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Autore: Sao principesse_    18/12/2012    0 recensioni
Questa è la storia di Lucinda, una diciassettenne che dopo la morte del suo caro amico Trevor vede tutto e tutti voltarle le spalle. È ritenuta responsabile della morte dell'amico, così Luce (la chiamerò così per tutta la storia) è costretta a trascorrere la vita in un istituto correzionale, lontano da amici e parenti: nessun contatto con io mondo esterno, ragazzi e ragazze dal passato oscuro e disturbato, telecamere di sorveglianza. Un inferno. Ma tutto cambia quando incontra cinque ragazzi: Liam, Niall, Harry, Louis, e Zayn. Luce sente di averli già incontrati, di conoscerli da una vita. 
Così escono allo scoperto quando rischiano di perderla. 
Si conoscono da sempre, da tutte le vite che Luce non ricorda ancora di aver vissuto.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Luce irruppe nell'atrio della Sword & Cross School dieci minuti più tardi del dovuto. Un custode dall'ampio torace, guance rosse e un blocco per appunti stretto sotto un bicipite di ferro stava impartendo ordini, quindi Luce era già rimasta indietro.  «Quindi ricordate: pillole, letti e spie.» abbaiò il custode ai tre studenti di cui Luce non riusciva a vedere il viso, perchè le davano le spalle. «Ricordate le regole di base e nessuno si farà male.» Luce di infilò rapida nel gruppetto. Stava ancora cercando di capire se aveva compilato nel modo giusto la gigantesca pila di documenti, se quella guida dalla testa rasata era un uomo o una donna, se qualcuno poteva aiutarla a portare l'enorme sacca da viaggio, se i suoi genitori dopo averla mollata lì si sarebbero disfatti della sua amata Plymouth Fury non appena tornati a casa. Avevano minacciato di vendere la macchina per tutta l'estate, e ora avevano un motivo che nemmeno Luce poteva contestare: nella nuova scuola nessuno poteva tenere una macchina. Nel nuovo ISTITUTO CORREZIONALE per l'esattezza.  Doveva ancora abituarsi a quella formula.  «Potrebbe, ehm, ripetere?» domandò al custode «cos'era pillole...?»  «Guarda un po' cosa ci porta il vento.» ribattè la guida a voce alta. Poi proseguì, scandendo piano: «PILLOLE. Se sei uno studente in terapia, qui è dove venire a prendere quello che ti serve per drogarti, restare sano di mente, respirare o quant'altro.»  “Donna”, si disse Luce, studiandola. Nessun uomo avrebbe usato un tono così dolciastro.  «Capito.» A Luce venne la nausea. «Pillole.»  Non era più sotto farmaci da anni. Dopo l'incidente di quell'estate, i dottor Stanford–il suo analista a Hopkinton, nonché il motivo per qui i suoi genitori l'avevano spedita a scuola nel New Hampeshire–aveva preso in considerazione di sottoporla nuovamente alla terapia farmacologica. Nonostante lei alla fine lei l'avesse convinto di essere quasi stabile, c'era voluto più di un mese di analisi per liberarsi da quegli orrendi psicofarmaci.  Ed ecco perchè si era iscritta alla Sword & Cross con un mese di ritardo rispetto all'inizio dell'anno scolastico. Essere quella nuova era già abbastanza brutto, ma questa volta c'era stata anche l'ansia di piombare nel bel mezzo dei corsi in cui tutti gli altri si erano già ambientati. A giudicare dalla visita guidata della scuola, però, Luce non doveva essere l'unica arrivata. Scoccò un'occhiata furtiva agli altri tre, in semicerchio attorno a lei. Nell'ultima scuola, Dover Prep, aveva conosciuto la sua migliore amica, Callie. Tutti gli altri studenti in pratica erano cresciuti insieme e loro erano le uniche a cui bastava non avere genitori o fratelli che avessero studiato lì. Ma poco dopo avevano scoperto di condividere la stessa passione per gli stessi vecchi film, soprattutto quelli con Albert Finney. Quando poi durante il secondo anno (mentre guardavano “Due per la strada” [film bellissimo] ), avevano scoperto che nessuna delle due riusciva a preparare i pop-corn senza far scattare l'allarme antincendio, Callie e Luce erano diventate inseparabili. Finchè...finchè non erano state costrette a dividersi.  Accanto a Luce quel giorno c'erano due ragazzi e una ragazza. La ragazza sembrava facile da inquadrare: bionda e carina come in una pubblicità della Neutrogena, con unghie rosa pastello in tinta con la cartellina di plastica.  «Mi chiamo Gabbe.» disse strascicando le parole, abbagliandola con un sorriso che svanì con la stessa rapidità con cui era apparso, prima ancora che Luce potesse presentarsi. Più che la ragazza tipo che si aspettava di trovare alla Sword & Cross, quell'interesse passeggero le sembrò una versione del sud delle ragazze di Dover. Luce non sapeva dire se fosse consolante o no, e nemmeno riuscì ad immaginare cosa ci facesse in un correzionale una ragazza del genere. Alla destra di Luce c'era un ragazzo con i capelli corti castani, occhi castani e labbra fini. Aveva un fisico slanciato e abbastanza muscoloso, invidiabile, insomma. Dal modo in cui evitava di guardarla, limitandosi a tormentarsi una pellicina del pollice, Luce capì che probabilmente era stordito e imbarazzato quanto lei.  Il ragazzo alla sua sinistra, invece, combaciava fin troppo bene con l'idea che Luce si era fatta di quel posto. Era alto e magro, con una borsa da DJ appesa alla spalla, capelli neri arruffati, con il ciuffo biondo, occhi color nocciola, grandi e profondi e pelle ambrata. Aveva le labbra piene, di un rosa per cui molte ragazze avrebbero dato qualsiasi cosa. Dal bordo della maglietta nera sulla nuca, spuntava un tatuaggio che alla luce del sole sembrava quasi risplendere sulla sua pelle. A differenza degli altri due, quando il ragazzo si voltò a guardarla non distolse gli occhi. Il sorriso era forzato ma lo sguardo era caldo e vivace. La fissò, immobile come una statua, e anche Luce si sentì inchiodata al suolo. Trattenne il respiro. Quegli occhi erano intensi, seducenti e be' disarmanti.  Schiarendosi rumorosamente la gola, la custode strappò al ragazzo il suo sguardo trasognato. Luce arrossì violentemente e finse di essere molto occupata a grattarsi la testa.  «Quelli di voi che sanno già tutto sono liberi di andare dopo aver buttato gli oggetti vietati.» La custode indicò una grossa scatola di cartone sotto un cartello che diceva a grandi lettere nere “OGGETTI PROIBITI”.  «E quando dico LIBERI Liam» calò una mano sulla spalla del primo ragazzo facendolo sussultare, «intendo obbligati a incontrate le vostre guide.» Puntò il dito contro Luce. «Tu, via la roba vietata e rimani con me.»  I quattro si avvicinarono alla scatola e Luce vide, sconcertata, che i ragazzi cominciavano a svuotarsi le tasche. La ragazze estrasse un coltellino svizzero rosa di dieci centimetri. Il tipo dagli occhi nocciola si separò con una certa riluttanza da una bomboletta di vernice spray e un taglierino. Perfino il povero Liam lasciò cadere nello scatolone parecchie confezioni di fiammiferi e una piccola bomboletta di gas per accenderli; non si sarebbe mai aspettata che fosse un tipo del genere.  Luce si sentì quasi stupita a non avere nulla di pericoloso con sé,ma quando vide gli altri frugare nelle tasche e buttare i cellulari nella scatola, rimase a bocca aperta.  Chinandosi per leggere più da vicino la scritta “OGGETTI PROIBITI”, notò che cellulari, cercapersone e ogni altro apparecchio di trasmissione e ricezione erano severamente proibiti. Come se non fosse già abbastanza brutto non avere un'auto! Luce strinse con la mano sudata il telefono che teneva in tasca, il suo unico collegamento con il mondo esterno. La custode colse il suo sguardo, e la schiaffeggiò leggermente sulla guancia. «Non svenirmi addosso, piccola, non mi pagano abbastanza per resuscitarti. E poi ti aspetta una telefonata alla settimana nell'atrio principale.» Una telefonata...alla settimana? Ma... Guardò il cellulare un ultima volta e si accorse che le erano arrivati due messaggi. Sembrava impossibile che fossero gli ULTIMI. Il primo era di Callie.  “Chiama subito! Ti aspetto vicino al tel tutta la notte quindi preparati a vuotare il sacco. E ricorda il mantra che ti ho dato: Ce la farai! Cmq, per quello che importa, mi sa che tutti si sono dimenticati...” Tipico di Callie: il messaggio era così lungo che quello schifo di telefono aveva tagliato le ultime righe. In un certo senso, Luce ne fu quasi sollevata. Non voleva leggere che tutti alla sua vecchia scuola avevano già dimenticato ciò che le era successo, ciò che aveva fatto per approdare in QUEL posto.  Sospirò e passò al secondo sms. Era di sua madre, che aveva la mania dei messaggi solo da poche settimane, e di sicuro non era al corrente della telefonata settimanale, o non avrebbe mai abbandonato sua figlia lì. Giusto? “Cara, ti pensiamo sempre. Fai la brava e cerca di mangiare abbastanza proteine. Parleremo appena possibile. Baci, mamma e papà.” Luce sospirò. I suoi genitori lo sapevano. Come spiegare altrimenti le loro facce tese quando li aveva salutati fuori da scuola, sacca da viaggio in mano? A colazione, aveva cercato di scherzare sul fatto che avrebbe finalmente perso quel tremendo accento del New England che aveva preso alla Dover, ma i suoi non le avevano rivolto nemmeno l'accenno di un sorriso. Non strillavano mai, e quando lei perdeva il controllo si limitavano a rispondere con un muro di silenzio. Ora capiva la ragione del loro comportamento: i suoi stavano già soffrendo della perdita di contatti con la loro unica figlia.  «Manca ancora qualcuno...» cantilenò la custode. «Chissà chi è.» Luce riportò di scatto l'attenzione sulla scatola, ora piena fino all'orlo di oggetti che non riusciva nemmeno a riconoscere. Sentiva su di sé gli occhi nocciola del ragazzo con i capelli scuri, ma poi si accorse che la stavano fissando TUTTI. Toccava a lei. Chiuse gli occhi e aprì lentamente la mano: il cellulare cadde sul mucchio con un tonfo triste. Il rumore della solitudine.  Liam e la bambola di plastica Gabbe si avviarono verso la porta riservando a Luce appena un'occhiata, ma il terzo ragazzo si voltò verso la custode.  «Posso informarla io.» disse, indicando Luce con un cenno.  «Non fa parte degli accordi» rispose automaticamente la donna, come se si fosse aspettata quello scambio di battute. «Sei uno nuovo, adesso: vuol dire che hai le stesse restrizioni dei nuovi. Sei tornato al via. Se non ti piace, avresti dovuto pensarci due volte prima di infrangere la tua promessa.» Il ragazzo rimase immobile, inespressivo, mentre la custode spingeva Luce–che si era irrigidita alla parola “promessa”–verso un atrio ingiallito.  «Muoversi» aggiunse, come se nulla fosse. «Letti.» Indicò la finestra esposta a ovest di un edificio color cenere. Gabbe e Liam iniziarono a camminare strascicando i piedi in quella direzione, e il terzo ragazzo li seguì lentamente, come se raggiungerli fosse l'ultima delle cose che aveva in programma di fare.  Il dormitorio degli studenti era un edificio grigio, imponente e squadrato, con porte massicce che non lasciavano trapelare all'esterno alcun segno di vita. C'era una grande targa di pietra in mezzo al prato: Luce l'aveva vista sul sito web della scuola, e ricordava che sopra c'era scritto “PAULINE DORMITORY”. Al pallido sole del mattino sembrava perfino più brutta che nella pallida fotografia in bianco e nero.  La facciata era coperta di muffa nera, visibile perfino da quella distanza. Tutte le finestre erano chiuse da file di spesse sbarre d'acciaio. Luce strizzò gli occhi. Era filo spinato quello in cima al recinto che circondava l'edificio? La custode consultò una tabella, sfogliando la pratica di Luce. «Stanza 69. Metti la borsa nel mio ufficio insieme a quelle degli altri, per ora. Potrai disfarla nel pomeriggio.»  Luce trascinò la sacca da viaggio rossa verso tre anonimi bauli neri, poi d'istinto cercò il telefono dove in genere si appuntava le cose da ricordare. Ma dopo aver frugato nella tasca vuota, sospirò e cercò di imparare a memoria il numero della stanza.  Continuava a non capire perchè non potesse stare semplicemente dai suoi; la casa di Thounderbolt era a meno di mezz'ora dalla Sword & Cross. Era stato così bello tornare a Savannah, dove, come diceva sempre sua madre, perfino il vento soffiava pigro. I ritmi dolci e lenti della Georgia le erano molto più congeniali del New England.  La Sword & Cross non somigliava affatto a Savannah, però. Non somigliava a niente, tranne che a un posto senza vita e senza colore dove era stata mandata per decisione del tribunale. Aveva ascoltato di nascosto suo padre parlare al telefono con il preside, annuendo in quel suo modo svanito da professore di biologia, per poi dire: “Si, si, forse la cosa migliore per lei è essere costantemente sorvegliata. No, no, non intendiamo interferire con il vostro metodo.” Era chiaro che suo padre non sapeva come sarebbe stata sorvegliata la sua unica figlia. Quel posto sembrava un carcere di massima sicurezza.  «E cosa diceva di quelle...come le ha chiamate? Spie?» chiese Luce alla custode, già pronta a concludere il giro.  «Spie» ripetè l'altra, indicando con un cenno un piccolo dispositivo appeso al soffitto: un obbiettivo con una lucina rossa intermittente. All'inizio Luce non l'aveva notato, ma non appena lo vide, si accorse che ce n'erano ovunque.  «Telecamere?» «Molto brava.» rispose la custode, con la voce piena di condiscendenza. «Ve le segnaliamo per avvertirvi. Vi teniamo d'occhio sempre, dappertutto. Quindi non andare fuori di testa...se ci riesci.» Ogni volta che qualcuno le parlava come se fosse una psicopatica, Luce si convinceva sempre un po' di più di esserlo davvero.  I ricordi l'avevano tormentata per tutta quell'estate, in sogno e nei rari momenti in cui i suoi genitori la lasciavano sola. Era successo QUALCOSA in quel bungalow, e tutti (lei compresa) morivano dalla voglia di sapere che cosa. La polizia, il giudice, l'assistente sociale...tutti avevano cercato di cavarle fuori la verità, ma Luce ne sapeva quanto loro. Lei e Trevor si erano divertiti per tutta la sera, inseguendosi fino alla fila di casette in riva al lago, lontano dagli altri invitati alla festa. Luce aveva cercato di spiegare che era stata una delle più belle serate della sua vita, finché non si era trasformata nella peggiore. Aveva rivissuto quella serata ancora e ancora–la risata di Trevor nelle orecchie, le sue mani che le cingevano la vita–cercando di conciliare i ricordi con il fatto che il suo istinto le diceva di essere innocente.  Ma ora, tutte le regole della Sword & Cross parevano andare contro quella convinzione, sembravano suggerire che lei era davvero pericolosa e che aveva davvero bisogno di essere tenuta sotto controllo.  Luce sentì una stretta sulla spalla.  «Ascolta» disse la custode. «se può farti sentire meglio, ci sono casi ben peggiori, qui.» Era il primo gesto di umanità che mostrava nei suoi confronti, e Luce era certa che fosse dettato da buone intenzioni. Ma...l'avevano mandata a causa della morte del ragazzo di cui era innamorata e COMUNQUE c'erano “casi ben peggiori”? Luce si chiese con che cosa avessero a che fare alla Sword & Cross.  «Okay, fine dell'orientamento» disse la custode. «Ora devi cavartela da sola. Ecco una mappa per trovare qualunque cosa ti serva.» Le consegnò la fotocopia di una rozza cartina disegnata a mano, poi diede un'occhiata all'orologio. «Manca ancora un'ora alla tua prima lezione, ma ho già abbastanza gatte da pelare, quindi» agitò la mano «sparisci. E non dimenticare» aggiunse, indicando le telecamere un'ultima volta, «le spie ti tengono d'occhio.» Prima che Luce potesse ribattere, comparve un ragazzo magro e biondo, dagli occhi di un azzurro angelico che le agitò le lunghe dita davanti al viso.  «Ooooooh» cantilenò cupo, danzando in cerchio intorno a Luce. «Le spie ti tengono d'ooooocchio!» «Vattene, Niall, altrimenti ti faccio lobotomizzare.» replicò la custode, lasciandosi però sfuggire un sorriso fugace ma sincero, dal quale si capiva che per quel ragazzo nutriva una sorta di ruvido affetto.  E si capiva anche che Niall non lo ricambiava. Le fece un gesto osceno, poi fisso Luce con aria di sfida. 
  
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