevano fatto si che loro mi convincessero che avevo bisogno di “puro piacere”.
Ora loro se ne erano andati, lasciando tutto intorno una discarica di bottiglie di wodka, mozziconi di sigaretta, sacchettini vuoti di marijuana. Io ho seguito il loro consiglio: stavo aspettando una prostituta. Non ero così convinto che “usare” una ragazza per il mio semplice desiderio carnale fosse giusto, l’avevo sempre trovata una cosa meschina e ripugnante. Ma si sa, la sofferenza trasforma le brave persone in gente cattiva. Ora non mi chiedo più come si fa a diventare “cattivi ragazzi”: vivi una bella storia, poi lei chiude tutto, tu soffri come un cane, ti rassegni, e la meschinità racchiusa nell’animo di ognuno, affiora e dà il meglio di sé.
Me ne stavo lì, vicino alla fermata dell’autobus e aspettavo. Quando sentii lo scricchiolio stanco dei freni e lo sbuffo sordo delle porte che si aprivano, mi alzai in piedi. Udii qualcuno scendere e lo schiocco prodotto da un paio di scarpe col tacco, che risuonava sul marciapiede. Mi affrettai in direzione di quel rumore. Ero un pochino agitato e a disagio: non avevo mai fatto cose simili prima d’ora. Ma appunto, ora ero un ragazzo cattivo. In quel momento pensi a cosa avrebbe detto lei di me. Scossi la testa: l’opportunità di stare con me e rendermi una persona migliore lei l’aveva già avuta, ma l’aveva buttata al vento. Ora dovevo cercare in tutti i modi di voltare pagina.
 Sbucai sul ciglio della strada e rimasi folgorato: davanti a me c’era una ragazza di non più di vent’anni. Era sicuramente del nordest Europa, bionda, con gli occhi azzurri e lo sguardo vuoto e triste. Portava un abitino di pizzo bianco, molto corto. Osservai la  grazia nel suo incedere verso di me: mi ricordava una di quella fatine che si vedono nei libri per fiabe dei bambini. Una fatina che sembrava molto, molto triste. Mi sentii un mostro. Mi disse:
“Sono Michelle. Dimmi ciò che vuoi che io faccia ed io lo farò.”
Io rimasi colpito dal suo tono rassegnato e triste. Non avevo sbagliato, nella mia mente era già la mia piccola fatina triste. La guardai: era piccola ed esile, con un visino d’angelo circondato da una nube dorata di capelli ricci. Alcune pallide lentiggini costellavano le sue guance di seta e il suo nasino un poco all’insù. Gli occhi erano grigi come l’oceano in tempesta. Le ciglia e le sopracciglia così bionde che alla luce della luna piena sembravano argentee. Assomigliava a  una bambina e provai un forte senso di protezione verso quella creatura che sembrava così sola ed indifesa.
Al pensiero delle rozzezze che sicuramente aveva già dovuto subire, mi travolse un senso di rabbia e repulsione verso me stesso e a tutti quelli che l’avevano usata per la loro semplice soddisfazione carnale. Le ingiustizie a quel mondo erano davvero infinite. Era sola, come me.
La fissai nell’oceano triste dei suoi occhi e di getto, senza pensarci, le dissi:
“Vieni con me nel mio appartamento, ti prometto che parleremo e basta, ok?”
“ Va bene” disse lei. Di nuovo il suo tono triste mi colpì con la violenza di uno schiaffo.
 Il suono della sua voce mi ricordò il tintinnio di una moltitudine di campanellini che squillavano. Campanellini tristi. Mi chiesi, senza sapere il perché, come sarebbe stato il suono dei campanellini felici.
A quel punto, d’impulso, afferrai la sua mano. Dalla sua rigidità compresi che da tanto tempo nessuno faceva un gesto d’affetto nei suoi confronti. Desiderai essere io la sua persona, quella che le avrebbe dato tutto l’affetto di cui aveva bisogno. Seguendo un altro impulso, la abbracciai e a quel punto lei scoppiò a piangere come una bimba. I campanellini erano molto, molto tristi. Malgrado i miei sforzi, una lacrima mi scivolò sulla guancia e corse giù seguendo il morbido intrico di una sua morbida ciocca di capelli che, mi resi conto in quel momento, avevano una vago sentore di vaniglia e mandarino.   
La sollevai delicatamente da terra e la portai nella mia macchina. Cercai una coperta sul retro dell’auto, alla cieca, perché ero rapito dal grigio profondo dei suoi occhi da bambina, velati di lacrime. Notai che non era truccata, come tutte le altre. Malgrado il suo ignobile lavoro, possedeva una purezza e una nobiltà d’animo che mi attiravano molto. La mia fatina dagli occhi tristi.
 Non sapendo che altro fare, le porsi un fazzoletto con cui asciugarsi le lacrime che brillavano come gemme sulle sue guance di seta.
“G-grazie.” Balbettò lei, a disagio almeno quanto me. Discretamente, col pollice, mi asciugai dalla guancia la lacrima che mi era involontariamente sfuggita. Quella ragazza mi faceva uno strano effetto.
Misi in moto e mi diressi verso casa mia. Giunto nel parcheggio la sollevai di nuovo, avvolta nella mia coperta a scacchi e la portai in camera mia.
“Come ti chiami realmente?” le chiesi. Avevo letto da una qualche parte che le prostitute usavano darsi dei nomi “fittizi”. Lei si asciugò le lacrime dalle gote pallide e iniziò a parlare col classico tono ansioso di chi ha una storia da raccontare e non aspettava altro che un ascolatatore.
“ Il mio vero nome è Rachel, che è un nome che deriva dall’ebraico e significa “mite, pecorella”. Ma la padrona dice che questo nome non va bene per il lavoro, quindi mi è stato imposto di chiamarmi Michelle. Ho diciannove anni e vengo dalla Lituania. I miei genitori sono morti tanti anni fa e ho vissuto con la nonna in un piccolo quartiere di Vilnius. Ho frequentato un’accademia di danza, ma a causa della mia piccola statura, nessuna compagnia mi ha mai assunta. Ho girovagato dalla Spagna, alla Russia; dall’Irlanda, all’Italia. Come risposta ho sempre ricevuto derisioni e porte chiuse in faccia. Io non cercavo una parte da protagonista, anche un piccolo ruolo marginale mi sarebbe bastato ma niente da fare. Ed ora eccomi qui. Lavoro in un nightclub, ho l’influenza ma la padrona non mi perette di riposarmi ed io … sono tanto stanca! Io vorrei tanto … innamorarmi, avere una famiglia,, ma prima di tutto vorrei danzare per qualcuno
“ Se ti va puoi danzare per me … Davvero sarei onorato di vederti ballare!
La vidi arrossire e un angolo della sua piccola bocca si sollevò verso l’altro, in un timido sorriso compiaciuto. Si tolse le scarpe e rimase a piedi nudi.
“Che sai ballare? Classico o moderno?”
“Assolutamente classico! Hai qualcosa? Tipo Don Chisciotte?” disse con un tono molto più allegro.
Fortunatamente mia madre era un’appassionata, corsi di sotto, nella libreria e scorsi veloce,ente i titoli dei vari cd. Trovai proprio Don Chisciotte. Lo presi e lo portai in camera. Dopo un piccolo litigio con lo stereo, riuscii a farlo partire. Lei iniziò subito a muoversi con molta grazia sulle punte dei suoi piedini minuscoli. Per l’ennesima volta in quella sera, pensai a lei come alla mia piccola fatina dagli occhi grigi e la voce tintinnante.
Io la osservai per tutta la durata del pezzo e a malincuore mi resi conto che si era fermata perché la musica era già finita. Concluse con un inchino aggraziato e scoppiò a ridere.
Questa volta i campanellini erano felici e tintinnanti, così inizia a ridere anch’io.
Per la prima volta dopo tanti mesi ero felice. Lei si avvicinò a me con una grazia tale che sembrava quasi stesse ancora danzando e mi disse: “ Ti va di ballare un valzer con me? Mi faresti molto felice!”
Io scoppiai a ridere: ero sempre stato una frana a ballare. Goffo, ridicolo, inciampo da tutte le parti. Però lei mi fissava con i suoi straordinari occhi grigi. Dentro ad essi c’era una tacita supplica e mi sarei sentito davvero meschino a dirle di no. Cercai però di avvertirla:
“ Rachel, forse dovresti sapere che io non so ballare... non vorrei farti male.”
Lei scoppiò a ridere come una bimba e mi disse:
“ Stai tranquillo … ehm …”
“ Oliver. Scusa che stupido non mi sono nemmeno presentato.” Le dissi sorridendo.
“ Ecco Oliver, stai tranquillo. Il valzer è molto semplice, ti condurrò io! Dai ti prego non dirmi di no, ora che sono felice!”
Ovviamente agli occhi dolci di una ragazza, seguita da una frase del genere, qualsiasi “cattivo ragazzo” non avrebbe avuto il coraggio di rifiutare.
“ Ok, dato che insisti. Ti va “Sul bel Danubio blu? Lo ballavo sempre con mia mamma quando ero piccolo ed è uno dei valzer migliori …”
Lei batté le mani entusiasta e iniziò a saltellare e ad urlare:
“Sì, Sì!”. Mi volò in braccio e mi stampò una bacio sulla guancia.
Mi sentii arrossire come un ragazzino: ero già innamorato pazzo di lei. Dopo un’altra litigata con il mio stereo da mausoleo, partì. Lei mi cinse delicatamente le spalle con un braccio e mi prese la mano. L’altra mano l’appoggiai alla base della sua colonna vertebrale. Lei fissò i suoi occhi nei miei e con una buffa espressione “da maestrina”, trattenendo a stento le risate, iniziò a volteggiare, trascinandomi con sé. Io, non sapendo bene che altro fare, la seguii. Fu davvero magnifico: per un momento non pensai più ai miei problemi, ma soprattutto, dopo mesi e mesi, fu la prima volta in cui sorrisi di nuovo davvero felice. Altro grande successo personale: in quella serata non pensai a Violet, ma solamente a me e a Rachel.
“Grazie!” le dissi.
“E di che?” mi chiese lei sinceramente stupita.
“ Tu mi stai rendendo felice. Da molti mesi non lo ero. Non faccio altro che pensare a Violet. La mia ex ragazza. Eravamo assieme da otto mesi ed io le avevo già proposto di venire a vivere da me.
Purtroppo iniziarono ad arrivarmi voci che mi stava tradendo. Io ho sempre fatto finta di nulla, io  la amavo  e credevo fosse così anche per lei. Io ho visto che era diversa: più fredda, schiva e iniziava ad evitarmi. Ovviamente io speravo fosse a causa dei litigi coi suoi genitori, che ultimamente erano molto più frequenti. Io la amavo …”
“ La ami ancora?” mi interruppe lei guardandomi intensamente
“ No, io … amo i nostri ricordi. Sai io sono stato con lei per otto mesi e prima di lei le mie storie mi non erano durate di più che per un paio di mesi tirati per i capelli. Capisci? Lei mi ha fatto scoprire l’amore vero. Ora sono passati cinque mesi …”
“E allora svegliati Oliver! Sono passati cinque mesi e dubito che tu non abbia più provato a ricondurla a te. Se lei è così stupida da non capire che ragazzo d’oro aveva e a quante ragazze, me inclusa, sicuramente desideravano un ragazzo come te beh … lasciala perdere. Non si può ridonare la vista ai ciechi. Lei non ti meritava. Il mondo è pieno di ragazze, quindi  guardati attorno. Ci sono tantissime ragazze che stanno aspettando un ragazzo dolce come te!”
“ Io voglio te! Insomma mi piacerebbe tanto conoscerti di più … hai tutti i requisiti: sei una bella ragazza che vuole un ragazzo dolce come me, giusto?”
“Io … non posso. Ti sei per caso dimenticato il mio lavoro. Che direbbero i tuoi amici se scoprissero che esci con una prostituta?”
“ Se tu uscissi con me saresti un’ex prostituta. E poi tu devi piacere a me e non ai miei amici e parenti. Io per te andrei contro tutto e tutti … io non posso dirti ora di amarti perché sarebbe troppo presto. Ma tu mi piaci e voglio quantomeno avere il piacere di passare del tempo con te, magari ci innamoriamo e ti trovi un posto di ballo e …”
“ Fermo. Non dire così. Non sai le volte in cui ho sentito promesse non mantenute e non sai il male che mi ha fatto questo. Quindi va bene vederci e conoscerci ma dando tempo al tempo e non correndo. Accetti?”
Mi fissava con i suoi occhi, lucidi di lacrime. In quel momento vi lessi dentro tutta la sua sofferenza e solitudine che sicuramente sentiva. Io pensai che doveva essere mia. Perché lei era la mia piccola fatina dagli occhi lucidi e nessuno doveva più farle del male, in nessun modo. Perché io non glielo avrei permesso. E se qualcuno si fosse azzardato, si sarebbe pentito amaramente, molto amaramente!
“Va bene, Rachel. Ora mi sa che ti devo riaccompagnare a casa, perché tra un’ora inizio a lavorare. Domani sera, quando torno passo direttamente a  casa tua e ti riaccompagno domani alle cinque, va bene? A proposito dove abiti?”
“Al locale Colosseum, in centro. Lo conosci? Li ci lavoro e sopra, come tutte le altre ragazze ho un appartamento.”
“Si ho in mente dove si trova. Se vuoi dico alla padrona che sei ammalata e di lasciarti riposare almeno oggi, ok?”
“Va bene, grazie mille Oliver!”
Mi salutò con un bacio sulla guancia e io le diedi 200 euro, anche se lei non li voleva accettare.
Ogni sera da mezzanotte alle cinque la andavo a prendere e lei era felice di poter parlare con qualcuno dei suoi problemi, senza essere giudicata. Oltre a questo ballavamo.
Una sera, dopo aver ballato assieme  “ Libiamo ne’ lieti calici” lei si fermò e mi disse:
“Bravo Oliver! Sono fiera di te, stai imparando bene.”
Mi diede un bacio sulla guancia, ma quella sera ero euforico, agitato. Non sapevo cosa avessi, ma volevo un bacio e non sulla guancia. Allora la guardai più dolcemente possibile e increspai leggermente le labbra. Mi sentivo un tredicenne alle prese con la sua prima fidanzatina.
Lei rise e mi disse:
“Che c’è`? vuoi un altro bacio?”
“Si, ma voglio essere io a dartelo, chiudi gli occhi!”
Lei chiuse i suoi immensi oceani girgi e sorrise, agitata almeno quanto me. Alzò leggermente il viso e increspò la sua piccola bocca rossa. Allora le presi il volto fra le mani e, reclinandole la testa leggermente all’indietro, appoggiai le mia labbra contro le sue. All’inizio fu un bacio molto casto e dolce. Innocente. Poi lei, sotto la spinta leggera delle mia lingua, dischiuse leggermente le labbra e allora fu un bacio vero. Iniziai ad ansimare, prima leggermente e poi in modo sempre più evidente. Lei avvolse le gambe attorno ai miei fianchi e mi mise la mani fra i capelli. Io invece la tenevo stretta a me, come un koala che si aggrappa convulsamente ad un albero di eucalipto. Sentii le sue mani trafficare sulla mia schiena e allora mi resi conto che lei si era già tolta la magliette e cercava di fare altrettanto con la mia. Sorrisi contro le sue labbra e la tolsi. Poi, nel mezzo di un bacio ancora più appassionato del primo, mi ritrovai steso nel letto, con lei. Eravamo assieme ora, per davvero. Il suo cuore e il suo respiro erano sincronizzati ai miei. Eravamo liberi, entrambi. Finalmente.
Mi svegliai al mattino, con un sorriso a trentadue denti stampato in viso, ero così dolcemente, stupidamente felice! Mi sentivo come un bambino che dopo tanto tempo riceveva in dono un’enorme tavoletta di cioccolata tutta per sé.
Lei era ancora addormentata e la sua testolina riccioluta era appoggiata al mio petto. Eravamo come due parti complementari della stessa cosa e questo mi piaceva più di quanto riuscissi ad ammettere persino a me stesso.
Altre sere come quella seguirono, e furono sempre belle almeno quanto la prima. Finalmente, dopo tanto tempo ero felice. Sul giorno sembravo un adolescente perdutamente innamorato. Scrivevo i nostri nomi da tutte le parti, con cuori e frecce, persino i miei colleghi se ne accorsero, e con sorrisi ammiccanti mi chiesero chi fosse lei, dove l’avessi incontrata e se era la mia ragazza. Io rispondevo con sospiri e sorrisi imbambolati.
 Pensavo solo a lei e contavo le ore che mi separavano dalla fine del lavoro, la volevo tutta per me. Sul giorno lei se ne stava rintanata in casa mia, e la sua “padrona” credeva che fosse via a lavorare. Ovviamente ogni giorno le davo dei soldi. Quando arrivavo a casa la cena era pronta,  lei mi aspettava in bagno, con la vasca piena di acqua calda e schiuma e le candele accese. Mi massaggiava sempre delicatamente la schiena e il collo irrigidito dal lavoro con una morbida spugnetta ed un olio di mandorle. Dopo cena ballavamo sempre (il valzer iniziava a piacermi davvero), chiacchieravamo, ridevamo. Come una vera coppia di fidanzatini.
Una sera presi tutto il mio coraggio e la mia determinazione e le dissi quello che provavo per lei:
“Rachel, io dopo tanto tempo non penso più a Violet e sono di nuovo felice. Io con te mi sento come un adolescente innamorato: non faccio che pensare a te … a noi! Io … ti amo, Rachel!” 
Lei mi fissò con i suoi oceani grigi che avevano sempre il potere di farmi dimenticare persino il mio nome. Mi sorrise leggermente, ma vedevo chiaramente che la mia fatina era pensierosa.
I suoi bellissimi occhi si socchiusero: non voleva mostrarmi che erano velati di lacrime.
“Oliver, io nella mia vita non ho mai amato un uomo, sai bene che nel mio lavoro non c’è posto per l’amore” sospirò “se amare significa … pensare sempre alla tua persona, quella che ti fa stare bene, che ti fa sorridere. Quella a cui senti di appartenere e che ti appartiene, con cui vorresti stare sempre, con la quale posso parlare di tutto e che mi fa sentire una vera persona e non un oggetto … Se questo è l’amore beh … io credo di amarti. Ma tu sai bene che per me non è così facile e … scegliere me significherebbe sicuramente litigare coi tuoi genitori, magari rischiare che essi non ti rivolgano più la parola, mettere a repentaglio la tua reputazione e il tuo posto di lavoro. Andare contro tutti i tuoi valori e i tuoi principi …”
“A quale valore andrei contro, amandoti? Tu sei una ragazza come tutte Rachel, anzi sei meglio delle altre, perché malgrado il tuo “mestiere”, conservi una purezza e una nobiltà d’animo che tantissime ragazze non hanno! E dimmi, l’amore non è forse l’anelito più alto a cui una persona possa aspirare? Se la risposta è sì, sappi che io ti amo, che tu sei la cosa che più voglio!”
“Sì, credo che sia così: che senza amore l’uomo non esista. Ma l’amore è una medaglia a due facce: l’amore vero deve essere corrisposto e soprattutto si deve provare verso la persona giusta. Altrimenti non è solo amore, ma soprattutto dolore. Io non sono sicura di essere la persona giusta, sicuramente la tua ex era una brava ragazza, cosa che io non sono …”
“Sì, sì, certo!”  la interruppi, “una brava ragazza che mi ha tradito … Che ha preso il mio cuore, l’ha calpestato e non felice ha pure buttato i pezzi. Che del mio amore non ha saputo che farsene, dimmi tu che ragazza esemplare! Dai Rachel, non essere felice, tu hai solo paura: paura di soffrire ancora. E non posso assicurarti che io capisca ciò che si prova, ma posso provare a comprendere: la tua vita è stata fatta quasi solo da dolore, sofferenza, rifiuti, promesse non mantenute, persone che ti hanno usata e ora tu hai paura  che io faccia lo stesso gioco che tutti hanno fatto con te. Ma ricordati che io non sono tutti, io sono Oliver e ragiono con la mia testa. Non m’importa di quello che gli altri diranno. L’unica cosa che mi rende felice sei tu; e se i miei genitori e i miei amici non riusciranno a capire questo, per me possono andare a quel paese. Per me ora esisti solo tu!”
A quel punto lei abbassò gli occhi e non seppe che replicare. Sospirò e disse:
“Allora mi voglio licenziare, subito!”
“Va bene, andiamo. Io vengo con te!”
“Ora no, io non …”
“Ti prego Rachel. Vieni via con me! Scappiamo, ce ne andremo lontano.”
Lei si allontanò da me con violenza, lo sguardo allucinato e pieno di terrore e lacrime.
 “Io … non posso. Anche se lo vorrei… forse è meglio per entrambi se non ci vediamo più… dimenticami e perdonami se puoi.”
Prese il suo giubbino e se ne andò via, correndo.
Non ero in grado di realizzare che quello per lei era un addio. Il giorno dopo provai a chiamarla, le riempii la segreteria di messaggi. Per lo più erano frasi senza senso, in mezzo alle lacrime e ai singhiozzi. Mi sembrava di essere ripiombato nella cupa solitudine dei mesi precedenti, quando lei ancora non c’era. Ero triste, deluso, ferito, e si, anche arrabbiato. Arrabbiato con lei, perché se ne era andata, senza dirmi il perché.
Ma soprattutto ero arrabbiato con me stesso. Perché non ero riuscito a tenerla avvinta a me, lei non aveva capito che il mio amore per lei era sincero, che non mi importava che lei fosse una prostituta. Io la amavo per  quello che era. E lei era la mia fatina dagli occhi grandi e la voce come il suono di campanellini. Ultimamente i campanellini erano sempre felici. Io avevo ancora la presunzione che fosse merito mio, tutto mio. Non sapevo che fare: non tagliavo più la barba, non andavo più al lavoro. Stavo solo seduto, col telefono in mano. La chiamavo ancora e ancora, ma lei non rispondeva.
Inizia a pensare a come fare a dimenticarla: sicuramente non avrei più chiamato una prostituta, questo era certo! Decisi di accendere la tv, avevo bisogno di distrazioni.
Misi il telegiornale e, ironia della sorte, c’era un servizio che parlava di una prostituta morta suicida. Stavo quasi per spegnere o quantomeno cambiare canale, ma qualcosa mi trattenne. Non so spiegarmi che cosa, fu una specie di istinto, di sesto senso. Stavo guardando senza troppo interesse quando sentii nominare “Colosseum”. Stavo per mettermi a piangere: quello era il nome del locale nel quale lavorava Rachel. Iniziai ad ascoltare:
“… La prostituta suicida lavorava nel locale “colosseum”, vicino al centro di Roma. Pare che da alcuni mesi avesse intessuto un rapporto da poco sfociato in amore con un giovane uomo di poco più vecchio di lei …”
“Proprio come me e Rachel …”  pensai con un nodo alla gola.
“Secondo le nostri fonti, la gerente del locale forniva le ragazze di passaporto finto, così che risultassero in regola ai controlli ma non risultavano presenti in Italia, in modo che esse non dovevano pagare le tasse e le imposte … La giovane Rachel era in preda ad unn dubbio: mollare tutto e andare con Oliver, o dimenticarlo per sempre?”
A quel punto compresi: lei era … morta? Non poteva essere vero.
Corsi al Colosseum, solo per vedere il suo appartamento coi sigilli della polizia. Chiesi ad un agente che ne avevano fatto del corpo.
“È nell’obitorio dell’ospedale, oggi pomeriggio le faranno l’autopsia”
Saltai di nuovo in macchina e corsi a tutta velocità verso l’ospedale. Scesi in quel luogo tetro che era l’obitorio ed entrai: la vidi, stesa su un tavolino, immobile, coperta da un telo bianco.
“Perché? Rachel perché mi hai fatto questo, perché?  Io ti amo, io ti seguirò!”
Una strana smania mi spinse a tornare a casa e ad architettare il mio piano: andare da lei.
Io la voglio di nuovo accanto, per sempre. Per questo devo morire con lei, non mi importa più nulla di me stesso ormai: era lei la mi linfa vitale, ora io sono solo un guscio vuoto.
 
 
Sono qui in camera con un coltello. Ho scritto tutto questo perché la gente non deve dimenticare! Chiedo perdono a tutti, ma io la amo. Lei non ha voluto venire con me, quindi andrò io da lei … Addio!
  
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