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Autore: Lusio    17/12/2012    17 recensioni
- Stanotte ho fatto un sogno.
- Che cosa hai sognato?
- L'ho dimenticato. Colpa del mio cervello che sta perdendo colpi.
- Ma tu non dimentichi mai niente.
- Perché questa casa è piena di ricordi. Troppi ricordi.
Vivere ottantatré anni ha i suoi pro e i suoi contro e questo Kurt Hummel l'ha ormai compreso da tempo, come tante altre cose: che si vive di rimpianti solo quando sai di non aver fatto tutto ciò che volevi e potevi fare, che ciò che veramente è importante è quello che resta, che varrebbe la pena vivere una vita ancora mille e mille volte.
Con accanto sua figlia Rose Elizabeth, testimone dei suoi trionfi, delle sue gioie e dei suoi dolori, un ormai anziano Kurt Hummel passa in rassegna tutti i vari avvenimenti che hanno costellato la sua lunga esistenza, belli o brutti che siano, e tutti importanti. Perché, a differenza di una foglia d'autunno che si sbriciola, i ricordi di una vita non volano via assieme al vento.
In attesa che la luna si faccia più vicina e che tutto ritorni come era un tempo.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Kurt Hummel, Nuovo personaggio | Coppie: Blaine/Kurt
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ne vale la pena' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Una stanza piena di foglie autunnali

 

 

“Come posso renderti felice?”

“Non lasciarmi mai indietro”

 

Respirò. I polmoni difettosi. Si sgranchì. Le ossa deboli e fragili. Si svegliò. La solita stanza da letto attraverso gli occhi appannati.

- Sei sveglio, papà? – si informò Rose Elizabeth, scendendo dalla poltrona sulla quale aveva passato, raggomitolata come un gatto, quella notte e quelle precedenti.

Kurt le rispose con uno stanco mormorio d’assenso, facendole cenno con la mano per farsi aiutare ad alzarsi e la figlia, sostenendolo delicatamente per la schiena lo mise seduto; spingendosi in avanti fece capire di voler scendere dal letto e Rose Elizabeth, sapendo che impedirglielo non sarebbe servito a niente, gli stese le gambe oltre il bordo e lui si affrettò ad infilare i piedi nelle pantofole; odiava farsi vedere a piedi nudi.

- Come ti senti oggi? – chiese la donna aiutandolo ad alzarsi e ad infilarsi una pesante vestaglia.

- Abbastanza bene – rispose lui, cercando di ricordare qualcosa che sembrava sfuggirgli – Stanotte ho fatto un sogno.

- Che cosa hai sognato?

- L’ho dimenticato – rispose lui con un leggero sorriso – Colpa del mio cervello che sta perdendo colpi.

- Ma tu non dimentichi mai niente.

- Perché questa casa è piena di ricordi – disse Kurt passando una mano bianca solcata da vene bluastre sulla cornice di una foto, mentre si avviava sull’uscio della stanza – Troppi ricordi.

Usciti dalla stanza si diressero verso il bagno e lì Kurt si fermò, guardando storto la figlia.

- Spero tu non abbia intenzione di seguirmi anche in bagno! – le disse.

- In quanto medico sarei tenuta a tenerti d’occhio.

- Sono ancora abbastanza autosufficiente da riuscire a lavarmi da solo – continuò Kurt, aprendo la porta ed entrando nella spaziosa toilette rivestita di pannelli blu lucidissimi – e ad espletare ai miei bisogni corporali con la dovuta privacy.

- Puoi, almeno, non chiudere la porta a chiave? – replicò Rose Elizabeth con pazienza.

- Sì – rispose lui lapidario, chiudendo la porta di scatto.

Passando una mano tra i capelli neri che iniziavano ad ingrigirsi sulle tempie, la donna si appoggiò alla porta, pronta ad entrare al minimo rumore sospetto, ma sentendo il familiare scroscio dell’acqua del rubinetto ne approfittò per controllare se le fosse arrivato qualche nuovo messaggio da suo marito sul cellulare. E infatti…

 

“Tutto bene? Io e i ragazzi arriveremo nel pomeriggio. Ci manchi. Se ti occorre qualcosa fammelo sapere. Ti amo. Aaron”

 

Con un sorriso, Rose Elizabeth scrisse un SMS di risposta al marito; sicuramente avrebbe fatto bene a suo padre vedere “i nipotini”, soprattutto Mary; diceva sempre che erano spiriti affini non solo per lo spiccato gusto per la moda che li accomunava. Sì, gli avrebbe fatto bene. Magari avrebbe smesso di pensare per un po’; perché era proprio questo a debilitarlo più della malattia che lo stava consumando: i troppi pensieri.

Era iniziato già da prima della malattia, questo lei lo sapeva. Per la precisione era iniziato dopo la morte di “papà Blaine” (era da una vita che non usava più quel soprannome); era stato da quel momento che papà Kurt aveva iniziato a mostrare segni visibili di cedimento ma aveva tenuto duro, non si era lasciato andare. Ma, col passare degli anni, alla lista delle persone che se ne erano andate, vennero ad aggiungersi tanti altri nomi, amici e parenti e ad ogni telefonata che annunciava una nuova dipartita vedeva suo padre diventare più bianco e magro e con una ruga in più sul volto.

- Ho sempre desiderato vivere a lungo per avere il tempo di realizzare tutte le mie aspirazioni, ma non ho mai pensato di dover pagare un prezzo così alto – lo aveva sentito dire solo qualche giorno fa.

Vivere ottantatre anni aveva i suoi pro e contro.

Quando la porta del bagno si aprì, Rose Elizabeth quasi ruzzolò all’indietro ma la mano scheletrica e ancora forte di papà Kurt la sostenne; voltandosi lo vide fare una smorfia: cercava di sembrare contrariato per nascondere il fatto che si era applicato la dentiera.

- Vuoi mangiare qualcosa? – gli chiese la figlia – Ti scaldo un po’ di latte.

- Prima voglio passeggiare un po’ fuori, in giardino.

- Papà, non dovresti affaticarti troppo.

- Per favore, Elizabeth – esclamò Kurt con affaticata decisione – Odio fare la parte dell’invalido.

Non c’era motivo di contraddirlo; in quei giorni sembrava tutto fuorché un anziano malato.

Tenendolo sottobraccio e a passo lento (sebbene suo padre si ostinasse a voler camminare con un passo più veloce) la donna lo condusse al piano di sotto e lì, nell’ampio salotto cosparso di foglie secche, marroni e gialle trascinate dentro dal vento attraverso le finestre tenute sempre ostinatamente aperte. Un’altra delle fissazioni di Kurt. Ogni volta che scendeva, raccoglieva la foglia autunnale che più gli piaceva e se la rigirava tra le dita come la cosa più preziosa del mondo per poi racchiuderla nella mano e sbriciolarla, lasciando che il lieve vento d’autunno si portasse via i frammenti rimasti.

- Mi piacciono le foglie autunnali – diceva Kurt – Sparse così per la casa danno un che di originale all’ambiente.

Fece lo stesso anche quel giorno: ne raccolse una marrone già sul punto di sbriciolarsi che era stata trasportata, incredibilmente, dal vento sul pianoforte in legno d’ebano e uscì dalla porta-finestra già aperta, contornata dalle leggere tende smosse da un venticello lieve, cercando di appoggiarsi il meno possibile al braccio di sua figlia.

- Forse sto iniziando a ricordare cosa ho sognato – mormorò Kurt mentre camminavano per l’ampio giardino, in quel momento ingiallito per la stagione, che circondava la villetta.

- Sì? – gli rispose Rose Elizabeth – Vuoi raccontarmelo?

- Non vorrei annoiarti con le mie logorroiche nostalgie senili.

- Mi piace stare ad ascoltarti e poi ti farebbe bene parlare un po’, sfogarti – lo rassicurò la donna guadagnandosi uno sguardo grato.

Era una bella giornata quella.

- Ho sognato tuo padre – iniziò Kurt e sua figlia già lo aveva capito – Era esattamente come l’ultima volta che l’ho visto solo che il “modo” in cui l’ho visto era diverso, come se avessi recuperato un ricordo dalla mia memoria.

- E quale?

- Devo ancora arrivarci a quello. Un po’ per volta passo in rassegna tutto, la mia vita e altro e preferisco lasciare il meglio per ultimo.

- Papà! – esclamò Rose Elizabeth, fingendosi scandalizzata – Guarda che potrei pensare male.

- Puoi pensare tutto quello che vuoi, ma sbaglieresti ogni volta – replicò lui, ridacchiando.

- Illuminami, allora.

- No, quella è una cosa solo mia e di tuo padre. Non prenderla a male; con te ho altri ricordi da condividere.

- Sono qui – mormorò la figlia, stringendogli il braccio – Ti ascolto.

Sembrava non esserci alcuna fretta, lei sentiva di avere a disposizione tutto il tempo di questo mondo; al contrario, lui sentiva il bisogno di chiudere al più presto quel cerchio rimasto troppo a lungo aperto. Quando si arriva ad un’età di tutto rispetto come gli ottantatre, il tempo è la cosa più preziosa che rimane assieme alla lucidità e, in quanto tale, non ne va sprecata nemmeno la più infinitesimale porzione. Potevano parlare tranquillamente seduti sulla panchina o anche sul muretto del cancello ma Kurt non ce la faceva, sentiva il bisogno impellente di muoversi, di camminare, di mantenere il sangue in circolo.

- Ricordi quanti riconoscimenti e premi ho ricevuto? – domandò.

- Quando ero più piccola mi divertivo a tenerne il conto, poi però mi sono stancata e ho smesso.

- Diciotto, con quasi trenta candidature che, per me, equivalgono già a riconoscimenti.

- E questo cosa centra? Mi hai sempre detto che, per te, queste cose avevano valore puramente secondario.

- Sì e continuo a pensarla in questo modo.

 

Quando gli arrivò quella telefonata cascò letteralmente dalle nuvole. Sì, sapeva che il suo nome era stato proposto assieme ad altri nella categoria “Miglior autore emergente” per un prestigioso premio ma venire informato che il suo primo spettacolo aveva colpito positivamente gli esperti tanto da farlo arrivare tra i finalisti era una cosa inaspettata. Alla fine non vinse lui, ma fu ugualmente una grande soddisfazione; la prima.

Invece di dormire sugli allori, di godersi quella “mezza vittoria” come avevano fatto i suoi “colleghi candidati”, si rimboccò le maniche e si rimise a studiare. “Nel nostro lavoro non si finisce mai di imparare e non si è mai abbastanza preparati da insegnare agli altri” diceva sempre la sua insegnate di recitazione. Decise di iscriversi anche a un corso di regia e ad uno di scrittura di creativa. La sera poi ordinava e correggeva le bozze per gli articoli di Vogue.com da inviare per e-mail alla sede centrale quando i corsi lo tenevano occupato la mattina.

Blaine avrebbe voluto aiutarlo per quanto avesse potuto ma, anche per lui, quello era un periodo di grandi manovre; stava facendo un tirocinio come insegnante di musica e, contemporaneamente, stava cercando di farsi notare inviando a delle case discografiche alcuni pezzi composti da lui.

Quello fu uno dei loro periodi più difficili, nell’ambito del privato. Nel campo professionale le cose ebbero la loro impennata.

Kurt vinse un premio per il “Miglior Corto” ad un concorso per registi emergenti, stracciando inaspettatamente tutti gli altri favoriti dalla critica. Deciso a battere il ferro finché era ancora caldo, si azzardò a proporre ad uno dei registi che facevano parte della giuria una sceneggiatura da lui scritta; si vede che quel regista era uno di quelli che avevano votato per lui, perché lo accettò senza mezzi termini, pur precisando di doversi avvalere del “diritto di anzianità ed esperienza” per gestire e, all’occorrenza, variare la sceneggiatura. Kurt accettò tutte le condizioni.

Quello fu l’inizio della sua carriera.

Ma, nello stesso periodo, era successo un altro avvenimento oscurato però dal primo: Blaine aveva trovato un produttore per il suo disco.

- Mi spieghi come puoi essere così egoista?!

- Io sarei egoista? Guarda che ho lavorato quanto te per emergere!

Per alcune notti, Kurt dormì nel suo studio mentre Blaine sul divano in salotto; avevano deciso, fin tanto che avevano litigato, di evitare il letto matrimoniale perché dormirci avrebbe implicato lo stare vicini e lo stare vicini comprendeva vari fattori, come: sentire l’uno la presenza dell’altro, l’odore reciproco; magari uno dei due (in genere Blaine) avrebbe provato ad avvicinarsi al compagno e l’altro (di solito Kurt) avrebbe mostrato un po’ di freddezza per poi cedere dopo qualche minuto e la pace sarebbe stata suggellata da una notte di sospiri.

Ma nessuno aveva voglia di fare pace.

Avrebbero aspettato un po’, poi avrebbero parlato e, dopo qualche giorno, sarebbero tornati entrambi nella loro comune camera da letto.

 

- E’ per questo che litigavate? – si informò Rose Elizabeth; quei litigi erano talmente brevi che li ricordava in maniera molto superficiale.

- E quale coppia a questo mondo non litiga? – rispose suo padre con un’alzata di spalle – Se così non fosse, la vita sentimentale sarebbe di una tale noia. Non dirmi che tu e Aaron non litigate.

Sentendo chiamata in causa la sua vita matrimoniale, la donna atteggiò le labbra in una piccola smorfia, facendo sorridere Kurt, a labbra serrate per evitare che la dentiera gli ballasse.

- E’ che – mormorò Rose Elizabeth con finto sforzo – alle volte sa essere così insopportabile.

- Anche tu sai essere insopportabile – la riprese bonariamente Kurt – Fidati, hai preso da me.

Ridendo, Rose Elizabeth affondò il viso, delicatamente, nella spalla di suo padre dandogli poi un bacio sulla guancia rugosa, che della vecchia, bianca e liscia pienezza lasciava solo un tenue e lontano ricordo.

Su consiglio della donna, si decise di ritornare in casa, per far mangiare qualcosa a Kurt.

- Non me la sento di mangiare – brontolò l’uomo.

- Ti devi sforzare. Almeno un po’ di latte devi prenderlo.

Senza ascoltare le lamentele di suo padre, Rose Elizabeth lo fece sedere su un divano in salotto e andò a riscaldargli una tazza di latte e a preparargli anche una spremuta d’arancio. Quando ritornò in salotto, portando il tutto su un vassoio, lo ritrovò seduto nello stesso atteggiamento col quale l’aveva lasciato: il viso voltato verso la porta-finestra e la foglia secca ancora in mano; aveva perso qualche frammento mentre erano fuori, ma era ancora integra. Con non poche difficoltà, riuscì a fargli bere tutto il succo d’arancia e a fargli ingoiare qualche cucchiaio di latte prima che lui scostaste la testa con un espressione insofferente.

- Non rimpiango nulla – riprese come se non avesse mai interrotto il suo discorso – Puoi vivere di rimpianti solo quando sai di aver sprecato inutilmente la tua vita e questo non è un caso che mi riguarda: tutto quello che potevo fare l’ho fatto e se qualche traguardo che mi ero prefisso non sono riuscito a raggiungerlo, in compenso ne ho superati altri che non avrei mai nemmeno considerato. Quei trofei, quelle targhe, quei riconoscimenti non sono che degli inutili pezzi di metallo di poco valore in confronto alla soddisfazione che ho provato nel fare quello per cui li ho ricevuti. Per tuo padre è stato lo stesso, solo che lui riusciva a brillare solo quando era lontano da me. Non è stato facile; ci sono stati dei momenti, soprattutto quando eravamo più giovani, in cui abbiamo sofferto tantissimo, proprio perché non riuscivamo a parlare, ogni volta che ci ritrovavamo l’uno di fronte all’altro avevamo paura di distruggere quel poco che ancora avevamo con una parola sbagliata o fraintesa. Ma, alla fine, ci ritrovavamo sempre, nonostante ci fossimo fatti male a vicenda, nonostante avessimo pensato più volte che dovevamo voltare pagina, eravamo sempre lì, uno di fronte all’altro. Per quanto avessi incontrato altre persone, belle, interessanti, eccetera, non erano lui, non erano Blaine, e anche per lui era così: un paio d’occhi neri li vedeva verde-azzurri, una pelle abbronzata per lui era bianchissima, qualunque nome gli venisse detto era soppiantato sempre dal mio: Kurt. Ci amavamo. Io ero il suo mondo e lui era il mio tutto. Solo la morte ha potuto dividerci… e, per me, l’ha fatto anche troppo presto – mentre parlava il suo volto non ebbe alcun cedimento; Rose Elizabeth sapeva che non avrebbe versato una sola lacrima: quelle per papà Blaine le aveva consumate tutte alla sua morte – Rifarei una vita con lui, come questa appena trascorsa, altre mille e mille volte. Ne varrebbe la pena.

Lasciò ricadere la testa sulla morbida fodera della poltrona con un sospiro pesante, tanto che la figlia fu tentata di chiedergli se volesse rimettersi a letto ma Kurt non le diede il tempo per farlo perché, proprio in quel momento, i suoi occhi incontrarono una foto in bella mostra sul caminetto: era una di quelle foto della sua gioventù, con i suoi amici del liceo. Ma il suo sguardo si soffermò su una sola delle figure lì rappresentate. Con un gesto della mano, chiese a Rose Elizabeth di prendergliela e di portargliela e quando la ebbe tra le mani, i suoi occhi, prima asciutti, si inumidirono e una lacrima si infranse sul vetro che ricopriva quella foto.

- Ci pensi ancora? – si informò la donna con delicatezza, accarezzandogli la spalla tremante.

- Non ho mai smesso un solo istante – la voce di Kurt uscì incrinata ed arrochita.

- Non avresti potuto fare niente. Nessuno avrebbe potuto.

- Potevo starle più vicino. Non l’avrei lasciata sola. Era mia amica… le volevo bene.

 

Nonostante l’ora tarda, le strade erano illuminate come dovevano esserle quelle di una grande città e il traffico, fortunatamente, era al minimo. Ma Finn non poteva guidare più veloce; se la polizia stradale li avesse fermati sarebbe stato peggio. Avrebbero rischiato di non fare in tempo.

- Porca puttana! – esclamò, frenando rumorosamente davanti ad un semaforo rosso, dando un pugno al volante.

- Che ti fermi a fare?! – gli urlò Kurt sporgendosi dal sedile posteriore – Non c’è nessuno per strada.

- C’è un poliziotto in moto lì – replicò Finn arrabbiato, indicando con la mano una figura sotto il semaforo che sembrava tenerli d’occhio, pronto a multarli.

- E’ verde. Vai Finn! – lo spronò Blaine, seduto accanto al guidatore, che batteva rumorosamente l’unghia dell’indice contro il finestrino.

Quello e il trillo del cellulare di Rachel, seduta dietro con Kurt, furono gli unici suoni che si sentirono all’interno mentre l’auto rombava nella notte di Los Angeles diretta al S. Andrew’s Hospital.

- Tina, Sam e Mike sono già lì – disse Rachel, la voce poco più di un sussurro leggendo un SMS appena arrivatole – Si sono sentiti con gli altri: anche Quinn e Puck li stanno raggiungendo. Artie, purtroppo, sta facendo uno stage in Europa e non è in grado di muoversi e Santana e Brittany non sono riuscite a trovare voli disponibili.

- Non faranno in tempo – sussurrò Finn, stringendo il volante fino a farsi sbiancare le dita.

- Ti prego Finn, fa presto – mormorò Kurt di rimando, guardando tutti i grandi edifici che scorrevano, poco illuminati, attraverso il finestrino.

Dopo alcuni minuti che, a causa dell’ansia dei quattro, ebbero la portata di ore piene, superarono l’enorme insegna bianca, luminosa, sormontata da una croce rossa, del S. Andre’s Hospital; ma anche lì girarono ancora alla ricerca di un posto libero nel parcheggio. Stufi di aspettare oltre, Finn fece scendere Rachel e i due uomini all’ingresso dell’alto edificio.

- Iniziate ad andare – disse – Io vedo di trovare un posto libero.

I tre non persero tempo e, appena scesi dall’auto, entrarono di corsa nell’ospedale fermandosi davanti all’infermiera di turno al bancone, facendo un solo nome.

- Mercedes Jones.

Con calma e distacco professionale, la donna diede loro reparto e numero di stanza.

Quando lo raggiunsero furono investiti dall’orribile “puzza d’ospedale” che si respirava nell’aria: un misto di disinfettante, detersivo per pavimenti, malattia e vecchiaia che ti prendeva allo stomaco e te lo rivoltava. Nel corridoio, fuori la stanza, c’erano Tina in piedi davanti alla porta che, appena li vide, corse loro incontro, Mike seduto su una delle sedie nere poste in fila contro la parete, che si torturava il pollice con i denti, e Sam abbandonato su un’altra sedia, il viso affilato e stanco, gli occhi arrossati e infossati, tremante.

Kurt sentì a malapena le risposte di Tina agli interrogativi di Rachel e Blaine. Gli arrivarono come un sussurro lontano: “Hanno dovuto operarla” “Un riversamento interno dopo l’operazione”. Poteva anche essere crudele, ma gli importava poco di sapere cosa stava succedendo; voleva solo aprire la porta chiusa di quella stanza e stringerle la mano, farle sapere che era lì, con lei, assieme agli altri, dirle “Perdonami per non esserti stato accanto”.

Quando la porta, finalmente, si aprì non attesero nemmeno il permesso del medico; Sam sembrò ritrovare in un attimo le forze e si gettò nella stanza come un fulmine, sorpassando persino Kurt. Lì c’erano già i signori Jones, i genitori di Mercedes, completamente distrutti. In genere non si permetteva mai l’accesso a così tante persone in una stanza d’ospedale se non in caso di…

- Abbiamo fatto il possibile.

Sempre quella maledettissima frase di routine ripetuta in quei casi “per non peccare di indelicatezza”. Dio, quanto la odiava Kurt! Ricordava che dissero la stessa cosa quando sua madre…

L’unico suono presente lì, a parte il singhiozzo a malapena trattenuto della signora Jones, proveniva dal macchinario che mostrava le condizioni del battito cardiaco di Mercedes.

- O mio Dio – si sentì qualcuno sussurrare.

Quella sdraiata sul letto non sembrava nemmeno Mercedes. L’avevano già vista un po’ dimagrita nei primi tempi della sua malattia ma adesso versava in uno stato di deperimento spaventoso: i capelli tagliati erano unti e impregnati di sudore, le labbra erano secche e screpolate, quasi bianche e, sotto il camice bianco, si potevano intravedere delle macchie giallastre sul petto, l’intera muscolatura sembrava appassita, flaccida, abbandonata a peso morto sulle ossa.

Avrebbero voluto dire qualcosa per coprire quell’unico monotono rumore dei macchinari ma nessuno sapeva che dire; come se avesse voluto precederli, Mercedes aprì gli occhi facendo rabbrividire tutti i presenti. Senza muovere la testa, guardò quelli che circondavano il suo letto con sguardo vuoto e assente.

- Non ci riconosce – gemé la signora Jones.

Gli occhi di Mercedes fecero un altro giro circolare, poi puntarono verso l’alto e si chiusero, come se nulla fosse, così rapidamente che nessuno capì. Solo il rumore dei macchinari che divenne continuo e fastidioso fece capire loro che era finita.

Era successo tutto troppo in fretta come quello che ne seguì: la signora Jones che affondava il viso sul cuscino della figlia, il signor Jones che andava verso la finestra respirando affannosamente, Sam che si lasciava scappare un grido isterico, Tina che scoppiava in lacrime tra le braccia di Mike, Rachel che si aggrappava alla sbarra del letto coprendo i singhiozzi con la mano. Kurt sentì le mani di Blaine arpionargli dolorosamente le spalle per impedirgli di cadere. Non riusciva a piangere.

“No, non puoi andartene. Non adesso; non così; non tu. Finn sta ancora cercando un posto per parcheggiare e Quinn e Puck stanno arrivando. Siamo venuti qui per te, per vederti guarire. Per vederti scendere da questo letto da sola, mangiare, rimetterti in forze, ritornare quella di un tempo. Abbiamo così tante cose di cui parlare; potresti raccontare di quanti infermieri ti hanno fatto il filo. Sarà come ai vecchi tempi quando io, te e Rachel facevamo i nostri pigiama party settimanali. E poi voglio raccontarti di Rose Elizabeth. Vedessi come sta crescendo. E poi c’è Sam; è venuto apposta per te, magari potreste ricominciare da capo. Avanti. Vedi quante cose ci sono ancora qui, tutto quello che volevi fare è qui che ti aspetta. Noi siamo qui. Su, svegliati. Mercedes. Amica mia.”

 

- Lei rimarrà sempre uno dei miei rimpianti più grandi – continuò Kurt; le lacrime erano terminate lasciandosi dietro delle umide scie sulle guance consumate dal tempo – Lei è stata la mia prima vera amica, la prima alla quale ho confessato apertamente di essere gay e la prima a dirmi che non dovevo vergognarmi di ciò che ero. E non le sono rimasto accanto quando aveva bisogno di me. Al mio posto lei non l’avrebbe mai fatto.

- Anche lei ti voleva tanto bene – disse Rose Elizabeth prendendogli una mano, lasciandosi sfuggire una lacrima.

- Quindi? – chiese Kurt non capendo dove volesse andare a parare.

- Sono sicura che ti perdonò nel momento esatto in cui seppe che stavi andando da lei.

Kurt lasciò ricadere di nuovo la testa sullo schienale della poltrona. Dalla foglia era caduto un altro piccolo frammento.

- La sua morte mi riaprì una ferita che credevo non avrebbe più sanguinato dalla morte di mia madre; in quel momento presi coscienza di quanto il tempo scorresse in fretta. Fu da allora che mi buttai a capofitto nella mia carriera facendo tutto quello che era nei miei piani, col timore di dover presentare il conto alla vita troppo presto. E ad ogni vita che terminava, un po’ avanzavo e un po’ mi abbattevo. La prima rimase mia madre, poi Mercedes, poi mio padre che mi fece sanguinare nuovamente; e poi tutti gli altri, uno dopo l’altro. Solo quando morì tuo padre decisi di fermarmi anche perché, ormai, avevo fatto tutto quello che umanamente potevo fare, avevo logorato le mie forze per riuscire a realizzarmi. Avrei almeno voluto avere la gioia di trascorrere tutta la vecchiaia con Blaine e non solo una piccola parte. Un’ultima cosa mi è rimasta impressa riguardo allo scorrere del tempo; è stato un paio d’anni fa, se non sbaglio, durante uno dei miei ultimi ricoveri in ospedale. Sai benissimo che non ce la faccio a rimanere bloccato in un letto e, quindi, approfittavo di ogni buona occasione per “passeggiare” per i vari reparti; non nascondo che mi consolava vedere persone che stavano peggio di me. Durante una di queste mie escursioni mi capitò di trovarmi in uno di quei reparti designati ai malati terminali; giravo in mezzo a due file di letti buttando ogni tanto un occhio sulle cartelle cliniche poste sulle ringhiere dove erano segnati i nomi dei pazienti e mi capitò di leggere un nome che attirò la mia attenzione, un nome che non sentivo da anni: Sebastian Smythe. Lo avevo da tempo relegato tra i ricordi meno importanti e pensai che si trattasse di un caso di omonimia ma volli ugualmente guardarlo meglio. Non pensai nemmeno che fosse lui in un primo momento: era magro fino all’inverosimile, senza nemmeno un capello, uno scheletro con ancora la pelle a ricoprirlo e tanti di quei tubi che gli entravano nelle braccia e nel petto che non pensavo fosse possibile, ma ebbi subito la certezza che era lui. Quella strafottenza, quella bocca ghignante nonostante fosse quasi smorta, quell’atteggiamento di superiorità che riusciva ancora ad emanare non potevano che appartenere al Sebastian Smythe che avevo conosciuto in gioventù. “Sebastian Smythe?” lo chiamai piano per avere un ulteriore conferma e non pensai che, sicuramente, non mi avrebbe riconosciuto. Infatti, quando mi fissò, con degli occhi sbiaditi e velati, non ebbe alcun reazione; forse mi scambiò per una delle sue mille conquiste del passato. “No” mi rispose “Sebastian Smythe è morto”. Di tutta quella vitalità non era rimasta che un’ombra e la bellezza era scomparsa… sebbene io non l’abbia mai trovato bello. Nella vecchiaia rimane ciò che veramente appartiene ad una persona e la bellezza non rientra mai in questa categoria. Tutto è solo una futilità.

 

* * *

 

Poco prima dell’ora di pranzo, Kurt ebbe una delle sue crisi e Rose Elizabeth dovette fargli un’iniezione; avrebbe voluto riportarlo a letto ma si sarebbe affaticato troppo nel salire le scale. Quindi portò giù un cuscino e una coperta che sistemò sul divano per farlo stendere; poi, quando sarebbero arrivati Aaron e i ragazzi, si sarebbe fatta aiutare a riportarlo in camera sua.

- Povera figlia mia – fece Kurt mentre Rose Elizabeth gli dava da mangiare un po’ di minestra di verdure – Quanti fastidi ti sto dando.

- Più o meno gli stessi che ho dato io a te e a papà Blaine – replicò la donna ridendo – Possiamo dire di essere pari – notò con piacere che anche suo padre si era messo a ridere, infischiandosene della dentiera – Visto che oggi sei in vena di nostalgie, dimmi: qual è il tuo ricordo più bello? Aspetta, fami indovinare: il tuo primo bacio. Anzi, no! La tua prima volta.

- Sbagliato, sbagliato – rispose Kurt scuotendo la testa divertito – Dovresti saperlo anche tu che queste risposte sono più adatte a ragazzine smielate.

- Allora, dimmelo tu. Qual è il tuo ricordo più bello? – ripeté lei.

- Te l’ho detto: dovresti saperlo – le disse suo padre facendole l’occhiolino.

 

Sia Kurt che Blaine avevano una certa idea di cosa fosse l’ansia; dimenticare quella che precedeva un esame o un colloquio di lavoro era praticamente impossibile e sgradevole solo a ricordarla. Quella che provavano in quel momento, però, era diversa: era al 60% ansia e al 40% gioia, incredibile ma vero. Se poi Kurt poteva essere felice in una corsia d’ospedale, allora doveva essere per forza un’occasione fuori dal comune… ma sicuramente una delle più belle in assoluto.

L’attesa rimaneva ugualmente esasperante. E Jake non attenuava certo lo stato in cui versavano con le sue domande.

- Ma, non ho capito, se uno di voi due è il padre, visto che il materiale ce l’avete messo voi ma Marley è mia moglie, io cosa sarò per questo bambino? Una specie di zio?

- Abbi un po’ di pazienza, Jake – gli rispose Blaine – Quando avremo la testa più libera di pensare tranquillamente te lo faremo sapere – per capire fino a che punto era arrivato il suo stato d’ansia bastava vedere i suoi capelli: alcune ore prima erano completamente immobilizzati nel solito ammasso di gel; adesso invece erano sparati in ogni direzione possibile viste le volte in cui l’uomo vi aveva passato le dita.

E Jake smise di fare domande, con l’intenzione di ritornare quanto prima sull’argomento. Conservava in maniera troppo nitida il ricordo dell’assenza di suo padre. Certo, quel bambino ne avrebbe avuti ben due ma se c’era anche una minima affinità, anche se acquisita, Jake sarebbe stato presente qualora ci fosse stato bisogno di lui.

Kurt era stato troppo impegnato a consumarsi le unghie in mezzo ai denti per rispondere. Il suo pensiero costante era: a chi somiglierà? Fosse dipeso da lui avrebbe voluto che assomigliasse sia a lui che a Blaine ma sapeva benissimo che non era possibile; avevano preferito fare come fecero anni fa i padri di Rachel e quindi la somiglianza sarebbe stata una sorpresa pari al sesso del bambino.

Se solo pensava alla “guerra” che c’era stata tra Mercedes e Rachel per decidere chi delle due fosse più adatta a fare da madre surrogata ancora rideva e un po’ rabbrividiva; se ne erano dette di tutti i colori e guai se solo o lui o Blaine osava dire la propria.

“Queste sono decisioni che prende la ‘madre’ del bambino” rispondevano.

Brittany poi aveva cercato di corromperli proponendo loro uno scambio: lei avrebbe partorito il loro figlio e in cambio, o Kurt o Blaine, a scelta, avrebbe “partorito” il figlio suo e di Santana.

Avevano pensato, in un primo momento, di ricorrere ad una volontaria anonima ma su consiglio di Carole, che li aveva messi in guardia sui possibili rischi, burocratici e soprattutto sanitari, che avrebbero corso affidandosi ad una sconosciuta, decisero di rivolgersi a qualcuna che conoscevano e che avrebbe evitato sicuri litigi. Marley Rose fu la scelta migliore che potessero fare, sotto tutti i punti di vista; non solo era una donna sulla quale si poteva contare ma era anche una bravissima persona.

I nove mesi sembrarono non passare mai ma, alla fine era successo.

- Credo che sia il momento – aveva detto Marley; poi la corsa in ospedale e l’attesa.

Nessuno di loro se l’era sentita di assistere al parto; con Marley c’era sua madre che, per smorzare la tensione, aveva fatto una battuta sulla cosiddetta “virilità maschile” quando gli uomini erano i primi a darsela a gambe in queste occasioni.

Quando, alla fine, la doppia porta della sala parto si spalancò e il medico disse loro che era andato tutto bene, tenendosi per mano, sorreggendosi a vicenda, i cuori che battevano freneticamente, più che camminando trascinando i piedi, seguiti da un emozionatissimo Jake, Kurt e Blaine entrarono. Marley era stesa pesantemente sul lettino, affaticata ma con un sorriso radioso in volto; in quel momento sembrava la persona più felice del mondo.

Un’infermiera le aveva messo in braccio una copertina scura ravvolta che sua madre guardava commossa, mentre lei spalancava gli occhi e la bocca senza riuscire a dire nulla. Quando si accorse dell’arrivo dei due uomini li invitò ad avvicinarsi.

- Credo che qualcuno qui voglia conoscervi – disse loro indicando il fagottino.

Jake superò i due uomini per chinarsi sulla moglie e baciarla per poi guardare a sua volta quella cosina tanto bella e preziosa da lasciare, chiunque la vedesse, con gli occhi luccicanti. Per un attimo Kurt e Blaine si sentirono fuori posto, come se si fossero immischiati in un quadretto famigliare che non aveva nulla a che fare con loro ma quando quel gruppetto si infranse per lasciare spazio a loro, si risvegliarono: erano loro due che avevano voluto tutto quello. Erano diventati genitori.

Si avvicinarono timidamente ma, al tempo stesso, ansiosi e Blaine, il più audace tra i due, prese tra le braccia quel fagotto che Marley porgeva loro. Dalle pieghe di quella copertina spuntava una testolina rotonda, piccola quanto un pugno, una lieve ciocca di capelli appiccicata al cranio ricoperto da alcune tracce rossastre e bianche. Scostando un’altra piega, scoprì due occhi chiusi, un nasino piccolissimo e una boccuccia imbronciata. Non riuscì a trattenere un singhiozzo; non avevo mai visto niente di più bello.

Incoraggiato da suo marito, Kurt allungò il collo per poter vedere meglio, ma Blaine gli venne incontro.

- Prendila in braccio – gli disse porgendogliela delicatamente, con una lacrima che gli scivolava sull’angolo della bocca sorridente.

Un po’ spaventato, timoroso che quella creatura potesse infrangersi come vetro, la prese cercando di impedire alle sue braccia di tremare. Non era per niente pesante… ma sentì ugualmente le gambe vacillargli per lo sforzo.

Ebbe un sussulto quando la testolina si mosse e dalla bocca uscì un suono impercettibile, ma che doveva essere forte per quell’esserino, e gli occhi si spalancarono infastiditi; attraverso il velo di stanchezza che li copriva, si potevano scorgere due pupille azzurre.

- Ciao – riuscì a sussurrare Kurt a quella nuova vita che lo aveva guardato per la prima volta.

 

E in quel momento lo guardava ancora. Gli occhi erano un po’ invecchiati e venati di rosso per le notti passate in bianco ma erano sempre azzurri.

- Il mio ricordo più bello – terminò Kurt, passando una mano tra i riccioli neri di sua figlia.

Mentre lo faceva, la foglia che teneva ancora in mano perse un altro frammento.

 

* * *

 

Nel primo pomeriggio arrivarono Aaron Brandon-Karofsky, il marito di Rose Elizabeth, con i loro due figli, Mary e Scott. Aaron era la copia spiccicata di suo padre Dave, mentre i ragazzi erano cresciuti veramente in fretta: Mary, la più grande era una ragazza esuberante e fuori dal comune, con la mania di farsi i vestiti da sola; Scott, invece, era un tipo più riflessivo e taciturno, tanto che per farlo parlare bisognava trascinarlo di peso nel discorso ma, se era qualcosa che gli interessava, era capace di parlarne per ore intere.

Il loro arrivo fu una vera boccata d’aria fresca per Rose Elizabeth ma molto di più per Kurt.

- Nonno, cosa ne pensi di questo? – chiese Mary con molta serietà, facendo una giravolta davanti a Kurt per mostrargli il vestito che indossava, fatto da lei, naturalmente: un body marroncino con sopra una maglietta di lana più chiara che le scivolava sulle spalle e le scendeva fino alle cosce, fasciate da un pantalone nero aderente, e stretta in vita da una grande cintura e decorata da un pon-pon a forma di “fiore” sempre di stoffa sul fianco e stivaletti da cavallerizza.

Kurt la esaminò attentamente per un paio di minuti, un dito sulle labbra a mo’ di riflessione.

- Togli quell’affare dal fianco e applicalo sulla spalla – rispose alla fine, indicando il pon-pon.

Come se non avesse aspettato altro, la ragazza prese il fiore e, con un gesto secco e deciso, lo strappò e lo appoggiò sulla spalla fasciata dal body per vedere l’effetto che faceva.

- Kurt, ti prego, non incentivarla – fece Aaron con voce dolente – Ha trasformato casa nostra in una sartoria; è un po’ imbarazzante invitare amici e colleghi di lavoro in una casa tappezzata da modelli e pezzi di stoffa cuciti a metà.

- Dalle ancora qualche anno da spendere in studi – rispose Kurt – Se per allora non sarà arrivata a capo di qualcosa di concreto potrai avvalerti del tuo “diritto di genitore”. Solo, non sottovalutarla. E tu – continuò, rivolgendosi al nipote, in piedi e in silenzio come un manichino – che cosa mi racconti?

- Ho iniziato a scrivere un…

- Parla più forte. Le mie vecchie orecchie non riescono a sentirti – lo interruppe con forza.

- Ho iniziato a scrivere un nuovo racconto – ripeté Scott, con lo stesso tono usato dal nonno.

- Di cosa parla?

- Di tante cose.

- Molto bene – fece Kurt, abbandonando il tono imperioso per uno più rilassato – Allora continualo.

- Quando l’avrò terminato te lo farò leggere – disse il ragazzo ritornando a mormorare, la voce simile allo squittio di un topolino.

- Non preoccuparti della mia opinione – replicò Kurt, cercando di non lasciarsi intenerire – Cerca di capirlo da solo se è scritto bene o no.

E Scott si limitò ad assentire.

In quel momento, Rose Elizabeth capì che anche Scott era simile a papà Kurt tanto quanto Mary.

Il resto della giornata fu piacevole e spensierato e Kurt sembrò stare meglio, non ebbe altri attacchi o malori e lasciò da parte i ricordi. Ma sapevano entrambi, padre e figlia, che restava ancora una parte della storia di Kurt Hummel da rispolverare, quella che riguardava solo lui. Il momento arrivò a sera inoltrata.

Avrebbero dormito lì anche gli altri componenti della famiglia Brandon-Karofsky-Hummel-Anderson (Kurt compativa quei due “poveri figlioli” di Mary e Scott per la sorte scalognata che avevano avuto nel nascere in una famiglia “dai tanti cognomi”); c’erano due stanze per gli ospiti che da anni erano rispettivamente di Rose Elizabeth e Aaron e dei loro figli. Potendo avvalersi del marito, la donna lo pregò di portare in braccio Kurt di sopra, in camera sua, lei avrebbe portato la coperta che lo aveva riparato fino a quel momento.

Mentre lo portava su per le scale, Aaron si rese conto di quanto si fosse fatto leggero suo suocero. Leggero come la foglia secca mutilata che portava in mano come una reliquia.

Mentre Aaron si dirigeva verso la stanza di Kurt, quest’ultimo si smosse leggermente tra le sue braccia.

- No – disse – Stanotte non voglio dormire qui. Portatemi di sopra.

- Di sopra? – chiese sua figlia, stupita, mentre Aaron guardava l’uno e l’altra senza sapere che fare.

- In mansarda.

- Ma papà non puoi dormire lì – esclamò Rose Elizabeth, sconvolta – E’ pieno di polvere e farà sicuramente freddo.

- La coperta mi basterà per non sentire freddo. Quanto alla polvere, i miei polmoni sono già deteriorati; non ne risentirò. Per favore, fate come vi ho chiesto – concluse in un tono tale che i due non se la sentirono di negargli quella richiesta. Non avrebbero nemmeno potuto addurre come scusa un capriccio senile; Kurt sembrava anche troppo lucido.

Salendo una seconda rampa di scale raggiunsero la mansarda, una stanzetta bassa, sotto il tetto, illuminata solo dalla tenue luce della luna che batteva contro il vetro dell’unica finestra rotonda, al centro della parte; per tutta la stanza erano disseminati bauli, scatole di cartone sigillate, varie altre cose coperte da lenzuola vecchie per difenderle dalla polvere. Al centro, presso la finestra, c’era un cerchio di cuscini e coperte simile ad un nido ingrigito dalla polvere.

Kurt indicò una poltrona, anche quella coperta da un lenzuolo che Rose Elizabeth, stringendo la coperta tra le gambe per avere le mani libere, sollevò assieme alla polvere che lo ricopriva. Vedendo quella poltrona vecchia e dalla fodera consumata e sporca, guardò il padre pregandolo di ripensarci e di ritornare in camera, ma quello chiese ad Aaron di farlo sedere lì. Rassegnata, la donna appoggiò la coperta sulla poltrona per evitare che Kurt si sporcasse e che la polvere rimasta gli desse meno fastidio. Poi, da basso gli portò un plaid e un cuscino per farlo stare caldo e comodo.

- Sei sicuro, papà? – tentò un’ultima volta.

- Sicurissimo, non preoccuparti.

- Vuoi che resti qui con te?

- Non è il caso. Va’ a dormire. Hai già fatto abbastanza.

- Ma se avessi bisogno di qualcosa? – reagì Rose Elizabeth, colpita da quell’ultima frase – Se ti sentissi male?

- Ti ho detto di non preoccuparti – disse Kurt, dolcemente, prendendole la mano – Starò bene. Qui starò bene. Da stamattina ti ho parlato di tutti i miei ricordi tranne uno, quello che riguardava solo me e tuo padre; ebbene, qui e adesso, c’è quel ricordo, quel momento. Non preoccuparti più per me. Pensa a tuo marito e ai tuoi figli; create i vostri ricordi – posò la mano segnata da vene bluastre sulla guancia della figlia e l’accostò al suo volto per baciarla – Buonanotte.

- Buonanotte papà Kurt – rispose lei, baciandolo a sua volta sulla fronte, bagnandola con le lacrime che le scorrevano sulle guance. E, stringendo il braccio del marito, uscì dalla mansarda tenendo lo sguardo fisso su quella pallida figura raggomitolata sulla poltrona.

Ci fu un colpo secco quando la porta si richiuse e, da quel suono, Kurt pensò di veder nascere una figura di polvere che si materializzava da un angolo del suo campo visivo per gettarsi nel nido di cuscini ai suoi piedi. La figura di un preciso momento fermato in quella mansarda da quasi cinquant’anni.

- Ecco – mormorò Kurt, ricordando.

La foglia d’autunno che aveva ancora ostinatamente in mano si disfece e i suoi frammenti marroncini si persero tra la polvere e le assi del pavimento.

  

- Blaine, togliti quei calzettoni – ordinò Kurt stringendosi nel suo cardigan – Sei ridicolo.

- Ma fa freddo – si lamentò Blaine strofinando goffamente i piedi uno contro l’altro.

- Ci siamo portati una coperta proprio per questo – replicò l’altro scuotendo l’oggetto in questione che, però, li copriva a malapena in quel cerchio di cuscini che si erano costruiti.

- Almeno possiamo chiudere la finestra?

- No – gli sussurrò Kurt a pochi centimetri dalle labbra – Voglio far entrare dentro più foglie possibili; deve avere tutto un’atmosfera autunnale.

- Che razza di idee che ti vengono – Blaine affondò il viso nell’incavo del collo dell’altro; non riusciva a resistere ai piccoli approcci, lasciati in sospeso, di Kurt, e il bello era che quest’ultimo se ne rendeva perfettamente conto.

Era la loro prima notte nella casa nuova. Era un po’ malandata e aveva sicuramente bisogno di una riverniciata e di qualche riparazione se non di un restauro completo, ma era loro e soltanto loro, anche se restavano altre rate da pagare e avrebbero dovuto fare il doppio dei sacrifici che già facevano e il triplo dei turni al lavoro ma… “ne valeva la pena”. Era il loro motto.

Visto che mobili ancora non ce ne erano, e quindi neanche letti, avevano deciso di arrangiarsi con quei pochi cuscini che avevano iniziato a portarsi dal vecchio appartamento. L’ideale sarebbe stato dormire in quella che sarebbe stata la loro camera da letto ma Kurt se ne era uscito con uno dei suoi colpi di testa e aveva chiesto a Blaine di dormire in quella “romantica” mansarda; per convincerlo era bastato prenderlo per il punto giusto, e il “punto”  in questione era tra il collo e il lobo dell’orecchio: bastava solo sfiorarlo con le labbra e lui cedeva a qualunque sua richiesta.

Erano lì in quel momento, a gelare visto che il riscaldamento dovevano ancora farselo impiantare. Di dormire non se ne era proprio parlato; avevano passato le ultime ore a parlare. Parlare.

- Posso infilare le mani nel tuo cardigan? Ho messo la tuta senza tasche – chiese Blaine con una punta di malizia.

Kurt allentò le braccia che teneva incrociate sul petto e lasciò che Blaine infilasse le mani sotto il cardigan sollevandoglielo fin sopra l’ombelico; le asole di pelle che trattenevano i lunghi bottoni di corno si tesero con un rumore preoccupante.

- Attento! – esclamò Kurt, tremando per il tocco con le mani gelate dell’altro – Così mi fai saltare i bottoni.

- E allora sbottonati – disse Blaine, iniziando a strofinargli le labbra sul collo.

- E come ti coprirai le mani?

- La tua pelle e molto calda; mi basterà toccarti.

Quelle parole ebbero il potere di accendere un fuoco in entrambi.

Fissandolo con occhi scuri, Kurt staccò i bottoni conici del cardigan uno ad uno, con una lentezza esasperante.

Blaine guardò quelle dita bianche e tremanti, un po’ per il freddo e un po’ per l’eccitazione, che scoprivano ogni centimetro di pelle, dal petto allo stomaco già esposto, riscaldandole col fiato, baciandole appena erano a pochi centimetri dalle sue labbra e sfiorando con la punta della lingua ciò che mostravano sotto la stoffa pesante del cardigan. Quel corpo sapeva di casa, autunno e talco.

Mettendosi seduto, Kurt si lasciò scivolare quell’indumento dalle spalle, rimanendo scoperto e tremante davanti al suo compagno.

- E adesso io come mi riscaldo? – chiese con un leggero brivido.

- Non ti stavo già riscaldando io? – domandò di rimando Blaine, continuando ad accarezzare quelle spalle piegate in avanti, quel petto della stessa consistenza di una pesca, quel ventre piatto. E per rimarcare il concetto, riprese a baciarlo nell’incavo del collo, scendendo giù poi, per torturargli un capezzolo con i denti.

Kurt rispose a quelle attenzioni gettando la testa indietro con un gemito roco, afferrando i riccioli scuri dell’altro per non perdere l’equilibrio. Quando Blaine lasciò per un istante la presa sul capezzolo turgido, soffiandosi sopra la fredda aria della mansarda, perse completamente il controllo e gli afferrò con desiderio il sedere messo in evidenza dai pantaloni della tuta. Mentre lo faceva vide che Blaine si sfilava, freneticamente e alla cieca, quei calzettoni osceni.

- Ma non avevi freddo? – lo stuzzicò con una risatina.

- Fanculo il freddo! – esclamò Blaine senza tante cerimonie, facendolo stendere e sfilandosi con un’uguale foga la felpa che indossava per gettarsi nuovamente su Kurt e ricoprirlo di baci; non sopportava di stare un solo secondo senza toccarlo – Voglio vederti tutto – fece con la voce strozzata dall’eccitazione, afferrandogli l’orlo del pantalone e abbassarglielo assieme ai boxer per potersi concentrare sui suoi fianchi, le sue gambe, il suo sesso – Sei bellissimo.

- Voglio vederti anch’io – sussurrò Kurt, abbattuto da quell’assalto e desideroso di concedere delle uguali attenzioni al suo compagno.

Separandosi con un verso di frustrazione, Blaine si alzò sulle ginocchia calandosi a sua volta pantaloni e boxer e sdraiandosi di fianco a Kurt per sfilarseli meglio; e Kurt ne approfittò per gettarsi su di lui e prendere il controllo della situazione.

Quando le loro mani si incontrarono, le fedi d’argento che portavano agli anulari tintinnarono.

Fecero l’amore come non l’avevano mai fatto, adorandosi, venerandosi, amandosi con ogni frammento di pelle, provando piacere semplicemente toccandosi, con la bocca, la punta delle dita, i cuori che battevano velocemente uno contro l’altro, i respiri che si univano.

Dopo che lo ebbe preparato, Blaine fece per prendere un preservativo dalla scatola che avevano messo in mezzo a dei cuscini assieme ad una boccetta di lubrificante ma la mano di Kurt lo frenò.

- No. Stavolta voglio farlo senza – disse con la voce resa irriconoscibile dall’eccitazione.

- Senza?

- Sì, senza – gli si aggrappò al collo per sussurrargli all’orecchio – Voglio sentire la tua pelle contro la mia, senza nulla a separarci.

- E’ rischioso – Blaine avrebbe voluto dirlo con più serietà ma non ci riuscì; quelle parole gli avevano fatto più effetto di quanto avrebbe voluto e quasi involontariamente fece scorrere la lingua lungo la cicatrice che Kurt aveva sul collo.

- Mi piace rischiare con te – gemé Kurt tirandolo per i capelli e baciandolo con desiderio.

E si persero entrambi.

La mano di Blaine lasciò perdere il preservativo e corse alla boccetta di lubrificante; ne prese una dose generosa e se la sparse per tutta la sua lunghezza andando poi ad accarezzare di nuovo l’apertura palpitante di Kurt.

Quando gli si accostò, smisero tutti e due di baciarsi e accarezzarsi; il brivido che avevano provato mentre stavano per unirsi era stato talmente intenso che temevano di venire subito e non volevano che accadesse in quel modo: dovevano sentirsi una cosa sola.

Blaine entrò dentro Kurt con una lentezza dolorosa, l’uno stringendo le dita attorno ad uno dei cuscini, l’altro torturandosi il labbro inferiore con i denti. Era una sensazione incredibile. Sentivano ognuno il corpo dell’altro come una massa bruciante che li sovrastava e che rischiava di esplodere da un momento all’altro se non maneggiata con cura. Si lasciarono andare solo quando Blaine fu completamente dentro Kurt, arrivando a toccargli la prostata. Le loro mani ripresero a toccarsi e le loro bocche e lingue a cercarsi, muovendosi all’unisono.

Ma non riuscirono a resistere di più. Quando Blaine gli afferrò il sesso, Kurt tese la schiena in una maniera innaturale e venne con un gemito sulle dita del suo amore e sul suo stesso ventre.

Sentendolo stringersi attorno a sé, Blaine fu sul punto di seguirlo, riversandosi completamente dentro di lui ma, in un fulmineo quanto inaspettato istante di lucidità, il buonsenso prevalse sull’ebbrezza e si gettò indietro uscendo da Kurt, ancora stordito, e venendogli in mezzo alle gambe. Sfiancato da quell’esperienza così piacevole, si lasciò cadere pesantemente sul giovane uomo sotto di lui, baciandolo dolcemente e stringendosi a lui.

- Perché ti sei tirato indietro? – chiese Kurt, un rimprovero che cercava di fuoriuscire dalle sue parole.

- Perché non rischio con te – rispose Blaine, gravemente – Non voglio rischiare di farti male.

Non si accorsero neanche di essere circondati da foglie autunnali.

Passarono le ore successive semplicemente abbracciati, tra il sonno e la veglia, toccandosi in determinati punti ogni tanto; all’inizio Blaine lasciò anche scivolare un dito lungo una delle tracce di seme lasciate da Kurt sul suo stomaco e se lo portò alle labbra. Poco importavano le occhiatacce che riceveva; andava pazzo per quel sapore.

- Come posso farti felice? – gli chiese Blaine con trasporto.

- Non lasciarmi mai indietro – rispose Kurt stringendosi ancora di più a lui – Promettimi che dove andrai tu ci sarò anch’io, che non mi lascerai da solo. Promettimelo.

Blaine lo fissò con occhi rabbuiati ma non volle rattristarlo; voleva che fosse felice.

- Ti prometto che non ti lascerò mai – disse e lo baciò con maggior intensità solo per fargli dimenticare di non aver aggiunto la parola “indietro”.

 

- Bugiardo – mormorò Kurt lasciando ricadere il capo incanutito contro lo schienale della poltrona; non sentiva nemmeno l’odore di vecchio che la fodera consumata trasudava – Non hai mantenuto la promessa. Sei andato avanti, come tutti gli altri, e mi hai lasciato qui.

Quello era il momento adatto per piangere, dopo quattordici anni che non lo faceva, per lui non per gli altri; aveva pianto per gli altri, più e più volte, una volta e ancora un’altra, per loro riusciva sempre a trovare qualche lacrima in più da spendere. Con Blaine, invece, non c’era più riuscito: aveva pianto quell’unica volta, quando il suo cuore aveva smesso di battere, e tanto gli era bastata. Uno di quei pianti che ti lasciano spossato per giorni.

No, in fondo non c’era nessun pianto lasciato in sospeso. E poi, era stanco. Aveva sonno.

Chissà se i ragazzi avevano preso sonno; lui aveva sempre difficoltà ad addormentarsi quando non dormiva in casa sua, altro motivo per il quale aveva sempre detestato gli ospedali.

Dormire. Era così stanco che non aveva nemmeno la forza di sistemarsi meglio il plaid per non prendere freddo, o sollevare il braccio che pendeva in maniera scomposta oltre il bracciolo della poltrona, o raddrizzare almeno la testa. Odiava anche svegliarsi col torcicollo. Ma non ce la fece; era stanco. Si era anche dimenticato di togliersi la dentiera. E poi, dalla finestra riusciva a vedere la luna, piena, bianca.

Quando era più piccolo gli raccontavano che, fissandola con molta attenzione, sarebbe riuscito ad intravedere un volto sulla facciata della luna. Lui la guardava, per ore, fino a stancarsi gli occhi, sperando sempre di vedere il volto di sua madre e non riuscendoci mai. Quella fu la volta buona, però.

Due occhi tremolanti su quel cerchio bianco, e una bocca… che si muoveva; anche la luna si avvicinava diventando sempre più grande.

La mattina sua madre lo svegliava entrando nella cameretta con passo leggero, come se delle ali invisibili la tenessero sollevata da terra; si avvicinava al letto, scostava leggermente le coperte e…

- Svegliati, tesoro – disse sua madre passandogli una mano sulla fronte; il suo viso prima bianco come la luna, adesso era roseo e profumato. Ma non era da sola, stranamente: affianco al suo c’era anche il volto di suo padre. Eppure, lui scendeva sempre presto la mattina per aprire l’officina – Hai dormito tantissimo. E’ ora di alzarsi, adesso.

“Ma sono stanco” avrebbe voluto dire Kurt “Non ce la faccio ad alzarmi”, ma le sue gambe partirono in quarta e si piantarono saldamente a terra, spingendolo ad alzarsi.

Tutta quella luce, quel tenue calore, gli occhi di sua madre, il sorriso di suo padre. Si sentiva così forte, desideroso di correre e urlare come non faceva più da una vita. Ma non era quel bambino che aveva immaginato di essere; se ne rese conto quando una mano scura gli diede un buffetto sul naso.

Mercedes l’aveva incontrata per la prima volta al liceo e proprio così gli si era presentata.

- Scusa, non ho saputo resistere con quel nasino all’insù che hai – gli disse con un sorriso sincero.

E c’erano tutti: parenti, amici, quelli che erano venuti e che se ne erano già andati, ritrovandosi in un nuovo “primo incontro”.

- Scusa – disse Kurt, mentre si girava e si perdeva in quel carosello di immagini, aggrappandosi ad una persona per non perdere l’equilibrio – Sono nuovo qui.

- Mi chiamo Blaine – si presentò quella figura, prendendogli la mano.

- Kurt – disse l’altro, stringendogliela a sua volta.

Nessuno era più vecchio o giovane. Erano semplicemente loro e basta.

- Mi sei mancato tantissimo – disse Kurt al suo “bugiardo”.

- Tu no, invece. Perché non ti ho mai lasciato.

 

* * *

 

Un altro anno era trascorso ed era ritornato l’autunno, con le sue foglie secche che ricoprivano il suolo spargendo nell’aria un’inconfondibile odore acre e resinoso. Quell’immenso tappeto marrone sarebbe piaciuto tantissimo a papà Kurt; ci si sarebbe sdraiato sopra imitando il modello di una linea d’abiti autunno-inverno. Papà Blaine, invece, avrebbe notato come l’intera zona nel suo insieme facesse troppo “film romantico esistenzialista con finale strappalacrime”. Tipico di loro. Anche adesso che erano un tutt’uno con quel paesaggio, assieme a tanti altri.

Rose Elizabeth sistemò il vaso tra le due lapidi di modo che le due rose andassero ad accarezzarle e ad unirle con un doppio filo erboso. Su quella di sinistra c’era scritto

 

Blaine Devon Anderson-Hummel     7 Aprile 1994 – 14 Agosto 2062

 

e su quella di destra

 

Kurt Hummel-Anderson     27 Maggio 1993 – 19 Ottobre 2076

 

Niente citazioni o epigrammi o altro. Servivano a poco e comunque sarebbero stati troppo brevi per loro.

In un anno non era cambiato molto; forse lei aveva qualche capello grigio in più ma nient’altro. Niente di cui parlare dilungandosi per ore come faceva la maggior parte dei visitatori del cimitero.

- Ciao papà Kurt. Ciao papà Blaine – fece, rialzandosi e stiracchiando le gambe – Qui stiamo tutti bene. Aaron ha avuto una promozione; Mary ha fatto domanda per una casa di moda e Scott sta scrivendo una serie di racconti assieme ad una sua amica e sperano di farseli pubblicare. E voi? – lasciò che il suo sguardo corresse di nuovo alle foglie sparse per terra – Quante foglie autunnali riuscite a contare da lassù?

Una lieve folata di vento ne sollevò una che andò ad impigliarsi nel cappuccio del suo cappotto; lei la prese, la guardò un po’, la strinse nella mano e, muovendo le dita, la sbriciolò lasciando che il vento ne portasse via con sé i piccoli frammenti. Quando non li vide più, la donna tornò a fissare le due lapidi.

- Vi voglio bene – disse con un sorriso.

E, infilando le mani nelle tasche per ripararsi dal freddo, Rose Elizabeth si voltò e uscì dal cimitero; doveva incontrarsi con sua figlia per comprare delle stoffe.

 

 

Fine

 

 

 

Nota dell’autore:

Inizio col chiedere scusa per questa vagonata di angst e dramma; vi assicuro che sono stato malissimo nello scrivere le parti su Mercedes e su Sebastian; mi rendo conto solo adesso di quanto deve avermi segnato passare quasi quattro anni della mia infanzia in ospedale.

Da dove nasce questa OS? Incredibile ma vero, è venuta fuori da uno di quei giochetti con le domande che si fanno su fb (del tipo “Come vorresti far morire il tuo personaggio preferito” e roba varia) e dalla risposta che ho dato io mi è venuta fuori l’ultima parte. Poi sono andato ad elaborare il tutto ed ecco il risultato.

Ammetto (e penso che molti l’avranno notato) che la storia della carriera di Kurt sia liberamente ispirata a quella di Chris e so quanto non sia una buona cosa separare attore e personaggio ma, se penso al futuro di Kurt non riesco a pensare ad altro; sì, Broadway ma non solo quello. Lo disse anche Burt nella scorsa stagione: “Creerai tu i personaggi che potrai interpretare”. E dicasi lo stesso per il dialogo col nipote Scott (anche se l’ultima frase di Kurt riguarda un po’ di più me).

Nota importante: i vari flashback sono collocati in ordine “decrescente” (il primo è quello più recente mentre l’ultimo è il ricordo più vecchio).

Mentre scrivevo, poi, ho pensato a varie cose. Avrete notato, per chi ha già letto la mia OS “Nato da un cerotto”, in questa storia compaiono due personaggi mia invenzione: la figlia di Kurt e Blaine, Rose Elizabeth e quello che adesso è suo marito, Aaron. Ho deciso quindi di unire queste due OS e un'altra che scrissi lo scorso Natale in una serie alla quale ho intenzione di unire altre OS su altri personaggi, non solo Kurt e Blaine.

Pensavo quindi di scrivere, per il futuro (dovrei pensare a due esami universitari per dopo le feste, in questo momento XD) le storie degli altri ragazzi del Glee; ne ho già in testa tre: una su Mercedes, per approfondire meglio la storia che qui è stata accennata e terminata, e il suo rapporto con Sam (sì, perché non mi rassegno a quello che stanno combinando nel telefilm XD); una su Puck e Quinn perché loro sono Puck e Quinn (andate a rivedere la prima serie per capire); e una su Santana e Brittany che aspetta di essere scritta da quasi un anno e sarebbe pure ora che la scrivessi XD. Poi, vorrei parlare anche di Artie, Tina, Rachel, Finn, Mike, anche di Dave, Lauren, Sebastian e Sugar, quando mi verrà qualche nuova idea.

E poi, sto sempre riflettendo su una long. smut con i gemelli Hummel alle prese con la porzione maschile gay di Glee, quindi: Blaine, Sebastian, Dave, Chandler, Thad “sì farò sesso con voi però sono etero” Harwood (ormai è un canon XD); ma anche alle prese con dei gravi problemi familiari (sì, se non ci metto il dramma, non sono contento; ma almeno stavolta posso assicurarvi che non morirà nessuno). P.S. Tranquilli: niente twincest.

In conclusione, devo dire che ho amato moltissimo scrivere questa breve storia; mi ha emozionato scriverne ogni parola, mi ha fatto male ma mi ha fatto anche bene. So che il telefilm è quello ufficiale ma, se dovessi scegliere una conclusione definitiva, preferirei questo (togliendo la parte in cui muore Mercedes, ovviamente).

Che altro posso dire? Vi ringrazio per aver letto e spero che questa breve fic. vi sia piaciuta e che possiate apprezzarla almeno un pochino e perdoniate i miei “orrori” grammaticali.

Per tutti gli aggiornamenti e la mia “rubrica su Glee”.. cioè i miei commenti alle puntate di Glee (“Mi spieghi a loro cosa frega?!” “Chiudi il becco! Mi sto facendo un po’ di pubblicità”) questo è il link alla mia pagina Facebook: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

 

Approfitto di questo spazio per augurarvi un Felice Natale e un Buon Capodanno.

Ah, e non esagerate con i dolci all’Epifania ; D

 

Lusio

  
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