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Autore: Melora    04/07/2007    2 recensioni
Vedere il mondo stando dietro un vetro, quando la vita scorre davanti e non si riesce nemmeno a sfiorare, se non negli occhi di un uomo che muore...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bologna, 10 agosto 2003


Mi piace osservare il viavai di gente che popola via Tiarini, la sera.
Nelle notti di estate la musica e le risate della gente arrivano fino a me, attraversando i vetri sigillati che isolano il mio mondo plastic-free da quello che sta fuori.

In quei momenti la mia realtà piatta e spesso insopportabile mi lascia un attimo di respiro e io posso sentirmi, almeno per qualche istante, una ragazza come tutte.
Perchè di solito, nelle lunghe veglie notturne, nelle mattine assonnate, nei pomeriggi afosi, nelle giornate lente che scorrono senza uno scopo, io non sono come tutte le altre. Sono diversa.

Non posso lavorare, non posso andare a scuola. Non posso uscire. Mi sono sconosciute le discoteche, i parchi, le piscine. Non posso mangiare merendine e nemmeno guardare la televisione.
Non respiro la stessa aria che respirano tutti gli altri, perchè anche la più piccola particella chimica può uccidermi. Non esiste una cura per questa "cosa", che non si può neanche definire malattia tanto è spaventosa.

Potete capire quindi perchè tutti i giorni io mi sieda davanti alla finestra, l'unica finestra che da sull'altro mondo. A guardare loro, gli Altri.
E' bello, rassicurante, fantasticare per ore e ore sulle loro vite, immaginare la loro casa, l'amore, i bambini.

Quella buffa signora che ha la pasticceria in fondo alla strada picchia tutti i pomeriggi il marito, con un corto bastone tutto storto e nodoso. E lui ride di gusto mentre corre su e giù per sfuggirle.
Qualche palazzo più in giù viveva un vecchietto tutto acciaccato. Tutte le sere esce di casa e va a comprare il giornale, dalla cartolaia rubizza che parla con voce da uomo.
Chissà perchè non lo andava a comprare di mattina.
E il giovane studente universitario, ogni sera lascia la bicicletta appoggiata a un muro. Arriva un cagnolino bianco e fa pipì sempre sulla stessa ruota. Quando il ragazzo scende alla mattina e riparte, la pipì si è già asciugata, assorbita dai ciottoli levigati delle stradine di Bologna.
Di storie così ce ne sono milioni e io le conosco tutte.
Le guardo da lontano, come una divinità triste e impotente. Soltanto una volta una di quelle vite è riuscita ad entrare, a rompere il vetro. Ho sentito il suo tocco.

Nell'appartamento proprio di fronte al mio vive una grande famiglia di immigrati. Non so come si chiamano, non so da dove vengano. Sembrano magrebini ma non posso dirlo con certezza.
E comunque non ha importanza, non ci sono razze qui, nella mia stanza asettica.
Sono tanti, almeno quindici, e sicuramente vivono stretti perchè la loro casa no può avere più di tre stanze. Sorridono sempre, tutti.
Anche i bambini, magri e malvestiti, ridono e corrono e saltano tutto il giorno.

Ahmed è l'unico che non sorride mai. Il nome l'ho scelto io, è adatto a lui, con la sua faccia seria da re del deserto. Sembra giovane, non può avere più di trent'anni ma la barba scura che gli copre le guance scavate rende difficile indovinare.

Si sveglia molto presto, al mattino. Lo so perchè io mi sveglio con il sole, a volte anche alle quattro del mattino.
E lui è già partito, sempre, tutti i giorni. Anche gli altri uomini della famiglia vanno a lavorare, anche la domenica e il sabato.
Non devono essere molto religiosi, oppure non hanno scelta. Sono andati a lavorare anche a Natale.

Lasciano a casa le mamme e i bambini piccoli. Io guardo le donne per tutta la giornata e quelle non si fermano mai.
Gesticolano, lavano, cucinano, litigano, tirano sonore pacche ai figli disubbidienti.
I padri tornano solo la sera tardi, quando già è buio.
Tutti i bambini aspettano davanti al portone e sembra che abbiano perso il sorriso. Vedo i loro visetti scrutare con preoccupazione finchè non scorgono il loro papà tra gli altri.
Allora, solo allora tornano in casa.

Piano piano genitori e figli rientrano nel palazzo e rimane solo la piccola Naima ad aspettare. So che si chiama così perchè ha una maglietta sgualcita, con scritto Naima sopra un gattino bianco.
Naima aspetta, fino a quando la sagoma di Ahmed spunta da dietro l'angolo, con una sigaretta in bocca. E lei lo raggiunge, con la calma e la grazia di una piccola principessa, afferrando la camicia del padre con il suo piccolo pugno. E' sollevata quando lo lascia davanti al portone per salire in casa.

Ahmed non sale mai. Si accende un'altra sigaretta e si siede nell'androne, aspettando. Arriva sempre circa a metà della sigaretta e poi solleva lo sguardo, incrociando il mio.
Ci guardiamo per pochi secondi, ogni sera, ma fa sempre male.
In quegli occhi scuri c'è il dolore, la paura. E' un uomo imprigionato da una gabbia più terribile della mia.

Ogni giorno prometto a me stessa di salutarlo, sorridere. Oppure di non guardarlo proprio. Ma è sempre lui a distogliere per primo lo sguardo. Butta a terra la sigaretta, fa un cenno di saluto al nulla e scompare dentro il palazzo.
Rimane forse solo la sua ombra, la forma del suo corpo magro nell'aria calda e pigra della notte bolognese. Io la vedo, brilla per ore prima di sparire insieme all'ultima luce della sera.

Questa notte mi hanno svegliato delle urla, forti.
Ho guardato la strada poco illuminata e subito qualcosa di rosso e liquido ha attirato il mio sguardo. Sangue. Ho seguito il piccolo rivoletto carminio e i miei occhi hanno incontrato il suo viso, pallido e disperato.
Mi si è impresso nella mente. Stava guardando verso di me.

Non potevo aiutarlo. Non potevo uscire. E già i lampeggianti in fondo alla via segnalavano l'arrivo della polizia. O forse dell'ambulanza. C'era gente che scappava.

Ahmed mi guardava e per la prima volta non ha distolto lo sguardo.
Per questo, stamattina, non sono alla finestra. La sola cosa che valeva la pena vedere è stata portata via, e non tornerà da Naima, stasera.
  
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