Questa storia ha avuto un passato... burrascoso, ecco. Avrebbe dovuto partecipare ad un concorso, poi è andato tutto alla malora (per usare un francesismo), appena l'ho scritta l'ho amata, adesso mica tanto. XD E' stata rivista, ampliata, corretta e ormai era tempo che lasciasse il mio pc, tipo pulcino che vola via dal nido o qualcosa del genere.
Sto divagando. Ma tanto le note autore non le legge nessuno. *fischietta*
Spero piaccia,
Red.
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È successo una volta, una volta sola, ma il cielo si è inchinato ed ha toccato la terra. Durò un attimo, forse nessuno se ne accorse, ma per qualche breve istante non ci fu più nulla sulla terra: tutto fu appiattito, disintegrato senza dolore.
Nessun albero, nessuna luce, nessuna casa, solo silenzio.
In una notte, per una volta, il silenzio.
Nessuno se n’è accorto e nessuno ha visto, semplicemente perché non c’era nulla da vedere. Non c’era più nulla da vedere e nessuno che avrebbe potuto accorgersi di tutta quell’assenza di cose.
Tutto distrutto e ridotto in centinaia di molecole, nell’attimo in cui nemmeno un filo d’aria divideva il cielo dalla terra.
Poi la luce, le stelle, e un respiro forte che sembrava quasi vento. Un’esplosione di tutta quella vita schiacciata, come se fosse un nuovo inizio, una nuova nascita.
Nessuno l’ha visto, ma non per questo non è accaduto.
Ninna
nanna meccanica.
C’era un silenzio ovattato nel bosco, umido e la luce filtrava opaca dalle foglie verdi, in spicchi di luce che sembravano lame polverose.
Lucas camminava sicuro nei piccoli sentieri creati dagli animali di passaggio, giocava con le gocce di rugiada sparse sulle foglie, dirigendosi verso lo spiazzo erboso che per troppe volte aveva visto lui e i suoi giochi solitari.
Quella notte non aveva dormito molto perché aveva sentito i suoi genitori urlare forte nell’altra stanza, così forte che nemmeno schiacciare il cuscino attorno alle orecchie gli aveva impedito di sentirli. Poi era venuto a piovere, era caduta tanta acqua, tanti fulmini e anche se i suoi genitori avevano smesso di urlare, Lucas non era più riuscito a dormire.
Cercava di districarsi da un cespuglio di more selvatiche quando lo vide: c’era un ragazzo seduto ai piedi dell’albero sotto il quale era abituato a giocare. Era un ragazzo giovane, non dimostrava più di vent’anni, con i capelli castani e gli occhi socchiusi, sembrava dormisse.
Si fermò, indeciso su cosa fare, non aveva mai visto nessuno in quel bosco e sua madre gli aveva ripetuto spesso di non dar confidenza agli sconosciuti, ma il ragazzo forse dormiva, che male c’era a dare un’occhiata?
Forte della sua decisione si avvicinò piano, cercando di non fare rumore e restando semi nascosto tra l’ombra degli alberi. Così da vicino vide che il suo volto pallido era sporco di terra e che profonde occhiaie gli segnavano il volto.
Forse era così stanco da aver deciso di addormentarsi lì, appoggiato a un tronco? Chissà dove stava andando… si era perso?
“Ciao.”
La voce di quello strano ragazzo l’aveva fatto sussultare, sentì il cuore battere più forte nel petto.
“Sei tu il bambino che viene a giocare qui?” Lucas sgranò gli occhi, ancora più impaurito: non c’era mai nessuno nel bosco, come faceva a saperlo?
Il ragazzo sembrò capire i suoi dubbi, “qualche volta vengo anch’io qui e ti ho visto,” spiegò.
“Oh,” replicò Lucas un po’ meno impaurito, “sì, sono io.”
Il ragazzo sorrise dolcemente, i suoi occhi avevano una singolare forma all’ingiù, come se fossero sempre tristi, ed erano di un caldo color castano.
“Sei caduto?” gli chiese, avvicinandosi un poco e indicando vagamente le ombre di terra sul suo volto.
Il ragazzo lo guardò per un attimo e i suoi occhi, visti da vicino, sembravano ancora più tristi. Si passò lentamente una mano sul volto, pulendosi alla bell’e meglio. “Sì.”
“Ti sei fatto male?”
“Sì,” ripeté, poi aprì la bocca, come per dire qualcos’altro, ma la chiuse poco dopo limitandosi a guardarlo.
Lucas spostò il peso del corpo da un piede all’altro, indeciso su cosa fare, il ragazzo continuava a guardarlo, assorto e incuriosito. Si avvicinò ancora un poco e si sedette per terra, guardandosi intorno.
“Come ti chiami?” sentì chiedersi.
“Lucas,” l’altro annuì solo, come se già sapesse. “E tu?”
“Delial.”
“È uno strano nome,” commentò il bambino, pensando che di quel ragazzo fosse tutto strano.
“Sì,” ripeté per la terza volta.
Rimasero un po’ in silenzio, Lucas a chiedersi se l’unica cosa che sapesse dire quel ragazzo fosse “sì” e Delial a guardarsi intorno con curiosità, come se tutto gli fosse nuovo. Sembrava che, tra i due, il bambino fosse proprio lui. Lucas lo osservò guardare stupito una farfalla e poi corrucciarsi quando, cercando di afferrarla, questa scappò.
Il bambino ridacchiò.
“Perché ridi?”
“Sei buffo,” rispose, poi arrossì, capendo di essere stato maleducato. “Non volevo offenderti,” disse in fretta, un po’ in colpa, “è che… non so…” arrossì ancora di più, non sapendo bene che dire.
Delial sorrise di nuovo, “non mi sono offeso” disse subito. “Credo anch’io di essere… buffo.” Soppesò l’ultima parola con attenzione, come se non l’avesse mai pronunciata.
“Davvero?”
Il ragazzo annuì.
“Meno male,” disse tirando un sospiro di sollievo. “Io adesso devo andare,” si lamentò alzandosi in piedi. “Domani sarai di nuovo qui?” chiese speranzoso.
“Sì.”
Lucas sorrise, “allora a domani!”
Delial annuì, “sì, domani” e sorrise anche lui, in quel suo modo triste e dolce insieme.
Corse verso casa, accorgendosi solo in quel momento di esser stato via più tempo del previsto, non si voltò a guardarlo, ma sentì che il ragazzo lo osservava andare via.
Cercò di fare più in fretta possibile, attento a non far arrabbiare sua madre, ma tornato a casa non trovò nessuno, solo il silenzio.
Salì nella sua piccola camera e prese un vecchio carillion – l’unico regalo mai ricevuto – da sotto il letto. Era grande come un cofanetto e di legno, un tempo avrebbe dovuto vantare una bella smaltatura brillante, ma ormai non ne era rimasta più molta.
Lo aprì sedendosi sul letto e subito una ninna nanna meccanica partì, ma suonava male, perdeva qualche nota.
Lucas chiuse gli occhi e l’ascoltò perché di silenzi ne aveva sentiti abbastanza.
***
Il giorno dopo, appena sveglio, il primo pensiero fu di andare da Delial.
La sua casa era lontana da quelle del villaggio e suo padre non aveva mai voluto che frequentasse la scuola, quindi di amici non ne aveva.
Lucas era cresciuto da solo, lontano da tutti, come se dovesse restare nascosto. Una volta aveva voluto chiedere spiegazioni a suo padre, ma lui gli aveva urlato contro, dicendogli di non chiamarlo ‘papà’. Sua madre era scoppiata a piangere e lui era fuggito nel bosco.
Tirò su col naso, al ricordo, ma non pianse. Forse aveva trovato il suo primo amico e non era il caso di essere tristi.
Corse via appena possibile e i rimproveri di sua madre gli giunsero ovattati, mentre raggiungeva lo spiazzo erboso nel quale non sarebbe più stato da solo.
Infatti Delial era lì, praticamente nella stessa posizione del giorno prima, lo raggiunse col fiatone e lo salutò a stento, piegandosi per recuperare il fiato.
“Perché respiri così?” gli chiese, corrugando le sopracciglia.
Lucas sbuffò una risata, “perché ho corso,” spiegò, “quando si corre per troppo tempo viene il fiatone.”
“Oh.” Sbatté le palpebre un paio di volte, assimilando il concetto. “Perché hai corso?”
“Per…” tentennò un attimo. “Perché volevo chiederti una cosa.”
“Cosa?”
Lucas prese un respiro profondo, per farsi coraggio. “Vuoi essere mio amico?” chiese tutto d’un fiato.
Delial lo guardò incuriosito. “Amico?” il bambino annuì. “Che cos’è un amico?”
“Un amico…” Il bambino si perplesse, a dir la verità non lo sapeva bene neanche lui cosa fosse un amico. “Beh, due amici giocano insieme.” Concluse e sorrise a quel buffo ragazzo che forse non aveva avuto nessun amico, proprio come lui.
L’altro gli sorrise di rimando e annuì, “va bene”.
Lucas rise e lo abbracciò forte, così felice da dimenticarsi che quel ragazzo lo conosceva da solo un giorno, l’altro rimase fermo, forse non sapeva cosa fare, ma il calore del suo corpo era vero, era vivo e tanto gli bastava.
Un
amico.
***
Per quello
che ne sapeva Lucas, ed era ben poco, gli amici si vedevano tutti i
giorni e
così iniziò a fare. Ogni giorno, in quello
spiazzo, per settimane, incontrava
Delial e gli insegnava a giocare,
una volta lo fece ridere e si sentì felice, quasi orgoglioso.
“Da
dov’è che
vieni?” gli chiese un giorno, incuriosito da lui.
“Da lontano.”
“Lontano,
quanto?”
“Tanto
lontano e da… tanto in alto.”
“Tanto in
alto?” chiese il bambino senza capire. “Come una
montagna?”
“Sì,”
sorrise, “come una montagna. Così in
alto che forse finisci per guardare
le persone così: dall’alto in basso.” Disse piano.
“Non ho
capito.” Si corrucciò il bambino.
Il ragazzo
sorrise di nuovo, con più tristezza del solito.
“Non è importante.”
Lucas mise su
il broncio, poi chiese:“ è per questo che te ne
sei andato? Eri troppo in
alto?”
Delial annuì,
“faceva anche troppo freddo.”
“Era sempre
inverno?”
“Era come se
lo fosse sempre, sì.”
Il bambino
annuì, pensava di capire ora, ma Delial era sicuro che non
capisse affatto,
altrimenti se ne sarebbe dovuto andare.
***
Qualche
giorno dopo Delial vide dei lividi sul braccio del più
piccolo, gli sembrava
che fosse stato strattonato con forza e s’incupì;
indicandoli chiese cosa gli
fosse successo, ma Lucas non voleva parlarne, l’unica cosa
che riuscì a dire
fu:“ papà è sempre
arrabbiato.”
Quel giorno
giocarono molto e parlarono poco, il ragazzo non fece domande, ma il
giorno
dopo fu Lucas a porne una.
“Che cosa
vuol dire ‘puttana’?” chiese con
ingenuità, stropicciandosi le mani, a disagio.
“Lo so che è una parola brutta, ma non so cosa
vuol dire.”
“Chi l’ha
detto?”
Lucas fece un
respiro profondo, tremolante “mio padre lo dice sempre a mia
madre” rispose, “a
me dice che non posso chiamarlo ‘papà’
perché non sono suo figlio.”disse piano,
come se dicendolo più forte potesse farsi più
male.
Delial socchiuse
gli occhi, accusando malamente il dolore del bambino. Era colpa sua lo
sapeva,
solo sua.
Passò una
mano sui capelli del bambino e poi l’abbracciò,
imitando i gesti compiuti da Lucas
stesso il giorno in cui lui aveva acconsentito a diventare suo amico.
Lo sentì
singhiozzare e piangere, ma farlo con discrezione, quasi non avesse il
permesso
di piangere.
“Andrà tutto
bene,” disse con voce rassicurante di Delial, “ci
penserò io.”
Lucas voleva
dirgli che forse nessuno sarebbe riuscito a
sistemare le cose, ma non riusciva a parlare, solo a
piangere.
Il ragazzo
gli accarezzava la testa, piano, come se avesse paura di fargli male,
come
fosse di vetro e stesse per spezzarsi.
Quando
l’abbraccio si sciolse, il ragazzo aveva preso una decisione
e i suoi occhi
erano ancora più tristi, ma Lucas non se ne accorse
perché i suoi, di occhi,
erano ancora appannati di lacrime.
Asciugandoseli,
il bambino chiese: “Tu a casa non torni mai?”
“Non posso.”
“Perché?”
“Io e la
mia…” si fermò un attimo
“famiglia non andavamo molto d’accordo”
concluse.
“Dicevano che mi preoccupavo troppo per le persone.”
Lucas si
perplesse, “ma questo non è un male!”
esclamò, “Con me sei sempre buono.” Il
ragazzo sorrise grato. “Sai… sembri un
angelo.”
Delial si
irrigidì d’un botto, a disagio, ma Lucas non se ne
accorse.
“Lo so che
gli angeli non esistono,” continuò un
po’ imbarazzato, “ma se esistessero
sarebbero buoni, no? Come te!”
Il ragazzo
sorrise, di un sorriso senza tristezza e gli accarezzò la
testa. “Grazie,”
disse solo e Lucas gli rivolse un sorriso sdentato e un po’
imbarazzato.
Quando quel
giorno lo guardò andare via, cercò di mandare
bene alla memoria il suo volto e
il suo sorriso, ripromettendosi che mai avrebbe dimenticato quel
bambino che
non sapeva di avere tutte le ragioni del mondo per essere triste.
***
Quella notte
la pioggia cadde con forza, arrabbiata, e il mondo di nuovo si
schiacciò,
plasmandosi tra le dita di un ragazzo, ma, ancora una volta, senza
dolore.
In una casa
fuori dal villaggio, il passato cambiò, l’uomo che
non poteva avere figli fu
curato e il bambino chiamato Lucas nacque nella gioia. Delial
rimediò al
miracolo che aveva compiuto, nel dare alla coppia il figlio tanto
voluto, senza
sapere che avrebbe dato loro solo tanto dolore.
“È troppo facile
rimediare agli errori. Avresti dovuto capire tempo fa che non dovresti
curarti
così tanto degli umani. Il loro destino è scritto
e così deve restare.”
Il ragazzo non
si voltò, “me ne sono andato perché non
volevo più ascoltarvi e non ho cambiato
idea, Riel.”
“Se non
tornerai più perderai le ali,” commentò
l’altro e non sembrava dispiaciuto per
lui, solo inorridito.
Delial
sorrise appena e alzò le spalle, “sono stanco di
volare.” L’altro angelo lo
guardò come se fosse pazzo. “A volare
così in alto non avevo mai visto una
farfalla.”
“Cosa te ne
fai di una farfalla?” lo denigrò Riel, ormai
convinto della follia di suo
fratello.
“Adesso si
dimenticherà di me,” mormorò il
ragazzo, senza dargli peso “non è mai andato
nel bosco a giocare e non mi ha mai trovato. Ora ha degli amici. I suoi
genitori lo amano e suo padre non ha mai pensato che non fosse suo
figlio, sua
madre non viene insultata e nessuno ha mai litigato.”
Le sue dita
si mossero veloci e
precise come quelle
di un pianista e poi le stelle, la pioggia, tutto tornò alla
vita con un
respiro forte.
Il ragazzo si
sedette sotto l’albero nello spiazzo erboso. “Sei
pazzo,” lo accusò Riel, “lui
non sa chi sei, cosa ti rimane ora?”
“Lucas mi ha
detto che sono un angelo.”
“È quello che
sei!” esclamò esasperato. Delial sorrise e scosse
il capo, l’altro non capiva.
“Sono un angelo e sono un suo amico.”
“Perderai le
ali,” gli ricordò, “ e quel bambino non
saprà mai nulla di te. Hai perso
tutto.”
Il ragazzo
sorrise e scosse il capo, di nuovo.
***
In una casa
poco lontana da un villaggio, abita un bambino.
C’è un carillion accanto al
letto, non è vecchio e poco smaltato, ma nuovo e brillante.
La sua ninna è
dolce e malinconica insieme.
Al suo
interno c’è una piccola statuina che raffigura un
angelo dagli occhi all’ingiù
e il viso sporco di terra, il bambino che lo possiede si è
chiesto spesso perché
il suo viso sia sporco e perché i suoi occhi siano
così tristi.
Qualche
volta
ha la sensazione di saperlo, di aver conosciuto una persona del
genere… ma
poi, ad ascoltare una ninna nanna così
dolce, si addormenta e sogna di boschi umidi di pioggia senza sapere
perché.