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Autore: Theredcrest    21/12/2012    1 recensioni
Attorno ad un pianeta lontano orbitano sette lune, sette satelliti che vegliano sulle luci della Città, immenso agglomerato abitato da alieni non troppo diversi da noi. Il fulgore della Città è l'unica cosa in grado di squarciare la vasta desolazione di questo mondo, immerso nelle tenebre eterne. Mentre le lune brillano, la Stella Oscura brucia distante. Le leggende la vogliono in grado di esprimere i desideri, ma nessuno osa farlo all'ombra della sua influenza malsana. Le superstizioni, tuttavia, non fermano un bambino dal farlo, Cor.
E un giorno, molti anni dopo, qualcosa cambia.
Genere: Guerra, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Secondo le nostre migliori menti, l'RV è un tipo di sostituto perfettamente riuscito, un'alternativa assolutamente non dissimile dalla vita reale. Avevo ascoltato credibili discorsi sulla sua perfezione molti anni prima e non avevo mai potuto scordarli per il modo in cui facevano sembrare la nostra condizione del tutto ordinaria, uguale a quella degli altri. Erano stati bravi a farcelo pensare, e noi avevamo voluto crederci per alleviare il peso della differenza. Se non noi, almeno io.
Adesso li avrei voluti sentire, gli illustri signori, a spiegarmi accuratamente che sentire l'aria della cupola in RV era come sentirla nella realtà.
Fossi stato ancora nella cella, avrei dato loro ragione. Ma adesso che ne ero fuori, mi accorgevo dei sottili cambi apportati dal passaggio virtuale a quello organico. Con l'RV l'ambiente mi sarebbe apparso senza alcun dubbio piacevole e salutare, un luogo in cui riposare in sicurezza. C'erano alberi da frutto rigogliosi, erba e posti a sedere in quantità ovunque posassi il mio sguardo. Elementi di distrazione che avrebbero limitato le osservazioni di qualsiasi animo obbiettivo.
Utilizzando l'interfaccia fisica invece si potevano percepire delle esatte stonature, delle interferenze con quelle che sarebbero state le mie solite sensazioni. Un risultato simile conduceva ad una sconosciuta percezione di pericolo che non riuscivo a spiegarmi o inquadrare. Sapevo di come andasse di pari passo col mio avanzare, ma non ero stato abituato a riconoscere a cosa fosse dovuta se non, forse, a livello istintivo.
Dall'entrata, mi introdussi nel percorso segnalato che portava al centro della biosfera. La strutturazione pianeggiante del suolo, anche se ricca di vegetazione, mi avvantaggiava in vista di eventuali minacce e da lì il sentiero che zigzagava nell'erba purpurea offriva il massimo della copertura visiva. Era una scelta strategica.
Ebbi prova della sua funzionalità quando sentii dei passi in corsa ancora prima di vederli. Da lontano, potei osservare qualcuno che si avvicinava. Riconobbi immediatamente le luci della tuta che io invece avevo tenuto spente, dopodiché il visore, anch'esso ben visibile nell'ombra offerta dalle fronde. Era un superstite. Non ero solo.
Giudicai questa notizia come la migliore dopo la mia liberazione.
Accesi le luci a mia volta per segnalare la mia presenza, fermandomi dov'ero. L'altro, un giovane filiforme e scattante, mi raggiunse poco dopo col fiatone.
«Finalmente sei arrivato. Che notizie ci porti dagli altri?»
Lo guardai confuso. Non avevo previsto ulteriori gruppi, semplicemente supponevo fossero stati tutti eliminati.
«Altri?»
«Dall'altra cupola. Hanno deciso cosa fare?»
«Fuori non c'è nessuno.» Non mi ascoltò. Andò avanti, insistendo.
«Si, ma che hanno detto?»
«Niente. Perché non c'è nessuno.»
Spazientito, incrociai le braccia. L'altro rimase colpito dalla risposta e dal silenzio successivo. Poi comprese.
«Non sei stato mandato dall'altra cupola.»
«No.»
«Allora da dove-»
«Da fuori.» Eloquente, diedi uno sguardo all'entrata e contai cinque secondi.
Fu il tempo esatto perché realizzasse la mia provenienza. Lo vidi inorridire.
«Non è possibile.»
«Perché?»
«Sono tutti morti, all'esterno. Avrebbero dovuto prenderti.» Parlava degli invasori, e mi domandai se li avesse visti. Avrei avuto molte domande da fargli in proposito, più tardi.
«Ma io sono qui. E sono vivo.»
«Forse ti sei accordato con loro.»
Mantenni la calma, pur desiderando di strozzarlo nel profondo. Mi chiesi dove fossero i blocchi sensoriali, in questo momento.
«Avrei dovuto?» gli risposi glaciale. Il ragazzo esitò.
«Ti devo portare da Pargon.»
Fece dietrofront e si rimise in marcia, badando a tenersi lontano da me mentre lo seguivo. Immagino avesse intuito che fosse meglio espormi al giudizio comune, piuttosto che arrischiarsi in una valutazione personale in tutta probabilità errata. Non avrei potuto biasimare un simile comportamento, sapendo che al suo posto avrei reagito nella sua esatta maniera, ma non sopportavo ugualmente la sua malcelata diffidenza. Pensai a come non fosse coerente coi dettami della società, ma preferii smentirmi in fretta: era preferibile immaginare di ritrovarsi con un soggetto totalmente prevedibile. Probabilmente, nonostante l'ovvietà della situazione, anche lui stava facendo lo stesso con me.
Mi portò oltre il percorso, inoltrandosi in una macchia di vegetazione che prima non avevo notato, più lontana e rigogliosa del previsto. Lo valutai come un buon posto in cui nascondersi, valutazione comprovata dalla successiva presenza dei primi soggetti vivi degni di questo termine: uomini, giovani ragazze e veterani che si avvicendavano per venire a prelevare le informazioni che non avevo, e che non potevo dare. La loro delusione fu cocente, non capendo perchè non parlassi e perché venissi scortato alla maniera di un prigioniero, ma presto si disinteressarono.
Arrivati nel folto, notai che gli alberi iniziavano a spaziarsi. Degli evidenti solchi nel terreno suggerivano lo spostamento di alcune pietre fittizie, solitamente usate per gli abbellimenti, laddove alcuni gruppi di persone sedevano, chiacchieravano e camminavano insieme in un'atmosfera quasi normale. Trovai interessante il loro tentativo di negazione della realtà, sicuramente più edificante del panico di due giorni prima, ma insufficiente: non avevano posti dove andare, famiglie in cui stare e il loro entusiasmo si sarebbe presto spento. Sarebbero scoppiate paure e disfunzioni, a meno il gruppo non avesse già trovato una propria individualità, dividendosi nei diversi ruoli necessaria alla sopravvivenza. Ero curioso al riguardo, ma prima potessi fare domande il ragazzo mi condusse altrove.
Finii davanti a tre soggetti stipati in un angolo, vicino ad alcuni arbusti nodosi. Le loro condizioni contrastavano apertamente con l'ambiente circostante, troppo colorato per le tute scolorite e troppo luminoso per i volti cupi che vedevo alzarsi su di me.
C'erano un uomo, una ragazza e un bambino. Riconobbi nei primi due lo sconosciuto che mi aveva urtato la spalla e la giovane che avevo risollevato da terra, nonostante avessi visto solo uno scorcio delle loro facce che non era stato registrato, mentre il terzo restava a me ignoto: la sua unica funzione, al momento, sembrava essere quella di prendersi cura della ragazza, con la tuta ancora più rovinata e calpestata di quando l'avevo vista in precedenza. Sembrava sfinita mentre il piccolo le districava i lunghi capelli neri.
L'uomo aveva alzato lo sguardo, il suo visore faceva brillare la calvizia e la corta barba di un rosso cupo. Pargon, probabilmente.
«Chi è questo? Quello dell'altra cupola?» lo sentii domandare alla mia scorta, dimostrando evidente insofferenza. L'altro rispose in fretta, preoccupato.
«No.»
«E allora chi? Sbrigati, moccioso.»
«Viene da fuori.»
«Ah, si? E come credi che sia arrivato qui, altrimenti?» Fece gesto di andare. «Smamma, ragazzino. Smettila di disturbarmi.»
«Ma...»
«Ho detto smamma. Non ho più bisogno di te.»
Il tono di minaccia era evidente, un'aggressività eccessiva che lo inquadrava come fuggitivo dal centro quarantena. Provai disappunto. Com'era possibile che un diverso fosse diventato l'attuale capo di questa comunità? Era possibile che avesse trasformato la sua massa fisica in un mezzo coercitivo, lontano dall'RV, ma non riuscii ad arrivare ad altre conclusioni. Il mio accompagnatore resistette solo pochi istanti, poi se ne andò trafelato. Il visore dell'uomo si posò su di me.
«Frena il cervello prima che ti fumi, ci serve ancora» mi consigliò con meno prepotenza. Notai i suoi avambracci e constatai la loro grandezza. Avevo premurato di mantenermi in buona forma fisica, ma lui...
«Siedi.»
Non obbiettai. Non avrei avuto nemmeno l'uno percento delle probabilità di uscirne vivo, altrimenti. Feci quello che mi era stato chiesto e rimasi in silenzio.
«Allora, vieni dall'esterno mi è stato detto. Vogliamo iniziare con le domande?»
Annuii.
«Bene, iniziamo dal nome. Io sono Pargon. Tu chi sei?»
«Cor» risposi atono.
«Cor? Non è un nome da tutti.» Ponderò per alcuni secondi. «Mi ricorda qualcosa... per caso, il magnate delle fibre?»
Si riferiva a mio padre. Annuii di nuovo.
«Sono il figlio.»
Soddisfatto delle risposte, l'altro si strofinò le mani.
«Bene, finalmente qualcuno di utile. E ora passiamo ai fatti. Dove ti sei nascosto per tutto questo tempo?»
Diedi una breve occhiata a lui e poi agli altri, sentendomi affatto confortato dalla presenza dei due concittadini. Quello di Pargon sembrava un interrogatorio sotto qualsiasi punto di vista fosse a mia disposizione in quel momento.
Non lo gradivo.
«Fuori» risposi, rimanendo sul vago.
Lo feci male e volontariamente. L'irritazione gli tornò addosso, lo vidi dal suo arricciare le labbra.
«Scusa, hai detto?»
«Fuori.»
Sorrisi, ripetendolo. Non avrei sopportato la sua arroganza, fino a prova contraria eravamo ancora individui di una società civile. Pargon sembrava averlo dimenticato.
«Ti stai prendendo gioco di me» mi corrispose con un ringhio.
«E continuerò a farlo.»
«Per quale motivo, a parte sputare i tuoi denti per terra di qui a dieci minuti?»
Più grossi sono, più rumore fanno quando cadono. Sperai che il vostro vecchio detto fosse vero.
«Spiegami con quali mezzi sei passato dall'essere nulla ad essere il capo di queste persone. Avrai la tua risposta.»
Devo ammetterlo, mi sentii meschino. Ma era un senso di meschinità positiva, malgrado sapessi che di lì a poco mi sarebbe saltato addosso.
Lo vidi alzarsi dalla sua posizione. Non mi mossi e attesi placidamente che mi venisse a malmenare. Forse le Sette Sorelle in quel momento mi ascoltarono, o forse fu solo fortuna, ma di fatto non ricevetti mai la dose di pugni che mi meritavo.
La ragazza stesa a terra allungò il braccio e lo afferrò per la caviglia mentre si avviava verso di me, pronto a colpire. Sembrò distrarlo in quell'attimo, tanto che portò la sua attenzione su di sé. Scosse la testa, muta col bambino al fianco, e all'improvviso seppi che la rabbia di Pargon era sparita all'improvviso.
Glielo vidi impresso in faccia. Se n'era andata.
Pargon tornò a sedere. Quando mi si rivolse lo fece senza scusarsi, ma con un tono diverso.
«Parlami di cosa ti è successo là fuori.»
Lo trovai brusco, ma accettabile, e alla fine conclusi che avrei comunque dovuto collaborare per il possibile bene comune nonché mio soddisfacimento futuro. Così iniziai a parlare.
«Durante l'attacco mi sono rifugiato nella zona buia.» Lo sentii rabbrividire, in pochi si arrischiavano così lontani dalla luce. Fui stranamente compiaciuto di potermene vantare alla vostra maniera. «Ho costeggiato la Città, sono andato al cratere. Le pareti che lo circondano presentano pertugli adatti a nascondersi.»
«E perché sei tornato?» Pargon sembrava interessarsi alle mie motivazioni, cosa inusuale per un individuo normale. Gli altri avrebbero scansato simili domande credendo la risposta - molto simile ad un "per il bene comune" - fosse altamente scontata. Lui no.
Non ragionava nel concetto di insieme, ma come individuo distaccato dalla massa. Eppure, era a capo di quella piccola comunità dentro la cupola e sembrava gestirla bene. Com'era possibile conciliare egoismo e solidarietà insieme?
Lo facevano tutti i diversi? Lo facevo anch'io?
«Per vedere se fosse rimasto qualcuno.»
Ci fu un brontolio represso in risposta alla mia gelida compostezza.
«Quindi saresti tornato da un nascondiglio perfetto per pura gentilezza.»
«Ovviamente.»
Sorrisi, fingendomi modesto. In realtà ero tanto orgoglioso di quanto avevo fatto da solo nel panico e nel buio che, fossi stato il corrispondente di un vostro pavone, a quest'ora avrei iniziato ad agitarmi in una profusione di ruote colorate. Fortunatamente non potevo, perché passammo subito ai fatti di natura più concreta.
Lo sguardo di Pargon si indurì, dovendo toccare un argomento così delicato.
«Com'è lo stato della Città all'esterno della cupola?»
Proiettai nel visore i dati relativi alle registrazioni, in modo da avere una panoramica esaustiva, ed espansi un ologramma della Città.
«Le periferie sono state devastate, solo il sessantacinque percento degli edifici rimane usufruibile. Il quaranta percento delle zone è stato privato d'energia. Dei centri, rimane operativo il settanta percento del totale. Nel nucleo dell'agglomerato l'agibilità aumenta al novantacinque percento e la fornitura d'energia risulta regolare. Molte stringhe di trasporto funzionano ancora in questa sezione.»
Evidenziai i punti caldi, trasmettendo le informazioni rilevanti.
«Sugli invasori?»
«Nessuna traccia della loro presenza. Non sembrano essersi stabiliti nell'area.»
«I campi?» Aprii un'altra panoramica.
«Intoccati. Le colture risultano in ottime condizioni.» Mi fece un cenno. Decompressi l'immagine e gliela inviai.
«Le altre cupole?»
«Non erano sul mio percorso.»
«Hai delle valutazioni generali sulla situazione?»
Mi prese alla sprovvista, principalmente perché la sua era la richiesta di un consiglio, cosa del tutto inaspettata. Temporeggiai all'inizio, dopodiché chiusi l'ologramma con un sospiro.
«La cupola è una struttura resistente, ma non reggerà ad un massivo attacco. Sarebbe vantaggioso raccogliere il necessario dalle strutture e condurre quello che rimane della popolazione ai campi nel minor tempo possibile.»
Pargon trovò le mie conclusioni ragionevoli.
«É fattibile» rispose. «Ma prima dovremmo recuperare gli altri gruppi.»
«La loro posizione?»
Si strofinò il mento, pensando.
«Le altre tre cupole di questa zona. Ci siamo divisi quando è partito l'attacco, abbiamo visto altri correre in quelle direzioni. Successivamente abbiamo mantenuto le comunicazioni a distanza aperte. Ci avevano avvertito che avrebbero mandato qualcuno a raggiungerci...»
«...e avete pensato fossi io.»
«Si, era legittimo.»
«Ma perché avrebbero dovuto mandare qualcuno?»
Pargon gettò un'occhiata alle proprie spalle prima di tornare a me.
«Perché nella fretta siamo stati tutti sballottati da una parte e dall'altra. Noi abbiamo quattro medici e pochi feriti, mentre in alcune cupole la situazione è peggiore. L'inviato avrebbe fatto da scorta per i dottori da mandare alle altre strutture.»
Calcolai mentalmente la distanza dei quattro edifici.
«A quest'ora dovrebbe essere già arrivato.»
L'uomo annuì, condividendo le mie stesse preoccupazioni, annuendo.
«Il tuo arrivo è provvidenziale.»
Non era la risposta che mi aspettavo. Non mi piaceva il tono in cui l'aveva detto e non gradivo il come mi aveva osservato nel farlo. Incrociai le braccia, contrariato a quello che intuivo stesse per dirmi.
«Dobbiamo andarli a cercare, e tu ci puoi indicare come affrontare la strada.»
«"Dobbiamo"?» Speravo che parlasse di un ristretto gruppo di persone.
«Si, noi. Tutti.»
«In trenta? É un suicidio!» esclamai, affatto incline a seguire il suo ragionamento. «Siamo in numero troppo elevato per spostarci velocemente. Saremmo esposti a possibili attacchi!»
«Ma tu sei arrivato fin qui, no?»
«Si, ma io sono uno, non una folla.»
«Hai detto che fuori non ci sono nemici.»
«Ma non che non possano tornare.» Il mio livello di sopportazione già basso stava sprofondando verso il sottosuolo. Serrai i denti. «Una moltitudine non ha speranze di nascondersi, cadrebbe nel panico al primo cenno di pericolo. Gli invasori hanno già utilizzato questo metodo per disperderci, vuoi lasciarglielo fare di nuovo?»
«Ma non possiamo lasciare tutti qui» ribatté l'altro. «Dovremmo scegliere chi mandare, prima di tutto. E comunque pochi non basterebbero ad affrontare eventuali minacce all'esterno, finirebbero tutti morti. Un grande numero ha più probabilità di vedere dei sopravvissuti.»
«Senza contare che ci ritroveremmo daccapo arrivando ad un'altra cupola e dovendo scortare la gente al suo interno.» Dovevo ammetterlo, aveva una sua logica.
«Dovremmo procurarci qualcosa con cui combattere in caso di pericolo.»
«Hai un'idea?» gli chiesi. L'uomo, con la sua precedente aggressività, sembrava essere l'individuo adatto a questo scopo.
«Vedremo il da farsi. Ora dobbiamo organizzare la partenza.» Lo vidi mentre si alzava con una certa urgenza. Non potevo che essere d'accordo con lui, ma avevo ancora un'ultima domanda.
«Posso fare qualcosa, intanto?»
Si girò a guardarmi.
«Prepara un percorso sicuro.» Si trattenne un attimo sulla ragazza poco distante. «Dalle un occhio.»
Non trovai motivo d'obbiettare: annuii richiamando i dati, lasciando la cura della giovane al bambino. Dubitavo avrei avuto molto tempo libero per occuparmi di lei, nelle prossime ore.

 

Eccomi tornata dopo "solo" qualche millennio di assenza! Sono stati mesi durissimi questi ultimi e sì, non nego di aver trascurato un po' troppo questa storia... ma alla fine mi è tornata nostalgia, e così ho ricominciato a scrivere. Spero la qualità, se così si può chiamare, non differisca molto dagli altri capitoli, ovviamente mano a mano il tempo è passato anche il mio stile di scrittura è diventato sempre peggio x°D
Detto questo, speriamo di riuscire ad andare avanti ancora un po'. Mi stanno inondando di cose da fare! Scrivi per questo, fai l'articolo per quest'altro, manda il downtime di gioco (gioco di ruolo live), comunica questo, spedisci l'email a quest'altro... ci manca solo che mi chiedano di spararmi ò.ò col natale alle porte poi i parenti sono una condanna :P
Come sempre se volete leggere e lasciare dei commenti mi fate felice ç_ç  grazie a chi continua a seguire, sappiate che se non mi avete già mandato a quel paese vi voglio ancora più bene di prima!
Detto questo, al prossimo capitolo... spero entro tempi decenti ^_^''
  
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