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Autore: habanerossosangue    18/12/2012    2 recensioni
Dal primo capitolo:
Qualcosa mi colpisce violentemente all'altezza dello stomaco, mentre i miei occhi, nascosti da ridicoli occhiali da sole [uno dei migliaia di modelli che lui mi ha comprato], scorrono velocemente sui loro volti pallidi, sconvolti, martoriati dalla paura di essere scelti [di morire]. Sono venuta per metterli in guardia da quelli che li attende, per cercare di salvargli [prolungargli] la vita. Ma le corde vocali non hanno intenzione di collaborare, la mia gola comincia a bruciare e pizzicare; l'aria non riesce a raggiungere correttamente i polmoni tanto che devo fare respiri veloci e piccoli. Come una foto, tutto si ferma favorendo l'ansia a impadronirsi completamente del mio organismo, facendomi vacillare sul mio intento di fare qualcosa di buono.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Otherverse | Avvertimenti: Violenza
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Finalmente decido di muovere le gambe.
Vado fuori l'aula dei professori [dei nuovi schiavi] e, con passo spedito, mi allontano da quel luogo diventato troppo soffocante.
Esco dall'ala B, attraverso l'androne presente all'entrata della scuola sentendo solo il rumore dei miei tacchi [della mia ennesima tortura] rimbombare per tutto il piano terra, immerso dal soprannaturale silenzio che abitualmente echeggiava nell'edificio.
Decido di prendere l'ala A: la via più diretta per arrivare alla mia destinazione.
Svolto l'angolo e comincio a salire le scale.
Niente ascensore. Non lo prendo dall'ultimo giorno in cui avevo trascorso qualche ora nel luogo in cui la preside ribadiva di chiamarla 'seconda casa'.
Conto le scale uno ad uno per cercare di distrarmi dall'ansia che comincia ad avvolgermi come una coperta.
undici scalini.
dodici scalini.
tredici scalini.
Primo piano.
venti scalini.
ventuno scalini.
ventidue scalini.
Secondo piano.
Giro immediatamente a destra per poi proseguire lungo il corridoio immerso quasi nel buio. Nemmeno le luci gli consentono di aprire, neanche se fossero anche quelle qualcosa di minaccioso contro la nuova riforma [guerra]. Non tengo a mente quante volte avevo fatto quella strada alle otto del mattino, lamentandomi delle successive cinque ore che mi aspettavano. Quanto vorrei ritornare a quei giorni.
Le guardie, poste simmetricamente ad ogni porta delle classi in questa ala dell'edificio, mi guardano con occhi sorpresi per l'improvvisa visita, ma, allo stesso tempo, impauriti di quello che potrei fargli [di quello che ancora non so cosa potrei fargli] al solo incrociare il mio sguardo. Ma lo stesso, non sarebbe accaduto niente. Credono che sia una specie di bomba ad orologeria pronta a scoppiare in qualsiasi momento. Ma non è così. Non lo sanno, ma rimangono ancora più potenti di me avendo avuto anni e anni di allenamento militare e avendo sempre attaccati alle uniformi le loro preziose armi. Potrebbero farmi quello che vogliono, se solo avessero il coraggio di fare anche solo un passo. Perchè, in realtà, hanno paura di me, per quello che gli hanno messo in testa sul mio conto [per quello che mi hanno fatto]. 
Percepisco dei passi accelerati dietro di me che rallentano appena mi raggiungono. Ero sicura che con qualche scusa mi avrebbe raggiunto. Sappiamo entrambi che lui non si fida pienamente di me [non si fida di nessuno oltre che a se stesso]. Devo essere controllata anche quando sono sotto il suo stesso naso. Con la coda dell'occhio lo vedo accanto a me molto teso. La sua postura era ancora più rigida a quella in cui mi era abituata a guardare, la mascella contratta quasi a far uscire una leggera vena lungo il profilo del volto, una mano serrata sull'arma da fuoco [una delle tante] che prontamente teneva attaccata al fianco. La cosa che silenziosamente mi faceva ridere è che io devo essere nervosa, non lui. Lui deve solamente assistere a quello che sarebbe stato l'epilogo della mia vecchia vita. Ma, forse, era già finita appena ero uscita [mi hanno trascinato] fuori dal liceo.
Con lo sguardo percorro le piccole insegne fuori dalle aule.
Aula numero 53.
Aula numero 54.
Aula numero 55.
Aula numero 56.
Aula numero 57.
Non ricordo quanto tempo era passato da quando avevo messo piede in quei pochi metri quadri che contenevano più di venti persone. Banchi e sedie disposti a file di due e tre -qualche volta persino a quattro a causa del poco spazio disponibile, incuranti delle norme di sicurezza che la scuola ci dava in caso di terremoto-. Banchi rovinati a vita da calligrafie sconosciute, di studenti a cui era stata assegnata quell'aula negli anni precedenti, calligrafie familiari che spesso vedono [vedevo] alla lavagna durante le interrogazioni di chimica o matematica. Banchi che di solito sopportano [sopportavano] in silenzio le torture che gli infliggono [infliggevo] durante le ore di lezione, disegnando e scrivendo quello che gli [mi] passano [passavano] in una mente troppo stanca, e soprattutto pigra, per sopportare delle simili costrizioni. Sedie che gli [mi] fanno [facevano] dare le spalle alle finestre oscurate che si aprivano scorrendole a destra o a sinistra, facendoci in qualche modo giocare a scacchi perchè si alternavano con un senso logico tutto loro. Quattro luride mura, piene di nomi, disegni, date, dichiarazioni d'amore e con frasi rozze dirette a qualche povera vittima ignota; con la pittura bianca consumata, l'umidità della città che le trapassava con facilità come fossero fatte di carta pesta; con le prese e gli interruttori della luce staccati dalla loro collocazione facendo lamentare ogni volta gli insegnanti del pericolo che si poteva correre. Mura che li [mi] dividono [dividevano] dalle altre classi ridotte ancora peggio di quella in cui devono [dovevo] passare tutto l'anno scolastico. Mura che per qualche ora [mi] separa [separava] quei ragazzi dal mondo [dalla distruzione] che sta opprimendo tutti noi.
Dico freddamente al militare posto difronte la porta di prendersi un pausa di almeno una mezz'ora. Senza dire una parola mi volta le spalle e lo seguo con lo sguardo fino a che non scompare dalla mia vista quando prende l'ala B. Incrocio per una frazione di secondo lo sguardo con il soldato accanto a me e per altrettanto tempo la mia mente gioca brutti scherzi su ricordi offuscati dei giorni in cui ero rinchiusa nella stanza d'ospedale [cella per nevrotici]. Mentre trattengo un profondo respiro apro la porta ed entro.
Era tutto come mi ricordavo [come la mia mente si sta sforzando di ricordare]: stesse mura e banchi rovinati, stesse finestre in cui facevano entrare l'acqua ogni volta che pioveva troppo forte, la stessa lavagna che rischiava di cadere a terra e la cattedra che accoglieva i professori che non sopportano [sopportavo] o che tollerano [tolleravo]. Ma qualcosa è cambiato. Qualcosa che forse era la prima caratteristica i miei compagni. La prima cosa in cui speravo che non gli avrebbero tolto proprio a loro. Loro che in qualche modo, stupido e no che sia, mi facevano allevare quelle ore che pensavo fossero la tortura più pesante che potessero infliggere a dei semplici ragazzi. Non riesco a sentire, neanche un briciolo, dell'atmosfera gioiosa e strepitante che mi dava il benvenuto ogni mattina. 
Qualcosa mi colpisce violentemente all'altezza dello stomaco, mentre i miei occhi, nascosti da ridicoli occhiali da sole [uno dei migliaia di modelli che lui mi ha comprato], scorrono velocemente sui loro volti pallidi, sconvolti, martoriati dalla paura di essere scelti [di morire]. Sono venuta per metterli in guardia da quelli che li attende, per cercare di salvargli [prolungargli] la vita. Ma le corde vocali non hanno intenzione di collaborare, la mia gola comincia a bruciare e pizzicare; l'aria non riesce a raggiungere correttamente i polmoni tanto che devo fare respiri veloci e piccoli. Come una foto, tutto si ferma favorendo l'ansia a impadronirsi completamente del mio organismo, facendomi vacillare sul mio intento di fare qualcosa di buono. 
Un tocco leggero -familiare, ma allo stesso tempo sconosciuto- sulla schiena mi risveglia dal mio stato di confusione. Mi reggo a quella sensazione di conforto per un secondo per poi camminare lentamente verso la lavagna superando la cattedra del professore, che in quel momento, anche lui, mi osserva intimorito da chissà che cosa. Guardo la lavagna piena di lettere e numeri che compongono formule che riconosco e altre del tutto nuove. Mi affascinava molto la fisica anche se la mia media dei voti in questa materia arrivava a malapena alla sufficienza. Sento alle mie spalle il rumore strisciante di una sedia spostata malamente. Rivolgo di nuovo lo sguardo ai miei [ex] compagni, non meravigliandomi a chi vedo in piedi, al primo banco, proprio difronte a me. 
Micheal Rattingan: alto non più di un metro e settanta, capelli biondi rasati da entrambi i lati lasciando la cresta libera da quella specie di cemento che il resto dei miei compagni insisteva a mettere, occhiali ray ban da vista neri, occhi verdi e un fisico ancora in via di sviluppo. Al secondo anno di liceo si era trasferito dal geometra al nostro scientifico. Quasi per tutto il primo anno ci rivolgevamo la parola per insultarci e litigare perchè avevamo pensieri troppo diversi tra loro o perchè uno dei due era nervoso per qualcosa che non riguardava le nostre discussioni. Non mi piaceva il suo comportamento sempre rabbioso e soprattutto il suo modo di parlare rozzo e maleducato quando rivolgeva la parola a me o ad altri. Con il passare del tempo, però, mi abituai al suo modo di essere e questo strano rapporto si era trasformata in una profonda amicizia che nessuno dei due riusciva a descrivere. Spesso ci domandavano se eravamo una coppia e, ovviamente, negavamo sempre quella domanda perchè in realtà eravamo come fratelli.
«Sei passata dalla loro parte?! eh puttana?!»
Sento velocemente un arma essere sfilata dalla sua custodia e uno scatto metallico per togliere la sicura. Mi volto di scatto verso il soldato che ha insistito ad accompagnarmi, mentre alzo il braccio come per bloccarlo. 
«Non pensarci nemmeno.» gli dico a denti stretti. Abbassa lentamente l'ama mentre uccide con lo sguardo colui che ha avuto il coraggio di darmi della poco di buono.
Ritorno a guardare Micheal, mentre serro le labbra per trattenere le urla che non libero da giorni interi. Vorrei far incrociare i nostri sguardi, come una volta, risentendo quella sensazione di alchimia che ci legava ogni volta che parlavamo. Ma ho paura di mostrargli la nuova [orrenda] me. 
Prendo un grosso respiro maledicendomi di non essermi tolta quella giacca di pelle rossa che mi costringe ad indossare ogni volta che esco dalla mia stanza [cella]. Dietro di essa, stampato esageratamente in grande, era presente lo stemma della sua compagnia. Una semplice circonferenza nera con al centro la forma di un'aquila rossa. Ogni membro, ogni ufficiale, ogni militare, ogni schiavo, ogni esperimento doveva indossarlo per affermare che il suo sistema di 'miglioramento' si sta diffondendo mano a mano in tutta la nazione [per attestare che siamo tutti di sua proprietà].
"L'aquila significa potenza e libertà, quello che un giorno sarà lo Stato grazie a me" aveva detto.
"Sarà come ricominciare da zero. Non ci saranno più problemi come malattie incurabili, problemi economici guerre ecc." aveva giurato.
Ma tutto questo era ed è una stronzata. Solo in pochi l'hanno capito.
«Mi era mancato il tuo modo di parlare Mike.»
Comincia a risedersi lentamente non togliendomi gli occhi di dosso, mentre la sua voce roca esce nuovamente dalle labbra carnose.
«Pensavamo che eri morta ... come tutti gli altri» sussurò alla fine.
Questa volta guardai attentamente intorno e notai che c'erano almeno sei banchi vuoti -non contando il mio. Non voglio nemmeno pensare a chi abbia avuto una fine così disumana. 
Non sapevo come cominciare a spiegargli quello che voleva sapere, quello che tutti volevano sapere. Cosa succede nell'altro schieramento? Ma in verità, ancora non lo sapevo nemmeno io. 
Poi un'altra voce sento provenire in fondo all'aula. Questa volta un voce femminile, amichevole ma allo stesso tempo un pò rimproverante. Sam Sanchez: occhi e capelli castani, poco più alta di me, fisico nella norma intelligente, ma pigra. L'unica cosa che ci accomunava era la passione per i libri e per i film. Non parlavamo altro che delle cose che ci piacevano e dei problemi che si presentavano a scuola. Ma nelle condizioni in cui ci ritroviamo tutti quanti, anche la persona che non riuscivo nemmeno a guardare senza accantonargli aggettivi poco piacevoli non merita la sorte che molti studenti hanno ricevuto per un motivo a me sconosciuto.
«Che ci fai qui? Adesso lavori per loro?»
Prendo di nuovo un grosso respiro per poi guardare verso il soldato che continuava a tenere la mano serrata sulla pistola. Mi guarda con occhi fermi e allo stesso tempo preoccupati. Sa perfettamente dei rischi che possiamo entrambi correre per quello che sto facendo, ma è stato lui a prendere l'iniziativa, lui a impiantarmi quella misera speranza nel petto.
«Professore, vi dispiace se vi rubo qualche minuto di lezione?»
Lo guardo e vedo la pesantezza dell'oppressione anche nei suoi occhi. Con faccia stanca acconsente col capo ed esce silenziosamente dalla classe.
«Forza. Cominciate con le domande. Che volete sapere?»
Si guardano in torno confusi cercando un appiglio su cui aggrapparsi per la strana sorpresa che avevo fatto. Tutti sanno che i prescelti dal 'superiore' non facevano più ritorno perchè la loro vita era giunta al termine. Ma per una legge sconosciuta, per volere del destino o per volontà di un Dio più superiore delle potenze attuali, ha deciso che io dovevo essere la prima sopravvissuta.
«L'altro giorno... ci hanno fatto vedere un video di te in cui eri felice e libera di fare ciò che volevi. E' così bello dall'altra parte?»
«Di che video state parlando?»
Che altre menzogne avevano inventato questa volta?
«Quello di te con un vestito costoso che andavi correndo in mezzo all'erba tutta contenta!»
Non riuscendo ancora a capire continuano a spiegarmi dettagliatamente quello che gli hanno fatto credere.
«L'altro giorno ci hanno mandati in Aula Magna e dei ... segretari ... non so che ruolo avevano ... ci hanno fatto vedere questo video per convincere ad unirci a loro. Ci hanno detto e fatto vedere che se siamo dalla loro parte vivremo una vita migliore e cose del genere. La maggior parte degli studenti si è astenuta dal prendere una decisione, altri invece ... hanno creduto alle loro parole ... come puoi ben vedere. Stiamo diminuendo sempre di più. Ogni giorno che passa. E' vero quello che ci dicono? Staremo meglio ... se ci uniamo a loro?»
Una lama gelida mi perfora lo stomaco e, come per divertimento, gira su se stessa per aumentare il dolore. Stringo i pugni e i denti per cercare di non gridare, di non cedere di nuovo alla follia e prontamente il soldato si posiziona al mio fianco facendo sfiorare leggermente le nostre braccia.
Hanno raggirato i fatti dalla loro parte. Mi hanno mentito, usata, illusa fin dall'inizio. Ma di questo ne ero entrata a conoscenza dal momento in cui mi hanno scelto. Fino a qualche giorno fa non volevo ammetterlo perchè avevo -e ho tuttora- una terribile e grande paura di quello che succederà, della vera guerra che ne nascerà, di tutte le vittime che ne causerà, della vera fine di tutto quello che costituisce il nostro mondo. Ma soprattutto ho paura della morte. Chi alla nostra età non ha paura della morte? Di lasciare il mondo dopo nemmeno scoprirne la metà delle sue meraviglie? Ma nel disastro in cui ci troviamo, queste meraviglie che ci regala la Terra si stanno estinguendo giorno dopo giorno, lasciando cenere e desolazione dietro di sè. Nessuno ancora è pronto per dire addio alla bellezza della vita. La sensazione di imparare sempre cose nuove, crescere, amare e soffrire per amore, sposarsi e avere figli, avere dei nipoti, diventare vecchi e soddisfatti della vita che abbiamo svolto. Solo allora possiamo essere pronti di lasciare il divertimento di godersi la vita terrena ad altri, a coloro che devono ancora nascere. 
«No. E' tutto falso. Tutto quello che vi dicono, che vi mostrano, tutto quello che vi promettono non è vero! Sono tutte delle vere e grandi cazzate! Non si sta da dio come vi fanno credere. Venite trattati peggio degli schiavi ... sempre se riuscite a sopravvivere a quello che vi fanno una volta entrati nel loro sistema.» bisbiglio, in fine, senza fiato, sicura che solo quelli al primo banco avevano sentito ogni parola.
Il silenzio ci avvolge di nuovo. Sono stata troppo diretta, troppo brusca a riferirgli la verità. Ma prima lo sanno e meno cadeveri ci saranno sa seppellire. Almeno spero. 
Ecco un'altra voce che sapevo che si sarebbe fatta sentire in qualche modo. La voce di un'altra persona a cui ero segretamente affezionata. Leonard Hayes: capelli castano chiaro, che si avvicinano al biondo, occhi verdi, alto quasi un metro e ottanta, corpo atletico e la persone più gentile e premurosa che abbia mai conosciuto in vita mia. Non avevamo quasi niente in comune, scherzavamo durante i cambi d'ora e basta, ma in un modo o nell'altro mi è sempre stato vicino nei momenti difficili. Era uno delle poche persone che mi faceva veramente ridere. Riusciva a comprendermi meglio di chiunque altro solamente osservandomi e questo mi terrorizzava. Un giorno la mia fantasiosa mente elaborò la teoria che aveva una cotta per me, ma dopo qualche minuto la chiusi subito in un cassetto isolato del mio cervello, perchè lo consideravo solo un amico. Un caro amico.
«Togliti gli occhiali...» è quasi un sussurro, ma aleggia nell'aria come un fastidiosa zanzara che ti gira intono fino a quando non gli concedi il piacere di morderti.
Trattengo il fiato per quello che sembravano ore,mentre un tuono nel cielo faceva tremare le finestre. E' in arrivo un tempesta anche fuori. 
Sento il militare sfiorarmi i pugni che ottusamente tengo stretti tanto da far diventare le nocche bianche. Mi scosto bruscamente da quel tocco per poi sedermi sulla cattedra alquanto agitata. Più lui mi sta vicino, più fa entrare in contatto i nostri corpi, più sento il bisogno di lasciarmi andare al caos che trattengo nel petto. 
Prendo un'altro grosso respiro e lentamente mi tolgo gli occhiali da sole che nelle ultime settimane erano diventati un indumento fondamentale come [più] [del]l'intimo. Appena alzo i miei nuovi occhi ai miei vecchi compagni, vedo le loro facce impallidire, irrigidirsi, alcuni serrano i denti, altri poggiano la mano sulla bocca per non far uscirne qualche esclamazione.
Sono il loro nuovo nemico. Sono il mostro che lui ha creato. Sono il suo giocattolo che usa quando gli serve per scopi 'sociali' per 'sistemare le questioni spiacevoli in cui lo Stato si trova'. Ancora, però, non sono un vera minaccia dell'uomo. Ancora questa cosa non si è attivata. Valgo meno della spazzatura che i cittadini buttano dove gli capita disinteressanti al male che provocano all'ambiente anche se, alla fine, sono giustificati perchè devono preoccuparsi di non morire da un giorno all'altro piuttosto di dove gettare i rifiuti.
«I tuoi occhi ... sono ...»
«Cambiati. Si. Si, lo so.» una risata amara uscì dalle mie labbra perfettamente ricoperte di lucidalabbra. 
Giro lo sguardo verso Leo e immediatamente risponde alla mia silenziosa domanda.
«In alcuni pezzi del video, la videocamera riusciva a inquadrare solo il volto. lì ... lì ho notato che non avevi più gli occhi castani. Ho notato ... abbiamo notato ... che il colore dei tuoi occhi è cambiato ... che è diventato nero ... troppo nero.»
Senza che me ne accorgessi, un angolo delle bocca si curva in un sorriso, mentre le parole mi scivolano dalla bocca come un cascata. Stranamente non percepisco più il peso di raccontare quello che mi era successo durante le settimane [i secoli] di assenza. 

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ANGOLO AUTRICE:
Ecco la mia prima fanfic originale. Prima di tutto volevo dirvi che non sapendo in che categoria metterla l'ho inserita in generale e se ho sbagliato prego che qualcuno mi corregga. Poi volevo precisare che il titolo è provvisorio quindi potrebbe cambiare da un giorno all'altro. Volevo anche precisare che l'idea di questa fanfic mi è venuta leggendo il libro 'schegge di me', quindi se qualcuno l'ha letto è molto probabile che nota che la storia in generale è simile. Invece, che segue il manga o l'anime naruto, con l'andare avanti dei capitoli (anche se credo che lo capisce già dal primo capitolo) può notare che ho 'preso in prestito' dei dettagli.
Anche se alla fine questa storia non è così 'originale' spero che siate curiosi di leggere la continuazione. Fatemelo sapere con le recensioni che gentilmente lascerete perfavore. Ovviamente se avete critiche e suggerimenti per migliorare la storia o corregge qualche errore di grammatica li gradisco volentieri. Grazie a chi ha letto il  primo capitolo.
xx loganlerman
  
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