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Autore: Keiko    20/12/2012    1 recensioni
Loro erano quella generazione che aveva contrastato – o tentato di aiutare – Lord Voldemort.
Erano stati quelli che avevano combattuto e che erano morti insieme agli adulti.
Quelli che erano scappati.
Quelli che si erano ribellati.
E quelli che, semplicemente, avevano atteso che tutto finisse.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Astoria Greengrass, Blaise Zabini, Daphne Greengrass, Draco Malfoy, Pansy Parkinson | Coppie: Blaise/Pansy, Draco/Astoria, Draco/Pansy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Sweet Revenge © 2008 (24 dicembre 2008)
Disclaimer. Tutti i personaggi di Harry Potter appartengono a J. K. Rowling, agli editori inglesi e ai distributori internazionali che detengono i diritti sull'opera. Questa storia è stata redatta per mero diletto personale e per quello di chi vorrà leggerla, ma non ha alcun fine lucrativo, né tenta di stravolgere in alcun modo il profilo dei caratteri noti.
Nessun copyright si ritiene leso.



L’immagine violenta di quella notte di Yule gli riaffiorava alla mente ogni qualvolta cadeva inesorabile il venticinque dicembre. Forse era per la perenne tinta d’oro che imbandiva villa Greengrass o forse per quel vermiglio vivo che predominava su ogni altro colore delle decorazioni o, ancora, perché proprio quel colore era divenuto la macchia sanguigna su di un manto di neve fresca.
Il rumore dei ricordi di un uomo dovrebbe essere come la neve: talmente soffice da non lasciare traccia di alcun suono. I suoi, invece, creavano il fragore delle onde che si infrangevano sulle scogliere della Cornovaglia che aveva imparato ad apprezzare negli anni, così come una compagna del tutto indesiderata che l’aveva reso un vincente.
C’era un qualcosa di più dignitoso sul viso di Draco Malfoy rispetto al ragazzino che fu, dovuto alla certezza di una stabilità familiare che l’aveva innalzato al vertice della casta dei purosangue, ma l’occhio attento di una donna innamorata vi avrebbe scorto l’amarezza degli anni e il peso dei ricordi.
Draco Malfoy era rimasto il ragazzino viziato che Severus Piton aveva cercato di difendere sino allo stremo, ma aveva acquistato la fermezza dettata dall’oppressione di una società in cui eri costretto a sbranare per non venire, a tua volta, mangiato; lo stesso che, nonostante tutto, aveva preferito fosse la vita a scegliere per lui, e non il contrario.
Yule gli portava sempre alla mente l’ultimo istante della sua adolescenza.
Il ragazzino spaurito che aveva impugnato la bacchetta contro Albus Silente tremando come una foglia – colui che aveva lasciato fossero le correnti a spingerlo tra le fila di uno schieramento che era solo il frutto di una mitizzazione infantile – era divenuto il degno erede dei Malfoy grazie allo scacco con cui aveva posto le basi al Ministero, arrivando a controllare l’intera produzione e omologazione delle pozioni dell’intero Mondo Magico.
L’inaspettata dote di pozionista del giovane Malfoy era stata vista da Lucius come una specie di tacita eredità che Severus aveva lasciato al suo protetto, come a voler testimoniare che non tutto era destinato a morire per mano di Lord Voldemort.
Lucius leggeva spesso nello sguardo di Draco la consapevolezza di una codardia radicata, un figlio che aveva perfettamente seguito la condotta del padre adulando e amoreggiando con il miglior offerente.
Anche al Ministero era stato grazie al potere di Greengrass che, ancora prima dei ventincinque anni, si era insediato a capo di un intero Dipartimento.
Draco Malfoy – senza particolari doti né alcun gesto eroico dalla propria parte, con incollato indosso un nome importante che valeva la cassaforte più ricca della Gringott – era riuscito a raggiungere Potter e la Granger all’interno di quel domino che era il Ministero della Magia.
Grazie a un nome accostato al proprio che aveva acquisito, negli anni, la medesima importanza all’interno del Mondo Magico.
Loro erano quella generazione che aveva contrastato – o tentato di aiutare – Lord Voldemort.
Erano stati quelli che avevano combattuto e che erano morti insieme agli adulti.
Quelli che erano scappati.
Quelli che si erano ribellati.
E quelli che, semplicemente, avevano atteso che tutto finisse.

L’imponete villa in stile vittoriano era quella che Lucius avrebbe descritto come la barocca manifestazione dell’arricchimento di borghesi – volgare e del tutto pacchiana con quegli arabeschi d’oro ad agghindare l’intero porticato – non fosse che la buona creanza e la diplomazia che gli erano proprie, non gli imponesse di zittirsi e prodigarsi in sorrisi di circostanza davanti al padrone di casa.
Draco era abituato a quella pantomima da abbastanza tempo da non fare troppo caso alla smorfia divertita con cui suo padre, negli ultimi anni, accompagnava il suo ingresso presso i Greengrass.
Il ricevimento che il padre di Dafne aveva indetto quell’anno era probabilmente la più sontuosa e fastosa manifestazione dell’opulenza, a dimostrazione di come la sconfitta di Lord Voldemort avesse portato beneficio persino ai suoi Mangiamorte.
Anzi, forse molto più a loro, finalmente liberi dal giogo di una schiavitù spirituale che metteva a repentaglio la loro vita – ma soprattutto, quella della loro adorata progenie – a seconda dell’umorale cambiamento del loro padrone.
Il banchetto di Greengrass aveva coinvolto l’intera nobiltà Serpeverde, precludendo a quella purezza d’animo giallo oro il fasto eccessivo di cui la casta aristocratica amava fare sfoggio.
Di Potter, la mezzosangue o peggio, di quel grossolano contadino che era Weasley, non vi sarebbe stata traccia dunque. Una rimpatriata che poneva le basi per ciò che sarebbe stata la comunità magica nell’immediato futuro, uno scacco politico al Ministero che avrebbe ripristinato al potere le famiglie Purosangue più in vista.
Greengrass non aveva fatto mistero di volere accasare la maggiore delle sue figlie con il giovane rampollo di casa Malfoy, molto meno disponibile era stato Lucius nell’offrire su un piatto d’argento il suo bene più prezioso al più grossolano dei Purosangue.
“E’ solo un fastoso banchetto, un pacchiano ricevimento e una dose piuttosto consistente di balli e fanciulle pronte a corteggiarti.”
Il sangue poteva tutto, persino concedergli l’amore di donne che non lo conoscevano neppure.
Lo sguardo di Draco si era soffermato immediatamente sulla figura di Pansy, sul cui corpo esile scivolava un abito color rubino che ne metteva in risalto l’incarnato pallido e i capelli corvini, cresciuti abbastanza da caderle in una setosa chioma ben oltre le spalle.
Nessuno avrebbe potuto chiamarla “carlino” ora, men che meno il restante pezzo di omozigotismo di casa Weasley.
Aveva comunque seguito il padre nel rituale scambio di saluti dinnanzi al padrone di casa.
Draco si accorse, con una certa sorpresa, che Araldicus Greengrass era un uomo attempato, dai capelli di un vivacissimo argento che si facevano strada sulle tempie e l’aria severa da maestro.
“Sono felice di averti tra noi, Lucius. Non speravo nella tua presenza, né tanto meno in quella di Draco ma sono fiero di potervi avere tra noi per il ricevimento natalizio. E la signora Malfoy?”
“Ha chiesto di perdonare la sua mancanza, ma in questo periodo è assalita da forti nausee e non vuole mostrarsi ai propri ospiti se non nel pieno del proprio splendore.”
“Tipico di qualsiasi donna avvezza alla vanità, Lucius. Porgile i miei saluti e gli auguri di pronta guarigione. E tu Draco, hai finalmente deciso quale strada intraprendere, stando a quel che ho potuto udire.”
“Lavorare al Ministero affiancando mio padre è una grande opportunità per me. Mi piacerebbe poter lavorare un giorno al reparto di Amministrazione e Approvazione di Pozioni e Veleni, ma questo solo se può rendere orgoglioso di me mio padre.”
Greengrass aveva spostato lo sguardo sulla propria figlia, intenta a ridere in modo abbastanza sgraziato alle parole di Zabini.
“Lucius, dovresti essere fiero di avere un figlio come Draco. Guarda me, per esempio: in questa casa si nota la mancanza di un erede che possa portare avanti il mio cognome. Dafne ha, quale aspirazione maggiore, riuscire a sposare Zabini. E’ qui stasera solo per sua insistente richiesta: lo vedo bazzicare sin troppo spesso dalle nostre parti perché non mi renda conto che dall’aspirazione al reale ci sia davvero poca distanza. Mia moglie adora Blaise, è un ragazzo davvero intelligente e acuto, ma è un borghese…”
“Suvvia, Araldicus: è pur sempre un preziosissimo Purosangue, degno di essere annoverato tra i Serpeverde come la tua graziosa Dafne. Cosa ti preoccuperebbe della loro unione?”
“Nulla suppongo: solo la patetica avvisaglia della mia vecchiaia ormai alle porte.”
Lucius aveva riso, mentre con un gesto aveva congedato Draco da quell’orrido siparietto comico. Non avrebbe mai sopportato di sentirsi snocciolare dinnanzi i meriti e i pregi di chi, senza mezzi termini, aveva tentato di portargli via Pansy a più riprese.
Avrebbe dovuto parlare con lei, e anche con i suoi genitori.
Narcissa adorava le visite di Pansy, e Lucius non perdeva occasione per invitarla a cena o a qualche soggiorno nei loro domini in Irlanda.
Pansy era divenuta – negli anni – la naturale controparte di Draco, l’ossimoro perfetto entro il quale il candore dell’erede di casa Malfoy poteva confondersi con il profondo buio della Parkinson.
“Buonasera.”
Draco aveva baciato delicatamente la mano tesa di Pansy, a confermare l’indiscusso legame di due purosangue che amavano strenuamente il proprio lignaggio, a tal punto da manifestare con gesti teatrali quel legame che si era venuto a costruire durante i lunghi anni passati tra le mura di Hogwarts.
“Oh Draco, che piacere rivederti. Finalmente hai deciso di lasciare le gonnelle di papà, a quanto ho saputo.”
“I pettegolezzi della media borghesia non sono cosa che possa toccare particolarmente la verità. Se serve per far parlare dei Malfoy comunque, ben vengano.”
Pansy aveva semplicemente rivolto un’occhiata divertita in direzione di Draco per poi ostentare verso Dafne – non di meno, la sua amica del cuore – una stoccata che era l’evidente superiorità di una donna avvezza alla vittoria, fosse essa del proprio uomo e dunque, solo di riflesso la propria.
Zabini aveva incassato il colpo con classe, sorseggiando spavaldo dalla propria coppa di vino scuro, gli occhi smeraldini a brillare quasi spettrali sull’incarnato ambrato.
“Sai Draco, a quanto pare è sempre piuttosto facile avere una certa posizione per chi è del tuo lignaggio. Non mi stupisco, dunque, tu abbia esattamente ciò che hai sempre desiderato senza la minima fatica: il lavoro al Ministero e una donna che possa essere per te motivo di vanto, mesta al punto da far brillare anche il più insignificante degli uomini con la propria bellezza.”
“Stai esagerando, Blaise.”
Pansy l’aveva ammonito con il tono pacato che le diveniva congeniale solo per rendere manifesta la propria irritazione e sia Zabini, che Malfoy, che la Greengrass, sapevano che dietro quella glaciale e sterile frase si nascondeva l’ira focosa di una Parkinson.
“Pansy, sai benissimo cosa penso. Se dovesse esserci un’altra che per connotati possa essere migliore di te per i Malfoy, allora sarai né più né meno che una Parkinson. Zitella.”
“Non credo siano problemi che ti riguardano, o sbaglio?”
“Forse. O forse no.”
Dafne conosceva perfettamente i sentimenti che Blaise nutriva per Pansy ma nonostante tutto, un letto caldo in cui riposare, uno sguardo esotico in cui perdersi, erano il palliativo per sentirsi meno perdente nei confronti di chi – come la Parkinson – poteva avere tutto con la semplicità con cui avrebbe potuto svegliarsi la mattina.
“Potremmo accomodarci a tavola, ormai gli Elfi Domestici dovrebbero essere pronti con le prime portate.”
Si era schiarita la voce, ma ciò non era bastato a evitare che risultasse incrinata e insicura. Sapeva che da parte di Pansy poteva avere la certezza non si sarebbe mai interessata a Blaise, ma d’altro canto sapeva che quell’esasperante attesa di una posizione certa nella vita dell’uomo amato non era altro che il denominatore comune che le univa.
“Vedi Zabini, ad accusare gli altri di un peccato che è proprio si rischia di apparire maleducati e privi di tatto nei confronti di chi ci sta accanto. Ma il valore della riservatezza a voi borghesi, so bene come non venga adeguatamente insegnato.”
Aveva fatto cenno a Pansy di seguirlo e lei, fiera, aveva porto il proprio braccio al ragazzo, sfidando con aria vittoriosa l’intera comunità Purosangue.
La bellezza di un serpente albino e di una fiera pantera si univano per fare sfoggio di una disperata adolescenza ormai finita, nel tentativo di riprendere le redini di una vita che non era più la loro.
Pansy aveva assistito al lento cambiamento di Draco, a quella trasformazione che non gli aveva dato sicurezza in sé – né tanto meno il coraggio di un Prescelto ormai eroe – ma nei propri mezzi. L’erede di Malfoy poteva contare su di un nome, un padre e una buona dose di spavalderia nei confronti i compagni di Hogwarts: nonostante fossero trascorsi tre anni dal loro addio definitivo alla scuola di magia, Draco sapeva bene di poter sfruttare le medesime armi che, ancora adolescente, poteva sfruttare con i propri compagni.
La morte non li aveva trasformati molto: si erano solo induriti un poco, divenendo più spavaldi e spietati verso il prossimo perché la casta dei purosangue, non poteva cambiare mai.
Pansy Parkinson però non era una stupida, né tanto meno un’utopista: la certezza che Draco non sarebbe mai stato suo, era quella con cui sfoggiava il proprio cavaliere come un trofeo.
Un giorno sarebbe arrivata un’altra donna a strapparglielo, una che non l’aveva stretto a sé durante gli anni di Hogwarts, che non l’aveva spalleggiato contro Potter, che non aveva dormito nel letto dalle lenzuola di seta e piumini d’oca di Malfoy Manor.
Una che sarebbe stata un’eterna seconda perché lei era stata la prima in tutto.
Avrebbe dovuto parlare a Draco quella sera e spiegargli il motivo dell’irritazione di Blaise. E magari parlare anche a Dafne già che c’era, ma quello spettava a Zabini, la sua parte di crudeltà e tradimento avrebbe dovuto infliggergliela successivamente, ma non era certa di riuscire in una simile impresa.
D’altra parte non era nemmeno certa della riuscita di Blaise in quel senso: erano due Serpeverde certo, ma il tradimento di persone tanto care – almeno per lei – pesava come un macigno.
Ma aveva vent’anni e si era innamorata.
Di nuovo.
Di una persona che da sempre l’amava per quel che era, non per quello che sapeva offrire.
Blaise, in una sera soltanto, l’aveva resa una principessa e ora doveva essere sincera con Draco.
Se il suo cuore sapeva quale fosse la cosa giusta da fare, la sua sé stessa bambina si ostinava a rimanere ancorata a quel ricordo; a quel primo bacio strappato con la forza di un sorriso malizioso; a quel pomeriggio di pioggia in cui il profumo dell’erba medica si era confuso con quello della pelle di Draco contro la sua; a quelle sere in cui l’aveva sentito piangere nella Stanza delle Necessità e con la dolcezza di una madre l’aveva abbracciato, carezzando quei capelli sottili come fili d’argento sino a quando non la baciava con una forza che non gli era propria, solo per farle comprendere che non aveva più bisogno di lei.
La Pansy adulta però non aveva bisogno di sentirsi il vaso canopo entro il quale riversare la codardia di un ragazzino spaurito, e non c’erano più occhi adoranti a seguire la figura di un uomo che portava addosso i segni di una debolezza che l’avrebbe seguito negli anni.
Pansy era una vincente, una che amava essere circondata da vincenti e non da chi, la storia, l’aveva fatta solo nel riflesso di uno specchio adulto.
Dinnanzi a lei, tutto si dipanava con la lentezza esasperante di un Incantesimo Rallentante: avrebbe desiderato alzarsi dalla propria sedia, lasciare le posate e portare Draco lontano da lì, in un luogo ove avrebbe potuto scacciare lo spettro del suo amore adolescenziale per sempre.
La mano di Dafne che cercava quella di Blaise in modo insistente e plateale, la metteva in un certo qual modo a disagio: la mano di Draco era gelida, erano dita affusolate che riprendevano la morsa di un meraviglioso boa albino; quella di Blaise era calda e rassicurante, il tocco rovente di un braciere accesso durante la notte di Beltane.
E il suo sguardo non si staccava mai da lei: vagava, si posava su altri volti e labbra, ma poi tornava sempre alle sue, come se stessero sillabando una canzone ipnotica.
Pansy, dal canto proprio, sfidava con la sicurezza che le era propria ogni sguardo, ogni viso: di una bellezza quasi venefica – del tutto similare a quella di Bellatrix Lanstrange, non fosse stato per quello sguardo dolce che ne rendeva più morbidi i lineamenti – riusciva a piegare ciò che non voleva si soffermasse sul suo corpo.
Era Yule, e la neve finalmente aveva deciso di fare loro visita come se volesse coprire una volta per tutte ciò che era il loro passato: lenta, soffice e voluttuosa scendeva fitta dal cielo come se fosse frettolosa nel desiderare di ricoprire tutto quanto.
Attutire il suono delle lacrime quando queste si infrangono sulle guance spettrali di chi ha perso tutto però, è impossibile.
La neve ancora non possiede la capacità di fare miracoli, alleviando il dolore di cuori troppo giovani per essere considerati adulti, troppo vissuti per essere considerati ancora bambini.



“Fa freddo, vero, Draco?”
Pansy teneva i palmi delle mani rivolti verso il cielo, cercando di afferrare fiocchi di neve che si scioglievano a contatto con la sua mano calda.
“Nevica, è ovvio ci sia freddo.”
“Già. E’ tutto sempre ovvio e scontato per te. Anche quello che hai è qualcosa che ti è dovuto.”
A colpire Draco era la rassegnazione con cui Pansy gli aveva parlato, come se fossero cose talmente palesi da non lasciare spazio nemmeno alla rabbia o al dolore.
“Sai, ho passato sette anni a chiedermi come sarebbe stato il mio futuro e ogni volta ci vedevo il tuo viso. I tuoi occhi allungati e grigi come il cielo d’Irlanda prima di un temporale. I capelli talmente biondi da parere candidi come questa neve. Vedevo un romanticismo che non c’è mai stato, un qualcosa che probabilmente è esistito solo nella mia testa.”
C’era qualcosa nel discorso di Pansy che non gli permetteva di focalizzare l’attenzione sui particolari e dunque, fargli sfuggire l’ovvietà di una situazione che la Parkinson gli stava sottoponendo in modo nemmeno troppo velato.
“Avrei voluto non arrivare a comprendere che i sogni restano tali per sempre. Non quando è Yule e tutt’attorno le luminarie babbane sembrano brillare come incantesimi, non quando la neve cade e ti fa sentire serena e protetta come quando eri bambina. Però si cresce Draco, tu, io, Blaise, Dafne… lo siamo tutti, grandi. E io non posso nutrire in eterno aspettative legate a un irrealizzabile amore adolescenziale.”
“Non siamo mai stati insieme, Pansy.”
L’ovvietà di quella frase era pari al dolore che le aveva inferto, nemmeno troppo profondo, ma solo la conferma di ciò che aveva appena detto.
“Già, lo so. Per questo non ha senso attendere. L’ho fatto per sette anni, sono rimasta imbrigliata in una Pansy Parkinson adolescente che rendeva forte un ragazzino vigliacco per un amore a senso unico. Io ero l’alcova che ti proteggeva, la solida roccia dietro cui nascondersi: io ero sempre in prima linea a spalleggiarti, e questo ti dava forza. E’ sempre stato così: il piccolo branco ti rendeva forte di un potere che non possedevi realmente, entro le mura di Hogwarts. Ma ora che hai dinnanzi l’intero Mondo Magico, come ti senti Draco? Piccolo e spaurito, vero?”
“Parli come la Granger, Pansy.”
Lei aveva abbozzato un sorriso, quasi si stesse aspettando anche quella battuta malevola.
“Tu non sei cambiato, Draco. Sei rimasto il ragazzino di tre anni fa, ma non puoi credere di fare la voce grossa con il medesimo metodo. Che a te piaccia o no, la Granger e Potter al Ministero se la cavano egregiamente. E per quello che sanno fare, non per il nome che portano.”
“Ti piacciono i perdenti, Pansy?”
“A quanto pare mi sono piaciuti per sette anni, ma crescendo si impara anche ad aprire gli occhi.”
“La paternale si è conclusa, dunque?”
“Io e Blaise pensiamo di sposarci.”
Di tutto quello che si aspettava Draco, quella era una delle cose nemmeno contemplate nella lista delle possibilità. Se già la pacatezza di Pansy tradiva un inaspettato lato di lei che non aveva mai conosciuto – o che aveva sviluppato negli ultimi tempi forse -, a maggior ragione la decisione di un imminente matrimonio lasciava l’erede di Malfoy in preda al tremore rabbioso di chi non può perdere mai.
“Potevi risparmiarti la fatica, qui nessuno è interessato a congratularsi.”
“Pensavo fosse corretto dirtelo, non mi aspetto nulla da un Malfoy. Conosco la pasta di cui sei fatto e so cosa c’è lì dentro.”
“Blaise non doveva sposare Dafne?”
“Anche tu ti interessi dei pettegolezzi mondani?”
“No, solo mi sembrava evidente anche stasera che la cosa fosse lampante.”
“E’ facile farsi ingannare dalle apparenze. L’abbiamo fatto anche noi, no?”
Draco si sentiva preso in giro in modo abbastanza brutale e irritante. Pansy era stata l’appiglio sicuro della sua adolescenza, quella tra le cui braccia aveva pianto, l’unica donna a cui avesse mostrato il fianco e le lacrime.
E la bruttezza di una codardia da coniglio.
“Sei soddisfatta ora?”
“No. Non la sarei stata nemmeno mentendo, o tacendo. Se mi offrissero ora la possibilità di averti, probabilmente la rifiuterei. Draco, ti ho amato davvero. Ti avrei seguito in capo al mondo, avrei ricevuto il Marchio Nero per te se solo me l’avessi chiesto. Tu invece non mi hai chiesto nulla, mi hai tenuta legata a te come si potrebbe fare con una Maledizione Imperius: io ti ho dato tutto senza chiedere nulla in cambio, ma chi dice che questo è fonte di gioia mente. Non sa cosa significhi ricevere un sorriso che sia soltanto per sé; o cosa voglia dire sentire una mano che stringe la tua in modo del tutto inaspettato. Dare senza ricevere, a lungo andare, stanca. E tutto ciò che resta è un frutto spremuto sino al midollo, di cui non restano che residui. Rientriamo?”
Stretta nella pesante stola di ermellino, Pansy aveva preceduto Draco di qualche passo per poi arrestarsi per aspettarlo, in un gesto del tutto naturale e abitudinario.
Draco fissava la chioma corvina di Pansy confondersi con la tenebra attorno a loro che andava diradandosi mano a mano che la dimora di Greengrass si faceva sempre più vicina con le proprie luci dorate, a scintillare sotto la coltre nevosa che ne rifletteva il colore.
“Sembra stiano cadendo pepite d’oro.”
Gliel’aveva detto con la semplicità disarmante con cui l’aveva amato, e ciò gli appariva come una doppia coltellata: se Pansy fosse stata ironica o sarcastica, avrebbe potuto ribattere e riversarle addosso tutta la propria rabbia – quella del bambino a cui hanno strappato di mano il giocattolo preferito, non dell’uomo a cui hanno rubato la donna di una vita -, ma lei era quella di sempre.
Persino più dolce e delicata, perché Pansy Parkinson sapeva quanto sangue nobile le scorreva nelle vene e poteva fare sfoggio di un’amara verità: la conoscenza profonda che aveva di Draco Malfoy le permetteva infatti di giocare sul piano schiacciante della vittoria, poiché ogni suo gesto rispecchiava ciò che lui non si aspettava da lei, destabilizzandolo.
Sapere di perdere l’unica persona al mondo che lo conosceva realmente, lo infastidiva. Non solo perché nella guerra lunga dieci anni la vittoria era andata in premio a Zabini, ma perché nell’ovvietà della perdita si celava tutta la propria superficialità.
Draco Malfoy non perdeva mai, né tanto meno avrebbe mai ammesso che Pansy era molto più di quanto avrebbe voluto convincersi.
Con l’istinto di possesso con cui un bambino avrebbe difeso i propri preziosi giocattoli, le aveva stretto le gote ghiacciate tra le mani, imprimendo con una forza inaspettate le labbra sottili su quelle carnose di lei, in quello che nemmeno lui sapeva definire bacio.
O contatto.
O disperato tentativo di tenere tra le mani la propria adolescenza: perché c’era chi, nonostante gli avvenimenti, ancora si ostinava a non voler crescere.
“Draco… mi dispiace.”
Pansy non piangeva, né mai l’aveva fatto dinnanzi a lui: da sempre aveva dimostrato una forza indomita che le consentiva di non apparire mai fragile davanti a chi, per contro, la rendeva vulnerabile alle stoccate.
Era anche per quel motivo che lui l’aveva notata: lei non era come tutte, non si lasciava mai andare alla fragilità in pubblico, come se possedesse un autocontrollo che mancava ai più, il frutto indesiderato di un’educazione nobile e severa nei limiti consentiti dai Parkinson, chiaramente.
Il suo sguardo tradiva tuttavia l’incertezza del proprio futuro, come se fosse arrivata a un bivio che credeva già superato da tempo e invece, per uno strano scherzo del caso, doveva nuovamente affrontare.
Il suono di passi dietro di loro aveva costretto la Parkinson a voltarsi in direzione del suono di tacchi che battevano gli uni contro gli altri.
Non le era servita la sfera di cristallo per sapere chi fosse quell’improbabile Dorothy che lottava per richiudere un ombrello rosso ciliegia – che contrastava con il candore attorno come solo una rosa avrebbe potuto fare –, le scarpette di vernice del medesimo colore a spiccare tra la neve posata sul pianerottolo dinnanzi all’imponente portone di villa Greengrass.
“Accidenti a questa neve, questo maledetto ombrello non si decide a… reduco!”
La ragazzina, con un gesto stizzito della mancina, aveva puntato la bacchetta contro l’ombrello, riducendolo alle dimensioni di una suppellettile.
Si era ravvivata i boccoli dorati sulle spalle prima di accorgersi degli occhi curiosi che la fissavano sorpresi dall’oscurità del parco.
“Scusate, non volevo disturbarvi. L’Espresso ha avuto problemi con la neve e le passaporte sono tutte affollate. Dalla stazione di Londra il luogo più vicino a casa è stata la passaporta di scorta che mio padre tiene nelle scuderie.”
Aveva sorriso imbarazzata, facendo sparire nella borsa che portava a tracolla la miniatura del suo ombrello, riponendo poi la propria bacchetta al di sotto della mantellina.
“Astoria è diverso tempo che non ci vediamo.”
Pansy si era allontanata da Draco cercando di mostrarsi disinvolta, sfoggiando un sorriso rassicurante alla nuova venuta.
“Oh, Pansy! E’ passato parecchio tempo dall’ultima volta in cui ci siamo viste!”
La ragazzina si era girata su sé stessa, correndole incontro sotto la neve per stringerle con entusiasmo le mani nelle proprie.
“Questo è il tuo ultimo anno a Beauxbatons vero?”
“Esatto. Non sai che noia restare chiusi in un delizioso castello sperduto in Provenza tra colli verdeggianti e distese di lavanda in cui assolutamente non accade nulla. Mia sorella è stata parecchio più fortunata di me in questo senso.”
Astoria Greengrass, diciassette anni, era stata iscritta alla scuola femminile quando – all’età di nove anni – aveva dichiarato di voler divenire una principessa.
Non le interessava la magia – con cui si destreggiava senza troppi impicci, non fosse per la distrazione che accompagnava spesso i suoi gesti – né le interessava particolarmente la storia del Mondo Magico. Lei desiderava un matrimonio da fiaba, un principe e una famiglia di cui essere l’indiscusso angelo protettore.
Gli anni a Hogwarts si erano fatti turbolenti dopo che Potter aveva dichiarato pubblicamente il ritorno dell’Oscuro Signore e, per preservare almeno una branca del proprio sangue, Araldicus Greengrass aveva colto la vocazione al focolare della figlia per spedirla in Francia: lontano da Lord Voldemort, il Prescelto e dal vezzo della sorella maggiore di manifestare sin troppo palesemente la propria infatuazione per un meticcio dallo sguardo penetrante e il sorriso malizioso.
Astoria si era sporta leggermente di lato per osservare meglio l’interlocutore di Pansy, i grandi occhi grigi a capeggiare sul di un viso minuto da ragazzina su cui Draco riconosceva i tratti spigolosi di quello del padre.
“Draco, questa è Astoria, la sorella minore di Dafne.”
Non aveva di certo bisogno di specificare fosse proprio quel Draco, quello di cui Astoria aveva sentito parlare Pansy per interi pomeriggi estivi all’ombra della possente quercia che si trovava al confine tra i domini dei Greengrass e quelli dei Goyle.
A dimostrazione che in fondo, il loro era da sempre un mondo a parte, fatto di scintille argentee e prati dall’irreale verde del regno degli elfi.
Astoria aveva sgranato gli occhi – due fari d’argento su quel viso scarno – come se si trovasse dinnanzi il protagonista di una fiaba di Beda il Bardo.
E in parte, per lei, era così.
Pansy era sempre stata un’abile oratrice: non ricordava ci fosse mai stata una volta in cui non era stata costretta a risvegliarsi dai sogni a occhi aperti sul giovane Malfoy, uno sconosciuto che aveva tutta l’aria di somigliare al suo principe. Era stato poco prima della sua partenza per Beauxbatons , che Astoria aveva deciso che anche il suo principe sarebbe stato proprio come Draco: bellissimo, elegante, sempre sicuro di sé e pronto a proteggerla. Che la minore delle sorelle Greengrass avesse tratto le conclusioni più romantiche dai racconti di una giovane innamorata era lampante, specie perché ricavava dalle parole della Parkinson una visione totalmente aliena rispetto alla realtà dei fatti.
Ritrovarsi dinnanzi quello che era il prototipo dell’uomo dei suoi sogni era un qualcosa di abbastanza sconcertante, soprattutto perché si aspettava un fiero lord inglese, non un uomo che ostentava il viso pulito di un adolescente, su cui non sarebbe probabilmente mai comparsa traccia di peluria.
In quell’estatica bolla fatta di neve e silenzio, tutto aveva assunto i toni irreali di una magia sconosciuta. Astoria fissava Draco con lo sconcerto di una bambina, e benché fosse buffa sino a strappargli un sorriso, Malfoy continuava a domandarsi cosa avesse quella mocciosa per comportarsi come una perfetta maganò.
“Rientriamo? Si è fatto tardi ormai.”
E la neve cadeva lenta, ovattando il suono dei loro passi sul selciato candido.
Astoria aveva lanciato un ultimo sguardo a Malfoy, prima di entrare raggiante a villa Greengrass e saltare al collo del padre con la spensieratezza dei suoi diciassette anni passati nel sicuro nido francese.
Furono quella neve spettrale e la certezza di essere stato sconfitto da Zabini a smuovere qualcosa in Draco Malfoy.
Perché essi non erano destinati a perdere: anche quando la sconfitta era palese, qualcosa – che poteva essere la Ruota della Fortuna che virava in modo magnanimo verso di loro – riusciva a renderli vincitori.
Nonostante tutto.
Quella sera nei fatti, non fu diversa: Draco Malfoy vinse il premio della propria vita grazie l’incontro, dettato dal Fato, con Astoria Greengrass.
Né più né meno, ci sono vite predestinate le une alle altre ed era chiaro come l’esistenza di Malfoy fosse legata a quella della Parkinson attraverso la garanzia offerta da una presenza vigile a attenta sin dall’adolescenza. Pansy era focosa, passionale, forte: una donna già a sedici anni e lui? Cos’era lui? Un uomo che amava l’agio dei salotti mondani e la certezza di un potere che si riduceva, nella maggior parte dei casi, alla sola apparenza. Draco Malfoy era un uomo che aveva creduto – sin da ragazzino – di poter ricevere incondizionatamente tutto l’amore del mondo senza dover concedere nulla in cambio.
La storia – negli anni – gli avrebbe persino dato ragione, ma in quel momento era solo.
Solo, e sconfitto.


Dafne si era morsa il labbro inferiore cercando di trattenere le lacrime: se da un lato conosceva perfettamente i sentimenti di Zabini – e a voler essere sinceri, aveva passato l’ultimo anno a Hogwarts nel vano tentativo di far comprendere a Blaise che poteva rivolgere lo sguardo altrove. Ma si era messa in funzione la regola di un’amicizia che danneggia l’amore, e il serpeverde aveva preso le parole di Dafne come un semplice consiglio. E di consigli poi, ne aveva richiesti a profusione – dall’altro lato la scelta di Pansy si era rivelata ai suoi occhi come puro opportunismo.
“Ti sta sfruttando, Blaise. Tu le daresti tutto ciò che desidera, senza ricevere nulla in cambio.”
“Dafne non puoi basarti su ciò che siamo stati durante gli anni a Hogwarts. Se osservi il castello attentamente, ti accorgerai che è un microcosmo a parte con i suoi segreti, i suoi sentimenti, le sue regole. Quello che siamo lì dentro, è un riflesso di ciò che saremo poi fuori. Ed è quello che è accaduto.”
“Una donna con cambia quando è già tale. Sei un idiota se speri che Pansy possa davvero amarti.”
“Non volevo ferirti Dafne, mi dispiace.”
“Mi sento… sfruttata, Blaise.”
Anzi, si sentiva una maledetta perdente nei confronti di chi era da sempre la sua migliore amica. Che il suo rapporto con Pansy fosse sempre stato sulla linea del tradimento e dell’invidia lo sapevano entrambe, ma c’era un limite secondo cui nessuna delle due avrebbe mai amato il principe dell’altra, sancito con un giuramento da bambine. Erano state abbastanza fortunate, nello scoprire che i due prescelti al ruolo non erano la stessa persona. Pansy aveva esultato a quella scoperta e Dafne aveva tratto un sospiro di sollievo: un giuramento a scatola chiusa poteva rivelarsi un gioco pericoloso e il tutto era stato ordito da Pansy per porre un divieto su Draco Malfoy.
“Sono stata semplicemente una stupida. A fidarmi di Pansy, chiaramente, e credere che ti fossi dimenticato di lei. Quanto devo sentirmi stupida, Blaise?”
Non doveva cercare troppo in profondità: bastava correre con la mente all’estate appena trascorsa, in cui Zabini era scomparso da villa Greengrass per farvi ritorno solo per i festeggiamenti di Natale. Sparito, senza dare tracce di sé e lasciando Dafne con il nodo alla gola di chi è consapevole di una fine ma che, per costrizione, può solo attendere che quella porta venga totalmente sbarrata da chi invece, ha continuato a lasciarla socchiusa alimentando false speranze.
“Potevi dirmelo subito.”
“Non sapevamo ancora se…”
“… se lei sarebbe rimasta con te o sarebbe scomparsa come una ninfa dispettosa?”
“Sei tu la ninfa Dafne.”
“Non ne possiedo la bellezza.”
“Ne possiedi le caratteristiche. La bellezza di una donna resta chiusa nel suo sguardo.”
E Dafne aveva occhi di un azzurro intenso che via via si andava diradando sino a sfumare nel bianco della sclera, occhi talmente spettrali da far rabbrividire, su quel corpo troppo secco e il viso smunto.
Era uno sguardo che non aveva mai stregato Zabini – perché lui amava l’ardore di un corpo caldo e pieno, di uno sguardo scuro e intenso, di colori caldi e accoglienti che rispecchiassero il fuoco dell’Equatore e non una landa ghiacciata di Groenlandia – ma che aveva finito con l’apprezzare per la bellezza unica e rara.
“Resti un adulatore anche ora?”
“Dico la verità, Dafne.”
“Mio padre sarà felice. Non gli sei mai piaciuto e io avrei dovuto ascoltarlo.”
“Quelli come me non piacciono mai ai genitori purosangue.”
“Perché sei un arricchito. Piaci al padre di Pansy?”
“Adora sua figlia al punto da concedergli qualunque capriccio, e lo sai perfettamente.”
Già: un altro punto a favore di Pansy.
“Sarai il capriccio di Pansy Parkinson, Blaise?”
“Forse. Ma ho atteso per anni di poterla amare alla luce del sole.”
“Te ne pentirai quando ti lascerà.”
“No. Saranno i momenti più felici della mia vita e ringrazierò ogni giorno Merlino per avermeli concessi.”
“Sei sempre il solito stupido. E’ difficile trovare persone come te, che riescono a vivere nell’illusione di un sogno realizzato.”
“L’hai fatto anche tu.”
“Già. Siamo molto più simili di quanto tu non voglia credere.”
Blaise si era sporto in avanti per baciarle la fronte, ma lei si era voltata di lato lasciandogli solo la chioma di un biondo slavato raccolta in boccoli vaporosi.
“Non ti aspetterò, lo sai vero? Fine della magia. Solo, non è rimasto il bagliore delle luci rossastre che lasciano gli incantesimi. Capita che un incantesimo fallisca, se il mago non è abbastanza abile.”
Non avevano altro da aggiungere o dirsi, un addio è reso sempre peggiore dalle pause silenziose che si possono colmare solo con le lacrime, le grida o le parole amare.
Dafne Greengrass non voleva alcuno spazio privo di rumore, voleva la festa, il bagno di folla e poi un letto su cui piangere.
Dopo la mezzanotte, l’incantesimo si era spezzato: proprio come nella tradizione della magia classica.


“Scusa, hai per caso visto Dafne o Pansy? Non le trovo da nessuna parte.”
Draco aveva sollevato lo sguardo dal proprio calice di vino, motivo per il quale desiderava tornare al Manor dei Malfoy prima di ubriacarsi seriamente, fissando la ragazzina che si trovava dinnanzi a lui.
“No, ma può darsi stiano parlando tra di loro in qualche stanza lontano da qui.”
Zabini intratteneva con disinvoltura un gruppo di rampolli dell’età di Astoria, probabilmente, ma lei vedeva quanto fosse nervoso da come agitava il vino nella coppa, fingendo una degustazione eccessiva.
“E’ patetico.”
“Blaise? E’ una persona molto divertente.”
“Come mai non hai studiato a Hogwarts?”
“Oh, io odiavo Hogwarts quando Dafne me ne parlava. A Beauxbatons non abbiamo problemi di suddivisione in case e lotte intestine.”
“E’ un mondo idilliaco fatto di amore e lacrime di gioia?”
Astoria si era seduta al suo fianco sull’ampio divano, fissando assorta la figura d Blaise.
“No. Ci insegnano a essere nobildonne.”
“Con l’uso della magia?”
“Quella è indispensabile per molte cose, ma le guerre le lasciamo agli uomini. Che senso ha lottare, per una donna? Siamo troppo deboli, a noi occorre un uomo che ci protegga e ci faccia sentire al sicuro dai pericoli. Tu hai combattuto?”
“A modo mio, si.”
La presenza della ragazzina lo infastidiva: era chiaro che l’ammazzare il tempo in compagnia non era esattamente ciò che in quel momento desiderava. Non era nemmeno suo desiderio restare ulteriormente a villa Greengrass, e solo perché respirare la stessa aria di Zabini gli procurava la nausea.
“Oh, Draco, hai avuto modo di conoscere la mia secondogenita?”
C’erano due fattori contrastanti ad averlo indotto ad alzarsi in piedi per andare incontro ad Araldicus Greengrass: con lui c’era suo padre e dunque, la sua ancora di salvezza; e il conseguente allontanamento da Astoria.
“Astoria cara, vieni qui.”
“Si padre.”
“Draco vuoi concedere a mia figlia un ballo? Così la smetterà di elogiare la Francia come la miglior nazione del mondo, additando noi inglesi come poveri bifolchi.”
“Non l’ho detto, padre!”
Si era portata una mano alla bocca, arrossendo violentemente. Si era accorta di aver alzato un poco il tono della voce, in uno squittio quasi stridulo, e Draco era stato costretto a non voltarsi verso di lei con un sorriso sarcastico dipinto in volto.
“Sono certo che Draco saprà rendere merito a noi inglesi, non è così?”
“Si, padre.”
Draco aveva porto meccanicamente la mano ad Astoria che vi aveva posato sopra la propria - gelida e scarna – e si erano portati sino al centro della pista da ballo quando l’orchestra aveva preso ad attaccare il motivo lento di una ballata di Yule
“Questa ballata è molto triste, non trovi?”
Era antica quanto il Mondo Magico, e narrava la storia di una fata delle nevi che si lasciava morire per amore per un mortale.
“E’ in questo modo che i bardi passano alla storia.”
“Sai, tu le somigli?”
“A chi?”
“Alla fata delle nevi. Sei candido.”
“Candido?”
“Si. Hai il colore della neve: le persone come te non possono essere altro che pure.”
Draco aveva sorriso e una fossetta gli era comparsa al lato sinistro delle labbra, là dove di certo non era stato un angelo a baciarlo.
“Tu non mi conosci, il bianco e il nero non sono colori. Sono il concentrato e l’annullamento di tutti i colori dell’iride: cos’è la vita senza colore?”
“E’ una vita che puoi scegliere di tingere delle tonalità che più ami. Tu sei incontaminato ancora.”
Non aveva avuto dubbi, sin dal primo momento, di avere davanti una piccola illusa, ma scoprire che a questo si aggiungeva una dose di discorsi insensati che aveva sentito uscire solo dalla bocca di quella svitata della Lovegood, lasciava presagire che anche Greengrass avesse qualche problema con la minore delle figlie.
“Una pozza bianca o nera resta tale per sempre. I colori non tornano dove già tutto è stato distrutto.”
“Tutto può ritornare a formarsi. Posso dimostrartelo se vuoi.”
“Astoria, tutto quello che stai dicendo non mi interessa. Che sia bianco o nero, ciò che è importante è il nome. Sia esso candido o vermiglio o zaffiro, resta solo quello: il nome e le gesta legate a esso.”
“Non si direbbe i Malfoy possano vantare eroi, o sbaglio?”
“Gli eroi muoiono per assicurare un futuro al mondo. E’ chi resta, che quel mondo deve farlo muovere verso quel futuro.”
“Un’indiretta collaborazione tra Malfoy e Potter, dunque?”
Il sorriso sul viso di Astoria non era quello di una ragazzina, ma quello malizioso di chi aveva solo il travestimento dell’angelo.
“E la signorina Greengrass dov’era, quando sua sorella stava combattendo a Hogwarts?”
“Chiusa in una segreta di Beauxbatons in attesa che tutto finisse.”
“Se fossi tornata a casa e non fosse rimasto nulla di tutto questo?”
“Avrei trovato tutto quanto al suo posto, proprio come te.”
La musica si era affievolita e Draco aveva allentato la stretta, deciso a levarsi di torno l’impertinente e tornare a casa, ma Astoria aveva stretto la sua mano nella propria, costringendolo a restare con lei.
“Il ballo è finito.”
“Ma io non ho finito con te. Pansy ha parlato di Draco Malfoy così tanto, che mi sono chiesta chi fosse. Ed eccoti qui. Sono curiosa di vedere quanto in quello che lei ha raccontato c’è di vero.”
“E’ solo curiosità?”
“E’ solo curiosità. Ma ora torniamo, o Pansy potrebbe arrabbiarsi.”
“Sia io che Pansy siamo liberi di fare ciò che desideriamo.”
Non avevano indugiato oltre, ed erano tornati entrambi ai propri amici, alle chiacchiere di circostanza, allo Yule più sfarzoso.
Pansy era scomparsa, e con lei anche Zabini.
“Non te l’ha detto, vero?”
“Cosa, Dafne?”
Gli si era avvicinata sorridendo, le dita che stringevano nervosamente la stoffa dell’abito.
“Pansy aspetta un figlio da Blaise. Per questo si sposano. Solo e soltanto per questo. Perché non te la riprendi, Draco?”
“E’ Zabini che è costretto ad avere cose di seconda mano. Non io.”
Non aveva indugiato oltre, si era diretto da Lucius e con una scusa aveva lasciato villa Greengrass. Mai avrebbe creduto che un cappio immaginario potesse soffocarlo a quel modo, e non era per l’amarezza o la sofferenza, quello era il segno manifesto della sconfitta.
Avrebbe potuto dare un futuro ai Malfoy, e non l’aveva fatto.
Avrebbe potuto rendere felice Narcissa, e non l’aveva fatto.
Avrebbe potuto riscattarsi, almeno una volta, e decidere della propria vita.
Invece non aveva fatto nulla di tutto ciò.


“Draco, tua madre ci ha invitato a Malfoy’s Manor per festeggiare Yule. Dice che le manca avere intorno Scorpius.”
“La Cornovaglia è il posto ideale dove passare l’infanzia. Lontano dall’Inghilterra e da tutto il rumore di Londra.”
Astoria aveva emesso una risata, sedendosi accanto al marito e posando il capo sulla sua spalla.
“Yule è sempre una festa strana, vero?”
“E’ una festa come decine d’altre, lo sai anche tu.”
“Sai a cosa mi riferisco.”
“Forse.”
Le aveva posato un bacio casto tra i capelli, prima di sollevarsi e prendere tra le braccia il piccolo Scorpius che, all’ombra di un abete riccamente addobbato, gesticolava in modo convulso con una bacchetta-giocattolo.
“E’ questo il movimento, Scorpius. Vingardium Leviousa.”
Il cuscino, su cui sino a pochi istanti prima era seduto l’erede di Malfoy, aveva girato su sé stesso nell’aria prima di ricadere fiaccamente a terra.
“Papà mi insegni a farlo?”
“Quando sarai più grande, si.”
Astoria guardava Scorpius, la copia in miniatura di Draco persino nei gesti: lei non era stata altro che il mezzo per averlo. Draco le voleva bene, non poteva dire il contrario, e tutto era principesco come desiderava da ragazzina, ma si era resa conto che l’amore vero non è quello che ha la patina perfetta della vita delle fiabe, ma quello che sa concederti un sorriso quando sei triste; che ti riscalda nelle sere invernali; che ti fa sentire unica.
Le era capitato, alle serata della nobiltà purosangue, di incontrare Pansy e Blaise e vedeva in quelle mani che si stringevano con garbo, in quei sorrisi che venivano concessi all’altro con parsimonia per non renderli scontati, la complicità di una coppia solida, nata da un amore sincero.
All’epoca del matrimonio di Pansy erano state molte le malelingue che avevano dichiarato la scelta della Parkison quella di una perdente rifiutata dal rampollo Malfoy.
Nessuno avrebbe mai saputo che il perdente era stato proprio lui, e che Pansy era la vincitrice di un braccio di ferro che aveva vinto grazie alla forza dell’esasperazione.
“Devo dire a Narcissa che saremo con loro a festeggiare Yule?”
“Certo. Usciamo, Scorpius? Inizia a nevicare sul mare.”
Si era costruita una gabbia perfetta in cui vivere e ora non aveva nulla da recriminare. Aveva fissato l’albero addobbato, sorridendo nello scorgere tra i rami le scarpette rosse che indossava la notte di Yule di due anni prima: là, le si era spalancato quello che credeva il suo mondo, e invece si era ritrovata in una realtà totalmente aliena, in cui solo il ricordo viveva davvero.
Perché Draco viveva per Scorpius, non per lei.
E Draco Malfoy, soprattutto, non aveva mai smesso di ricordare – e forse rimpiangere – quel fuoco violento che aveva reso la sua adolescenza viva, quegli occhi ardenti nonostante fossero quasi neri tanto erano scuri: c’era sempre calore in ciò che avevi perduto, mai in quello che avresti trovato.
Draco e Pansy sarebbero stati felici insieme, Astoria ne era certa: perché il bianco e il nero non sono due colori, sono due entità che assorbono e annullano tutti gli altri. Per quello, insieme, avrebbero potuto vivere e non recitare una parodia fine a sé stessa.
Eppure Pansy era felice, completa e serena con Zabini: perché?
Perché Pansy Parkinson aveva deciso di contenere gli altri colori, non di annientarli come aveva fatto Malfoy. Dell’alcova calda e accogliente era rimasta la capacità di trasformare la codardia di un ragazzino in un uomo, in modo talmente perfetto da poter replicare – anni dopo – la trasmutazione: assorbendo lei stessa il calore che le veniva concesso, aveva scoperto cosa fosse l’amore.
Quello in cui non si offre soltanto ma si riceve, come durante lo scambio dei doni di Yule sotto l’albero.
O quello di un bacio rubato sotto il vischio.


Note dell'autrice. Storia scritta per il Natale 2008, che vi ripropongo anche qui (^^) Buona lettura!
   
 
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