Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
Ricorda la storia  |      
Autore: Red S i n n e r    21/12/2012    0 recensioni
È successo una volta, una volta sola, ma il cielo si è inchinato ed ha toccato la terra.
Durò un attimo, forse nessuno se ne accorse, ma per qualche breve istante non ci fu più nulla sulla terra: tutto fu appiattito, disintegrato senza dolore.
Nessun albero, nessuna luce, nessuna casa, solo silenzio.
In una notte, per una volta, il silenzio.
Nessuno se n’è accorto e nessuno ha visto, semplicemente perché non c’era nulla da vedere. Non c’era più nulla da vedere e nessuno che avrebbe potuto accorgersi di tutta quell’assenza di cose.
Tutto distrutto e ridotto in centinaia di molecole, nell’attimo in cui nemmeno un filo d’aria divideva il cielo dalla terra.
Poi la luce, le stelle, e un respiro forte che sembrava quasi vento. Un’esplosione di tutta quella vita schiacciata, come se fosse un nuovo inizio, una nuova nascita.
Nessuno l’ha visto, ma non per questo non è accaduto.
- La storia di un bambino che giocava da solo, un ragazzo dagli occhi tristi e un vecchio carillon.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Questa storia ha avuto un passato... burrascoso, ecco. Avrebbe dovuto partecipare ad un concorso, poi è andato tutto alla malora (per usare un francesismo), appena l'ho scritta l'ho amata, adesso mica tanto. XD E' stata rivista, ampliata, corretta e ormai era tempo che lasciasse il mio pc, tipo pulcino che vola via dal nido o qualcosa del genere.

Sto divagando. Ma tanto le note autore non le legge nessuno. *fischietta*

Spero piaccia,

Red.
____________________________________________________________________







È successo una volta, una volta sola, ma il cielo si è inchinato ed ha toccato la terra. Durò un attimo, forse nessuno se ne accorse, ma per qualche breve istante non ci fu più nulla sulla terra: tutto fu appiattito, disintegrato senza dolore.

Nessun albero, nessuna luce, nessuna casa, solo silenzio.

In una notte, per una volta, il silenzio.

Nessuno se n’è accorto e  nessuno ha visto, semplicemente perché non c’era nulla da vedere. Non c’era più nulla da vedere e nessuno che avrebbe potuto accorgersi di tutta quell’assenza di cose.

Tutto distrutto e ridotto in centinaia di molecole, nell’attimo in cui nemmeno un filo d’aria divideva il cielo dalla terra.

Poi la luce, le stelle, e un respiro forte che sembrava quasi vento. Un’esplosione di tutta quella vita schiacciata, come se fosse un nuovo inizio, una nuova nascita.

 

Nessuno l’ha visto, ma non per questo non è accaduto.

 




Ninna nanna meccanica.

 




C’era un silenzio ovattato nel bosco, umido e la luce filtrava opaca  dalle foglie verdi,  in spicchi di luce che sembravano lame polverose.

Lucas camminava sicuro nei piccoli sentieri creati dagli animali di passaggio, giocava con le gocce di rugiada sparse sulle foglie, dirigendosi verso lo spiazzo erboso che per troppe volte aveva visto lui e i suoi giochi solitari.

Quella notte non aveva dormito molto perché aveva sentito i suoi genitori urlare forte nell’altra stanza, così forte che nemmeno schiacciare il cuscino attorno alle orecchie gli aveva impedito di sentirli. Poi era venuto a piovere, era caduta tanta acqua, tanti fulmini e anche se i suoi genitori avevano smesso di urlare, Lucas non era più riuscito a dormire.

Cercava di districarsi da un cespuglio di more selvatiche quando lo vide: c’era un ragazzo seduto ai piedi dell’albero sotto il quale era abituato a giocare. Era un ragazzo giovane, non dimostrava più di vent’anni, con i capelli castani e gli occhi socchiusi, sembrava dormisse.

Si fermò, indeciso su cosa fare, non aveva mai visto nessuno in quel bosco e sua madre gli aveva ripetuto spesso di non dar confidenza agli sconosciuti, ma il ragazzo forse dormiva, che male c’era a dare un’occhiata?

Forte della sua decisione si avvicinò piano, cercando di non fare rumore e restando semi nascosto tra l’ombra degli alberi. Così da vicino vide che il suo volto pallido era sporco di terra e che profonde occhiaie gli segnavano il volto.

Forse era così stanco da aver deciso di addormentarsi lì, appoggiato a un tronco? Chissà dove stava andando…  si era perso?

“Ciao.”

La voce di quello strano ragazzo l’aveva fatto sussultare, sentì il cuore battere più forte nel petto.

“Sei tu il bambino che viene a giocare qui?” Lucas sgranò gli occhi, ancora più impaurito: non c’era mai nessuno nel bosco, come faceva a saperlo?

Il ragazzo sembrò capire i suoi dubbi, “qualche volta vengo anch’io qui e ti ho visto,” spiegò.

“Oh,” replicò Lucas un po’ meno impaurito, “sì, sono io.”

Il ragazzo sorrise dolcemente, i suoi occhi avevano una singolare forma all’ingiù, come se fossero sempre tristi, ed erano di un caldo color castano.

“Sei caduto?” gli chiese, avvicinandosi un poco e indicando vagamente le ombre di terra sul suo volto.

Il ragazzo lo guardò per un attimo e i suoi occhi, visti da vicino, sembravano  ancora più tristi. Si passò lentamente una mano sul volto, pulendosi alla bell’e meglio. “Sì.”

 “Ti sei fatto male?”

“Sì,” ripeté, poi aprì la bocca, come per dire qualcos’altro, ma la chiuse poco dopo limitandosi a guardarlo.

Lucas spostò il peso del corpo da un piede all’altro, indeciso su cosa fare, il ragazzo continuava a guardarlo, assorto e incuriosito. Si avvicinò ancora un poco e si sedette per terra, guardandosi intorno.

“Come ti chiami?” sentì chiedersi.

“Lucas,” l’altro annuì solo, come se già sapesse. “E tu?”

“Delial.”

“È uno strano nome,” commentò il bambino, pensando che di quel ragazzo fosse tutto strano.

“Sì,” ripeté per la terza volta.

Rimasero un po’ in silenzio, Lucas a chiedersi se l’unica cosa che sapesse dire quel ragazzo fosse “sì” e Delial a guardarsi intorno con curiosità, come se tutto gli fosse nuovo. Sembrava che, tra i due, il bambino fosse proprio lui. Lucas lo osservò guardare stupito una farfalla e poi corrucciarsi quando, cercando  di afferrarla, questa scappò.

Il bambino ridacchiò.

“Perché ridi?”

“Sei buffo,” rispose, poi arrossì, capendo di essere stato maleducato. “Non volevo offenderti,” disse in fretta, un po’ in colpa, “è che… non so…” arrossì ancora di più, non sapendo bene che dire.

Delial sorrise di nuovo, “non mi sono offeso” disse subito. “Credo anch’io di essere… buffo.” Soppesò l’ultima parola con attenzione, come se non l’avesse mai pronunciata.

“Davvero?”

Il ragazzo annuì.

“Meno male,” disse tirando un sospiro di sollievo. “Io adesso devo andare,” si lamentò alzandosi in piedi. “Domani sarai di nuovo qui?” chiese speranzoso.

“Sì.”

Lucas sorrise, “allora a domani!”

Delial annuì, “sì, domani” e sorrise anche lui, in quel suo modo triste e dolce insieme.

 

Corse verso casa, accorgendosi solo in quel momento di esser stato via più tempo del previsto, non si voltò a guardarlo, ma sentì che il ragazzo lo osservava andare via.

Cercò di fare più in fretta possibile, attento a non far arrabbiare sua madre, ma tornato a casa non trovò nessuno, solo il silenzio.

Salì nella sua piccola camera e prese un vecchio carillion – l’unico regalo mai ricevuto – da sotto il letto. Era grande come un cofanetto e di legno, un tempo avrebbe dovuto vantare una bella smaltatura brillante, ma ormai non ne era rimasta più molta.

Lo aprì sedendosi sul letto e subito una ninna nanna meccanica partì, ma suonava male, perdeva qualche nota.

Lucas chiuse gli occhi e l’ascoltò perché di silenzi ne aveva sentiti abbastanza.

 



***



Il giorno dopo, appena sveglio, il primo pensiero fu di andare da Delial.

La sua casa era lontana da quelle del villaggio e suo padre non aveva mai voluto che frequentasse la scuola, quindi di amici non ne aveva.

Lucas era cresciuto da solo, lontano da tutti, come se dovesse restare nascosto. Una volta aveva voluto chiedere spiegazioni a suo padre, ma lui gli aveva urlato contro, dicendogli di non chiamarlo ‘papà’. Sua madre era scoppiata a piangere e lui era fuggito nel bosco.

Tirò su col naso, al ricordo, ma non pianse. Forse aveva trovato il suo primo amico e  non era il caso di essere tristi.

Corse via appena possibile e i rimproveri di sua madre gli giunsero ovattati, mentre raggiungeva lo spiazzo erboso nel quale non sarebbe più stato da solo.

Infatti Delial era lì, praticamente nella stessa posizione del giorno prima, lo raggiunse col fiatone e lo salutò a stento, piegandosi per recuperare il fiato.

“Perché respiri così?” gli chiese, corrugando le sopracciglia.

Lucas sbuffò una risata, “perché ho corso,” spiegò, “quando si corre per troppo tempo viene il fiatone.”

“Oh.” Sbatté le palpebre un paio di volte, assimilando il concetto. “Perché hai corso?”

“Per…” tentennò un attimo. “Perché volevo chiederti una cosa.”

“Cosa?”

Lucas prese un respiro profondo, per farsi coraggio. “Vuoi essere mio amico?” chiese tutto d’un fiato.

Delial lo guardò incuriosito. “Amico?” il bambino annuì. “Che cos’è un amico?”

“Un amico…” Il bambino si perplesse, a dir la verità non lo sapeva bene neanche lui cosa fosse un amico. “Beh, due amici giocano insieme.” Concluse e sorrise a quel buffo ragazzo che forse non aveva avuto nessun amico, proprio come lui.

L’altro gli sorrise di rimando e annuì, “va bene”.

Lucas rise e lo abbracciò forte, così felice da dimenticarsi che quel ragazzo lo conosceva da solo un giorno, l’altro rimase fermo, forse non sapeva cosa fare, ma il calore del suo corpo era vero, era vivo e tanto gli bastava.

Un amico.



***

 

Per quello che ne sapeva Lucas, ed era ben poco, gli amici si vedevano tutti i giorni e così iniziò a fare. Ogni giorno, in quello spiazzo, per settimane,  incontrava Delial e gli insegnava a giocare, una volta lo fece ridere e si sentì felice, quasi orgoglioso.

“Da dov’è che vieni?” gli chiese un giorno, incuriosito da lui.

“Da lontano.”

“Lontano, quanto?”

“Tanto lontano e da… tanto in alto.”

“Tanto in alto?” chiese il bambino senza capire. “Come una montagna?”

“Sì,” sorrise, “come una montagna. Così in alto che forse finisci per guardare le persone così: dall’alto in basso.” Disse piano.

“Non ho capito.” Si corrucciò il bambino.

Il ragazzo sorrise di nuovo, con più tristezza del solito. “Non è importante.”

Lucas mise su il broncio, poi chiese:“ è per questo che te ne sei andato? Eri troppo in alto?”

Delial annuì, “faceva anche troppo freddo.”

“Era sempre inverno?”

“Era come se lo fosse sempre, sì.”

Il bambino annuì, pensava di capire ora, ma Delial era sicuro che non capisse affatto, altrimenti se ne sarebbe dovuto andare.

 



***

 

Qualche giorno dopo Delial vide dei lividi sul braccio del più piccolo, gli sembrava che fosse stato strattonato con forza e s’incupì; indicandoli chiese cosa gli fosse successo, ma Lucas non voleva parlarne, l’unica cosa che riuscì a dire fu:“ papà è sempre arrabbiato.”

Quel giorno giocarono molto e parlarono poco, il ragazzo non fece domande, ma il giorno dopo fu Lucas a porne una.

“Che cosa vuol dire ‘puttana’?” chiese con ingenuità, stropicciandosi le mani, a disagio. “Lo so che è una parola brutta, ma non so cosa vuol dire.” 

“Chi l’ha detto?”

Lucas fece un respiro profondo, tremolante “mio padre lo dice sempre a mia madre” rispose, “a me dice che non posso chiamarlo ‘papà’ perché non sono suo figlio.”disse piano, come se dicendolo più forte potesse farsi più male.

Delial socchiuse gli occhi, accusando malamente il dolore del bambino. Era colpa sua lo sapeva, solo sua.

Passò una mano sui capelli del bambino e poi l’abbracciò, imitando i gesti compiuti da Lucas stesso il giorno in cui lui aveva acconsentito a diventare suo amico. Lo sentì singhiozzare e piangere, ma farlo con discrezione, quasi non avesse il permesso di piangere.

“Andrà tutto bene,” disse con voce rassicurante di Delial, “ci penserò io.”

Lucas voleva dirgli che forse nessuno sarebbe riuscito a  sistemare le cose, ma non riusciva a parlare, solo a piangere.

Il ragazzo gli accarezzava la testa, piano, come se avesse paura di fargli male, come fosse di vetro e stesse per spezzarsi.

Quando l’abbraccio si sciolse, il ragazzo aveva preso una decisione e i suoi occhi erano ancora più tristi, ma Lucas non se ne accorse perché i suoi, di occhi, erano ancora appannati di lacrime.

Asciugandoseli, il bambino chiese: “Tu a casa non torni mai?”

“Non posso.”

“Perché?”

“Io e la mia…” si fermò un attimo “famiglia non andavamo molto d’accordo” concluse. “Dicevano che mi preoccupavo troppo per le persone.”

Lucas si perplesse, “ma questo non è un male!” esclamò, “Con me sei sempre buono.” Il ragazzo sorrise grato. “Sai… sembri un angelo.”

Delial si irrigidì d’un botto, a disagio, ma Lucas non se ne accorse.

“Lo so che gli angeli non esistono,” continuò un po’ imbarazzato, “ma se esistessero sarebbero buoni, no? Come te!”

Il ragazzo sorrise, di un sorriso senza tristezza e gli accarezzò la testa. “Grazie,” disse solo e Lucas gli rivolse un sorriso sdentato e un po’ imbarazzato.

Quando quel giorno lo guardò andare via, cercò di mandare bene alla memoria il suo volto e il suo sorriso, ripromettendosi che mai avrebbe dimenticato quel bambino che non sapeva di avere tutte le ragioni del mondo per essere triste.



***


 

Quella notte la pioggia cadde con forza, arrabbiata, e il mondo di nuovo si schiacciò, plasmandosi tra le dita di un ragazzo, ma, ancora una volta, senza dolore.

In una casa fuori dal villaggio, il passato cambiò, l’uomo che non poteva avere figli fu curato e il bambino chiamato Lucas nacque nella gioia. Delial rimediò al miracolo che aveva compiuto, nel dare alla coppia il figlio tanto voluto, senza sapere che avrebbe dato loro solo tanto dolore.

“È troppo facile rimediare agli errori. Avresti dovuto capire tempo fa che non dovresti curarti così tanto degli umani. Il loro destino è scritto e così deve restare.”

Il ragazzo non si voltò, “me ne sono andato perché non volevo più ascoltarvi e non ho cambiato idea, Riel.”

“Se non tornerai più perderai le ali,” commentò l’altro e non sembrava dispiaciuto per lui, solo inorridito.

Delial sorrise appena e alzò le spalle, “sono stanco di volare.” L’altro angelo lo guardò come se fosse pazzo. “A volare così in alto non avevo mai visto una farfalla.”

“Cosa te ne fai di una farfalla?” lo denigrò Riel, ormai convinto della follia di suo fratello.

“Adesso si dimenticherà di me,” mormorò il ragazzo, senza dargli peso “non è mai andato nel bosco a giocare e non mi ha mai trovato. Ora ha degli amici. I suoi genitori lo amano e suo padre non ha mai pensato che non fosse suo figlio, sua madre non viene insultata e nessuno ha mai litigato.”

Le sue dita si mossero veloci  e precise come quelle di un pianista e poi le stelle, la pioggia, tutto tornò alla vita con un respiro forte.

Il ragazzo si sedette sotto l’albero nello spiazzo erboso. “Sei pazzo,” lo accusò Riel, “lui non sa chi sei, cosa ti rimane ora?”

“Lucas mi ha detto che sono un angelo.”

“È quello che sei!” esclamò esasperato. Delial sorrise e scosse il capo, l’altro non capiva. “Sono un angelo e sono un suo amico.”

“Perderai le ali,” gli ricordò, “ e quel bambino non saprà mai nulla di te. Hai perso tutto.”

Il ragazzo sorrise e scosse il capo, di nuovo.

 



***


 

In una casa poco lontana da un villaggio, abita un bambino. C’è un carillion accanto al letto, non è vecchio e poco smaltato, ma nuovo e brillante. La sua ninna è dolce e malinconica insieme.

Al suo interno c’è una piccola statuina che raffigura un angelo dagli occhi all’ingiù e il viso sporco di terra, il bambino che lo possiede si è chiesto spesso perché il suo viso sia sporco e perché i suoi occhi siano così tristi.

Qualche volta ha la sensazione di saperlo, di aver conosciuto una persona del genere…  ma poi, ad ascoltare una ninna nanna così dolce, si addormenta e sogna di boschi umidi di pioggia senza sapere perché.

 

 

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni / Vai alla pagina dell'autore: Red S i n n e r