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Autore: Morgana126    05/07/2007    2 recensioni
Quando le persone maturano persono una parte, e quando la ritrovano possono ricominciare a vivere!
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pioggia

Era Luglio. E il tempo piangeva!

Non che lei piangesse. Era forte, sicura! In vita sua pochissime volte aveva pianto. Era sempre stata reputata troppo matura per vederla piangere, infatti poche volte lo aveva fatto! Ma forse pioveva perché lei sentiva il suo cuore piangere. Troppo orgogliosa per poterlo fare apertamente.

Ancora non capiva perché piangeva.

Aveva una bella vita.

La sua famiglia da sempre agiata gli aveva permesso ottimi studi e di conseguenza una carriera magnifica.

Chirurga di un ospedale in america.

Lei italiana in america. Ci era finita perché lì potevi spostarsi sempre. E poi ritornando per le vacanze l’Italia sarebbe sembrata sempre più bella.

Ma adesso piangeva. Non lei, il suo cuore.

Si sentiva vuota. Come se gli mancasse un pezzo di anima finito chissà dove nella via per raggiungere l’età che aveva adesso.

Aveva trent’anni e viveva sola in una piccola casa lussuosa e confortevole. Aveva due coinquilini abbastanza indiscreti e simpatici.

Ma oltre a loro e il lavoro non aveva nessuno.

D’inverno pensava solo al lavoro. Dormiva davvero pochissimo, fra vari incidenti e interventi urgenti.

Era abbastanza contesa fra i vari ospedali.

Una neurochirurga. La neurochirurga per eccellenza.

L’aveva sempre affascinata il cervello umano.

Lei lo definiva una scatola con della carne macellata all’interno. Col passare del tempo, dopo tanti interventi, aveva cominciato a capire che la carne macellata aveva un suo preciso ordine e che, solo con un semplice tocco, avrebbe attivato un movimento del corpo.

La carne macellata era diventata una complessa macchina manipolatrice, di cui anche lei era succube.

Forse era anche per questo che piangeva. Era succube di ciò che lei riparava. Era andata spesso da psicologi. Ma tutti gli avevano semplicemente detto che aveva bisogno di una vacanza dal suo lavoro.

L’aveva presa quella vacanza, era andata a Roma per due settimane. L’aveva rivisitata per la cinquantesima volta. Sapeva dove andare, dove tutti la conoscevano.

Ma ritornata a lavoro di nuovo quella situazione.

E adesso, era Luglio, i pioveva. Pioveva e tuonava, c’erano anche i fulmini.

Gli piaceva la tempesta.

Fin da quando era bambina.

Nella sua camera aveva una finestra con delle tendine chiare.

Quando c’erano temporali con tuoni e fulmini, scostava le tendine, si metteva sul letto con le gambe incrociate, la sua copertina verde scuro e il suo peluche che lei era solito chiamare Pingu.

E rimaneva minuti… ore… a rimirare i lampi, che tagliavano il cielo scuro.

Erano così sottili e… scattanti… precisi. Le illuminavano l’anima!

E tutta la tempesta intorno.

Ne era sempre stata affascinata. Gli alberi che venivano scossi violentemente da quelle folate di vento.

Era anche più bello quando, rare volte, vedeva una tromba d’aria, debole, ma la vedeva. Vederla vorticare diventando sempre più grande, raccogliendo tutto ciò che si trovava nel suo passaggio.

Era spettacolare.

Ma in quel momento, anche se rimaneva davanti alla finestra a rimirare la tempesta, si sentiva a metà.

Così fece la cosa più azzardata del mondo, e quella che cercava di fare da tempo, per sconfiggere la perfetta macchina manipolatrice.

Scalza con soli dei bermuda di jeans addosso e una maglietta blu a maniche corte, aprì di scatto la porta e uscì da casa.

Non ci volle molto perché i suoi capelli neri diventassero completamente bagnati, insieme ai vestiti e tutto il resto del corpo.

Si mise a correre verso il suo giardino. Dove dimoravano bellissimi fiori colorati, alberi di ogni genere di frutti e magnifici rampicanti fiorati.

Si mise a correre sotto il ciliegio, dove cadevano più lentamente le gocce di pioggia. Inspirò profondamente l’aria bagnata, quel gusto che lei tanto amava.

Aprì le braccia, come se fossero stare ali, e si mise a girare sempre più velocemente, finche esausta non cadde sul praticello.

Sorrise. Forse il primo vero sorriso da anni. L’ultimo vero sorriso sincero lo fece all’età di sei anni in direzione di un magnifico giardino.

Da allora la “maturità” non l’aveva abbandonata. E i suoi sorrisi, quelli che sembravano veri, erano solo forzati o derisori.

Aprì di colpo i magnifici occhi blu, come la notte senza stelle, assenza che preavvisa un temporale, guardò le ciliegie rosse e piene, come le sue labbra.

Si alzò e ne prese una. La mangiò e si risedette di nuovo a terra appoggiata al tronco dell’albero, con le gambe incrociate, il gambo della ciliegia ancora appeso alle labbra. Lei aveva trent’anni, ma in corpo se ne sentiva ancora sei, come l’ultima volta che sorrise sinceramente.

Adesso non aveva più quel senso di vuoto.

E se il cielo piangeva, adesso non lo faceva più, o almeno non tanto, perché un delizioso arcobaleno si insinuò fra le pieghe capricciose delle nuvole.

   
 
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