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Autore: mercutia    23/12/2012    1 recensioni
Nulla nella mia vita era più lo stesso. Per quante esperienze l'avessero attraversata e sconvolta, nulla era più lo stesso da quando vivevo nel palazzo che Mélisande aveva preso a Città di Elua per quella che era la sua nuova famiglia: un trio la cui formazione aveva sollevato parecchi mormorii, un'unione anomala e stravagante persino per la gente di Terre d'Ange. E non tanto, o non solo, perchè questa famiglia era formata da due donne e un bambino, ma perchè eravamo io, Phèdre nó Delaunay de Montrève, la più famosa cortigiana del regno, Mélisande Shahrizai, la famigerata traditrice della corona, e suo figlio, Imriel no Montrève de La Coursel, frutto di uno dei piani diabolici di sua madre. Mélisande era per tutti una pericolosa e spietata traditrice e nessuno avrebbe mai smesso di vederla a quel modo. Nemmeno io. Io che meglio di chiunque altro la conoscevo. Io che meglio di chiunque altro avevo pagato sulla mia pelle e sulla mia coscienza il dolore dei suoi giochi crudeli. E io che, nonostante tutto, l'amavo con ogni fibra del mio essere, come nessun altro avrebbe mai potuto.
Genere: Erotico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Imriel nó Montrève de la Courcel, Mélisande Shahrizai, Phèdre nó Delaunay
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: Bondage, Contenuti forti
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Questa storia fa parte di un insieme di racconti brevi dai toni semiseri liberamente tratti dalla saga di Kushiel ed ispirati da un pensiero di Phèdre sul finale di "La maschera e le tenebre", ovvero quando arriva a definire Imriel figlio suo e di Mélisande. La geniale assurdità di quel dettaglio ha scatenato in me folli fantasie sul quadretto familiare ed è nato il primo episodio quasi per scherzo.
Tecniche di scrittura, personaggi e anche modi di dire sono volutamente tratti nel modo più verosimile possibile all'opera di J.Carey, ma lo scenario è del tutto inventato e parodiato.
Il tono semiserio del racconto non vuole assolutamente deridere quest'opera che amo follemente... anche per la sottile ironia che maliziosamente spesso suggerisce.


Maison Shahrizai - Episodio 4

Un prezzo troppo alto

Ogni angeline è legato alla Notte Più Lunga e ogni angeline, noi servi di Naamah in modo particolare, ne ricorda ogni singolo festeggiamento. Anche io rammentavo tutte quelle che avevo potuto celebrare, specialmente alcune, una sopra ogni altra, quella che passai al servaggio di Mélisande Shahrizai. Nonostante siano trascorsi tanti anni e nonostante i ricordi di quella notte siano sempre stati annebbiati dallo stato confusionale in cui la trascorsi, non ho mai dimenticato un solo piccolo dettaglio di ciò che percepii nella mia vulnerabile lucidità.
Allora amavo Mélisande, l'amavo come non ho più potuto in seguito. L'amavo senza riserve, nell'innocente ignoranza di chi, e non ero certo la sola, era ben lungi dall'immaginare quanto fosse mortale la sua sete di potere. Non sapevo nulla di lei allora e quello che provavo era il frutto di un genuino ed atavico sentimento che mi spingeva violentemente verso di lei e al quale non ponevo alcun freno, se non quello della razionale prudenza a cui il mio signore Delaunay mi aveva ben addestrata. Ingenuamente credevo non servisse altro e quella notte venne meno anche quello, perchè mi abbandonai a lei e al mio desiderio più di quanto avrei dovuto. Fu un tragico errore, pagato davvero caro sulla pelle di chi non è più qui e sulla mia tormentata coscienza.
Ricordavo quella notte mentre i festeggiamenti per il Solstizio d'Inverno si avvicinavano anche quell'anno e Mélisande stava chiaramente tramando qualcosa. Ciò che più mi spaventava era il fatto che non si preoccupasse minimamente di lasciarmelo intendere: da giorni mi studiava, indugiava a lungo lo sguardo su di me senza dirmi una parola, era fredda e distante, in modo assai diverso rispetto al suo solito, e soprattutto mi aveva lasciata ogni notte a dormire sola nelle mie stanze.
Non avevo idea di ciò che quegli occhi indagatori stavano macchinando: anche se ormai ritenevo di conoscerla piuttosto bene, non mi sono mai illusa di poter decifrare i giochi che la sua mente era in grado di creare, se non quando ormai erano in atto. Quei suoi silenzi mi spaventavano, ma quell'attesa, fatta di freddo distacco e astinenza, stava producendo in me un effetto di cui non andavo certo fiera e che cercavo di stemperare concentrandomi su Imriel.
Il mio bel principe stava facendo i preparativi per trascorrere la Notte Più Lunga e i due giorni successivi con alcuni amici. Da un lato ne ero felice, certamente per lui che smaniava all'idea e poi perchè questo l'avrebbe tenuto all'oscuro di ciò che sua madre stava architettando su di me. Dall'altro la solitudine in cui mi avrebbe lasciata era un motivo in più di preoccupazione e quando si fece il momento di salutarlo il timore di quanto poteva accadere nelle ore successive mi pietrificò lo stomaco. Lo guardai allontanarsi dritta all'ingresso accanto a sua madre, che ricambiava il suo radioso sorriso in tutta la sua algida bellezza. Non mi abituavo mai a vederla: dopo mesi in cui avevo la possibilità di ammirarla tutti i giorni, ancora la sua vista mi colpiva ogni volta con la stessa veemenza e mi costringeva a placare con fatica il fremito che mi causava. A volte mi veniva da pensare che definire amore ciò che provavo per lei fosse sbagliato, riduttivo anzi, ma non riuscivo a trovare una parola che potesse spiegare meglio ciò che la discendente di Kushiel poteva essere per me, che ne ero la prescelta. Tante volte ho pensato che quello che provavo fosse troppo, perchè spesso lo sentivo come un peso doloroso da sopportare e del quale tuttavia non potevo fare a meno. Ma in realtà sapevo di essere venuta al mondo per quello e di essere la sola a poterlo provare.
Mélisande abbassò lo sguardo su di me, fredda e muta come lo era da giorni. Mi sentii disarmata e snudata di tutto in un solo insignificante attimo, poi lei mi oltrepassò per rientrare in casa ed avviarsi verso le sue stanze. Mancavano poche ore all'inizio delle celebrazioni per la Notte Più Lunga e mi sembrava di camminare sui tizzoni ardenti nell'impazienza di scoprire cosa quella donna avesse in serbo per me.
Cominciai a capirlo quando giunsi nelle mie stanze e trovai un grande involto di carta di riso nera appoggiato sul mio letto e chiuso con un nastro di seta rosso. Legata al nastro c'era una pergamena arrotolata, che sfilai e svolsi subito. Riconobbi la grafia di Mélisande nelle poche parole che conteneva.
Per te. Per questa notte.
Certa che tu conosca la leggenda di Merak.
La conoscevo.
Si trattava di una vecchia leggenda azzalese, la storia di una donna bella quanto incapace d'amare, che aveva osato prendersi gioco dell'amore, incantando persino il beato Elua e allontanarlo da uno dei suoi compagni, Azza. L'ira di tutti gli dei, quella di Azza in particolare, colpì Merak e il suo insulto nei confronti di un sentimento che, convinta di non poter provare, da sempre usava a proprio vantaggio. Ma l'amore è il fondamento stesso della nostra essenza e gli dei sapevano che nemmeno la bella Merak poteva fuggirgli in eterno, per questo maledirono le sue labbra, rendendo il loro tocco mortale alla persona che avrebbe amato. Fu quando lei, che aveva concupito senza mai ricambiare re, principi e persino un dio, capì di ricambiare i sentimenti di un umile maniscalco di nome Nar, che Merak smise di ridere di quella maledizione che mai aveva pensato le avrebbe nociuto. Terrorizzata dall'idea di uccidere il suo fedele Nar, che da sempre l'aveva servita ed amata incondizionatamente, Merak lo respingeva, ma più gli stava lontano, più se ne sentiva legata. A nulla valse implorare la pietà di quegli dei che aveva sbeffeggiato, per chiedere il loro perdono e quando, rassegnata all'idea di non poter mai suggellare il proprio amore, decise di togliersi la vita, Nar scelse di sacrificare la propria per poter far vivere a lei anche un solo attimo di vero amore: il giovane maniscalco baciò Merak e la maledizione punì impietosa, avviluppando il suo corpo in un rogo che incenerì lui insieme alla sua amata.
Aprii l'involto scossa da un brivido. Scostai l'ultimo strato di carta e con la delicatezza con cui avrei toccato le ali di una farfalla sollevai il contenuto: davanti a me tenevo un abito composto da una moltitudine di veli di chiffon tra il rosso e il giallo, piegati ed arricciati in modo tale da creare, con incredibile verosimiglianza, l'idea di fiamme che crescevano dalle gonne lunghe e frastagliate, separandosi seguendo le scollature della schiena e del seno e zampillando in un complesso intrecciarsi di piume di fagiano rosse che abbracciavano il collo e le spalline. Lo guardai incantata mentre la mia domestica bussava alla porta per comunicarmi che il bagno era pronto.
Sembrava tutto troppo bello per essere vero. La mia gioia e il mio crescente desiderio erano frenati dalla razionale intuizione che ci fosse dell'altro, ma farsi cullare dall'illusione era una tentazione così suadente. Tuttavia non riuscii a godere appieno del bagno e nemmeno del massaggio con gli oli profumati che Mélisande aveva ordinato per me. Ad ogni meraviglioso regalo che si aggiungeva a quella notte provavo un composto brivido di puro terrore. Cos'aveva in mente?
Ribolliva dentro di me un misto di paura e curiosità, oltre che di sincera bramosia al pensiero di Merak, una storia tanto struggente e che in modo angosciante m'illudevo fosse un riferimento al rapporto tra me e lei. Mi domandavo ossessivamente perchè Mélisande l'avesse scelta e mi crogiolavo all'idea che fosse un'implicita dichiarazione dei suoi sentimenti per me. Troppo semplice. Troppo bello. Cosa stava tramando? L'attesa di scoprirlo mi torturò per tutto il pomeriggio.
Intanto mi preparavo. La mia pelle fu interamente ricoperta da un olio che depositò su di me una miriade di minuscole scaglie dorate che scintillavano alla luce. Le mie unghie e le mie labbra furono colorate di un rosso vivido. I miei capelli furono acconciati in una complessa capigliatura che li raccoglieva in alto, così che, quando indossai l'abito, le piume di fagiano rosse mi salivano libere lungo il collo per cingermi la testa.
La leggenda di Merak proviene dalle zone di confine di Azzalle, dove esisteva una lingua mista nella quale la parola merak significava pavone. A questo faceva riferimento l'abito indossato da Mélisande. Rimasi senza fiato quando scesi e la vidi. Lucido raso color ebano le avvolgeva stretto il busto e scendeva drappeggiato, allungandosi dietro in uno strascico e aprendosi sul davanti per mostrare le ampie gonne di seta color verde oliva. Dal fianco sinistro si apriva un grande ventaglio di piume di pavone che l'abbracciava sia davanti che dietro, coprendole parzialmente la schiena nuda e il seno, che il raso mostrava in una scollatura che sarebbe stata definita scandalosa anche a Terre d'Ange. Una decorazione simile le avvolgeva quasi completamente la testa, attaccata sopra l'orecchio destro si apriva coprendole anche parte del viso, quasi fosse una maschera. Al di sotto i capelli erano raccolti in una crocchia lenta all'altezza della nuca, da cui alcune ciocche erano state lasciate libere di accarezzarle il collo.
Ad ogni passo verso di lei sentivo le ossa farsi un inutile liquame che non poteva sostenermi, finchè dovetti fermarmi e aggrapparmi ad una colonna al mio fianco, mentre una delle domestiche mi porgeva un bicchiere colmo di joye. Lo afferrai stringendolo troppo forte e versandomene una parte sulla mano. Tremavo e maledicevo quella mia totale mancanza di autocontrollo, che s'impossessava di me quando ero al cospetto di Mélisande e allo sfoggio della sua insopportabile bellezza.
Lei sorrise, mi sorrise. Poi si avvicinò e mi sollevò la mano in cui ghermivo il bicchiere come fosse un'arma con cui difendermi. Si portò la mia mano davanti al viso e vi leccò le tracce di liquore, osservando divertita la mia reazione. Ero pietrificata.
«Joye» disse melliflua, lasciandomi libera di tremare un brindisi di rimando e di portarmi il bicchiere alla bocca. Il liquido mi bruciò giù per la gola e io l'assaporai chiudendo gli occhi e pregando che potesse sciogliermi i nervi.
Non fu così.
Mélisande mi osservò a lungo, compiaciuta.
«Sei perfetta» disse dopo un lungo silenzio.
Io la guardavo, non ero in grado di fare altro.
Mi sorrise di nuovo. E poi mi oltrepassò per avviarsi verso l'uscita. Solo in quel momento colsi il suo profumo, quella sua fragranza che conoscevo perfettamente, eppure diversa quella sera, più intensa. Mi girai e mi trovai a seguire quella scia fino al porticato e poi sulla carrozza. Ricordai la sensazione del guinzaglio con cui mi aveva legata la prima volta e mi toccai istintivamente la gola dove aveva appeso il suo diamante. Il profumo, questa volta le bastava il profumo per obbligarmi a seguirla.
Quell'anno era Casa Genziana a dare la festa per il Solstizio d'Inverno. Tutti i pari del regno vi erano riuniti, ognuno abbigliato nel modo più straordinario. Il silenzio con cui fu accolto il nostro ingresso fu palpabile, l'intera sala sembrò trattenere il fiato, ma lei cominciò a salutare gli invitati serena e totalmente a suo agio come se la sua presenza lì, alla prima Notte Più Lunga dopo la sua contestata amnistia, fosse del tutto normale. Io la seguivo, in uno stato non diverso da quello di tanti anni prima, guidata dal suo profumo, dalla melodia della sua voce, dalla gioia delle sue risate. Quanti, e furono davvero tanti, mi si avvicinarono per salutarmi e intrattenersi con me, riuscivano a distrarmi da lei soltanto pochi attimi. Non potevo allontanarmi da lei, non ne ero capace, nè fisicamente, nè tantomeno mentalmente. Attendevo solo di scoprire cosa aveva in serbo per me, perchè sapevo bene che Mélisande Shahrizai non fa mai nulla senza motivo e quel giorno aveva fatto troppo per me. C'era un prezzo che avrei dovuto in qualche modo pagare. E non potevo pensare ad altro.
«Ti stai divertendo, Phèdre?» mi chiese all'improvviso, in uno dei rari momenti in cui ci trovammo sole.
«Ditemelo voi» le risposi, dopo aver studiato un attimo il suo sorriso, che si allargò alle mie parole.
«Perchè? Dovrei saperlo meglio di te?»
«Immagino abbiate calcolato ogni istante di questa lunga notte, dunque mi aspetto che sappiate meglio di me come mi sento»
Mi osservava deliziata.
«Phèdre» pronunciò il mio nome in un gemito «Non mi deludi mai»
Mi appoggiò una mano alla guancia e mi lasciò credere di volermi baciare. Caddi nel tranello e probabilmente mi si dipinse la frustrazione in faccia tanto chiaramente da farla ridere. Poi tolse l'attenzione da me e io mi morsi un labbro tanto forte da temere di averlo fatto sanguinare.
«Come mai proprio Merak?» le chiesi dopo aver riconquistato il controllo di me stessa.
Lei non si girò a guardarmi, ma fingendo indifferenza rispose «Davvero non lo immagini?»
«La storia si apre a tante interpretazioni e non saprei dire quale sia la vostra»
«Quale preferiresti?»
Era naturale che lo sapesse bene quanto lo sapevo io.
«Questo non importa, non è certamente il motivo della vostra scelta»
«Perchè no?»
«Non sarebbe da voi»
Rise apertamente e io strinsi i pugni sulle mie gonne fino a sentire formicolio alle mani.
L'ingresso di Ysandre de La Courcel pose fine a quel dialogo, impedendomi di avere una risposta a ciò che da ore mi assillava. Osservammo la regina aspettando il momento per poterle porgere il nostro saluto e quando arrivò, Mélisande mi stupì come ogni volta: non ho mai capito come potesse riuscire ad inchinarsi tanto profondamente senza dare la minima idea di sottomissione. Anche Ysandre lo percepì, ma come sempre riuscì a dissimulare l'odio che provava verso di lei se non per un breve lampo che attraversò i suoi occhi viola e che solo io, che le stavo di fronte, riuscii a cogliere.
Dopo averci osservate per qualche momento con un cipiglio incuriosito disse «Mi sfugge il significato del vostro abbigliamento»
Mélisande sorrise e rispose cortesemente «Si tratta di un riferimento ad un'antica leggenda azzalese»
«Merak!» la interruppe la regina, cogliendo solo in quel momento la citazione. Spostò più volte lo sguardo dall'una all'altra con attenzione e poi disse «Interessante. E' stata tua la scelta, Mélisande?»
«Sì»
Gli occhi di Ysandre si posarono meditabondi su di me, poi tornarono al volto di Mélisande.
«Non vorrai farci credere di essere stata tanto generosa da aver concesso a Phèdre il lusso di considerarsi il tuo Nar.»
Le labbra di Mélisande si allargarono in un sorriso divertito.
«O forse è meglio pensare che avrei potuto io stessa interpretare un terzo personaggio della storia?» aggiunse la regina «Magari mi avresti vista bene vestita da Azza»
Mélisande rise.
«Tra le numerose doti che vi attribuiscono, Vostra Maestà, posso certamente dire che non mentano sul vostro senso dell'umorismo»
«Mi trovi ironica? Ho sbagliato a ritenere Phèdre una maledizione per te?»
Era la prima volta che, anche se in modo velato e sottoforma di metafora, le due donne si confrontavano sul mio ruolo nella singolare forma detentiva di Mélisande. Raramente mi ero sentita più a disagio in tutta la mia vita, anche perchè conoscevo la mia signora e dubitavo che fosse in grado di trattenere la lingua quando poteva usarla per sbeffeggiare il potere che le veniva imposto.
Non si trattenne.
«Merak ha scelto di bruciare insieme a Nar ed Azza ha dovuto consolare Elua e chiedergli perdono per aver condannato due persone a morire per amore»
L'espressione di Ysandre era indecifrabile mentre fissava gli occhi di Mélisande per un lunghissimo istante, che congelò il mio sangue e quello di chiunque fosse abbastanza vicino a noi da aver ascoltato quel dialogo.
«Il Beato Elua infine perdonò il suo compagno, consolato dal fatto che quel dolore avesse insegnato a Merak il significato dell'amore» precisò poi la regina.
«Chissà? Magari l'avrebbe compreso comunque.»
«E' probabile, la domanda è quante vittime avrebbe causato prima che ciò accadesse» disse Ysandre, prima di voltarsi a guardarmi e accarezzarmi una guancia «Purtroppo capita che a qualcuno tocchi pagare per gli errori degli altri. Prego il Beato Elua che l'errore non sia il mio» mi baciò e mi strinse in quel modo caloroso che da anni ormai mi riservava, poi si allontanò da noi senza aggiungere altro o permettere repliche. Io tornai a respirare.
«Mi sembri tesa» mi disse Mélisande, mentre osservava Ysandre già circondata da altri ospiti.
«Come potrei non esserlo?»
«Io non lo sono» mi disse come se fosse un consiglio.
«Voi non lo siete mai. Potrei contare sulle dita di una sola mano le volte che ho visto un'espressione diversa dalla serenità sul vostro viso. Credo che mi avanzerebbero anche alcune dita.»
«Phèdre» sospirò «Gli dei hanno suddiviso tra noi le emozioni e i sentimenti in modo netto. L'ansia l'hanno concessa tutta a te»
«A voi hanno dato ben poco»
Rise a lungo e poi disse «Per compensare mi hanno dato te» solo in quel momento mi guardò e io mi sentii sciogliere. Aspettavo un bacio, una carezza, un gesto di affetto e di potere su di me. Ma non arrivò.
Deglutii e dissi «La vostra maledizione?»
«Non ho ancora intenzione di risponderti a questo» tolse la sua attenzione da me e si lasciò catturare dal Duca de Morban, con cui si mise a danzare gioiosa e affabile come se questi non l'avesse mai scortata fino a quello che sarebbe dovuto essere il suo patibolo.
Mi ero torturata il cervello tutta la sera e ancora non ero riuscita a trovare il motivo vero della scelta della leggenda di Merak, quando la festa volse al termine e seguii Mélisande alla carrozza che ci avrebbe riportate a casa.
«Dunque?» mi chiese appena la carrozza cominciò la sua corsa «Hai trovato da sola la risposta che cercavi?»
«No»
Mélisande rise e mi sfiorò il collo, mi posò la mano dietro la nuca e mi baciò. Mi sentii stordita per la lunga attesa di quel momento, per il suo profumo, per quelle labbra il cui tocco mi era mancato così tanto. La ricambiai con foga, spaventata dall'idea che potesse sottrarsi a me da un momento all'altro.
Il freddo dello sportello aperto mi distrasse all'improvviso e lasciai riluttante le labbra di Mélisande per scoprire che eravamo giunte a casa. Seguendo la scia del profumo della mia signora, entrai in camera sua, preda di un desiderio che divorava la mia razionalità. Lei sciolse i nastri che reggevano il mio abito, mi spogliò e mi indicò il letto. Io obbedii a quel muto comando. Mi legò i polsi ai pali del baldacchino, troppo in alto perchè potessi stare stesa e troppo in basso per poter stare seduta sui talloni, quindi mi trovai in un precario equilibrio, con la schiena inarcata indietro e le ginocchia puntellate in avanti in modo che i legacci non mi tirassero troppo le spalle. Dopo avermi legata, rimase ferma ai piedi del letto a guardarmi, la testa piegata da una parte, poi si allontanò per liberarsi del copricapo di piume e sciogliersi i capelli.
Non saprei dire se fosse solo colpa del fuoco che ardeva nel grande camino di marmo, ma mi sembrava un caldo degno dei Sette Inferni, sudavo ed ero incapace di star ferma in quella scomoda posizione. Mélisande lo sapeva e se la prendeva comoda. Mi guardava attraverso lo specchio mentre toglieva il ventaglio di piume dal suo abito, staccandone una. Senza mai togliere il suo sguardo da me, l'accarezzò e ci giocò, finchè si girò e la usò su di me.
Non sono particolarmente sensibile al solletico, per questo mi stupì che avesse deciso di cominciare proprio da quello, ma l'avevo sottovalutata. Conosceva a memoria il mio corpo e forse sapeva anche meglio di me quali punti erano più suscettibili di altri e a cosa: mi sfiorò il capezzolo destro a lungo, fino al punto che la pelle cominciò a provare un doloroso pizzicore misto a piacere. Mugugnai e quello che era solo uno sfioramento divenne uno sfregamento irritante ed eccitante allo stesso momento. Emisi un altro gemito, lei allontanò improvvisamente la piuma, consapevole del fatto che a quel punto la mia pelle era sensibile persino all'aria. Si avvicinò al mio petto, il suo solo respiro accanto al seno mi faceva sobbalzare. Avvicinò ulteriormente le labbra al mio capezzolo, mi guardò e poi lo morse.
Gridai senza emettere suono. Cercai di respirare. Persi l'equilibrio e sentii le spalle torturate dalle corde che mi tiravano dietro e in alto.
Mélisande stroppò via da me le sue labbra e mi afferrò il viso con una mano.
«Voglio che tu mi dica una cosa»
Allungò la mano dietro la mia testa, sollevandola per i capelli.
«Cosa ti ha detto Imriel diciotto giorni fa?»
La guardai incredula. Questo! Questo era il prezzo!
Aprii la bocca, ma non riuscii a proferire verbo. Ansimavo solamente. Dolore. Piacere. Lei.
«Cosa ti ha detto?»
Mi tirò ancora i capelli e rimase a fissarmi finchè io sentii il suono della mia risata.
Lei sorrise.
«Sapevo che non sarebbe stato semplice farti parlare. Ma ho tutta la notte e so essere molto convincente.»
Non avevo dubbi in proposito, ma avrei confessato il più riservato affare di stato piuttosto che tradire la fiducia di Imriel.
Quello fu appena l'inizio e fu solo un pallido assaggio di ciò che mi fece in seguito. Mi torturò provando su di me ogni oggetto in suo possesso, lasciandomi a ribollire nel desiderio e nella frustrazione. Mi fece implorare. Mi fece piangere. Usò su di me la violenza più brutale e la dolcezza più struggente. Io non cedetti.
Ero stremata. Non avevo idea di quanto tempo fosse passato da quando eravamo chiuse là dentro. Sospettavo che le mie spalle si fossero slogate perchè mi dolevano da impazzire. Sentivo il dolore di una moltitudine di ferite che non mi risparmiavano nessuna parte del colpo, in modo tanto omogeneo che non avrei saputo dire dove finiva una e cominciava l'altra. Non piangevo più, non avevo più lacrime. La mia voce era un suono rauco quando dissi «Ancora non mi avete detto perchè avete scelto Merak»
Lei si stava riposando, detergendosi con una salvietta dal sudore e dal mio sangue. Si fermò un attimo e poi riprese senza rispondermi.
«Qual era lo scopo di usare proprio quella storia?» insistetti.
Si mise ai piedi del letto e mi guardò a lungo.
«Era un balsamo. Volevo solo confonderti. Pensavo ti avrebbe sciolta al punto da indurti più facilmente a cedermi»
«Pensavate davvero che bastasse così poco?»
«Oh no, certo che no. Era solo un balsamo per il resto, per ciò che avevo in mente per questa notte. Tuttavia non è stato sufficiente»
Salì sul letto e mi raggiunse a carponi.
«Non mi credi vero? Speri ancora in un significato più profondo?»
Sì. Non lo dissi. Non le avrei concesso il piacere di quell'umiliazione.
Lei mi baciò e poi cominciò a sciogliere i nodi che mi legavano i polsi.
«Purtroppo Phèdre questa è una partita che non ho alcuna intenzione di perdere.»
Il dolore delle mie braccia libere mi lasciò senza fiato e incapace di concentrarmi su altro. Sentii solo le sue mani che con delicatezza mi spostavano e mi mettevano in una posizione più comoda. Mi asciugò, mi massaggiò, per poi aiutarmi ad alzarmi ed accompagnarmi nella sala da bagno. Si dedicò alla cura del mio corpo in modo sorprendentemente amorevole, senza dirmi più una parola, senza nemmeno mai guardarmi negli occhi.
Sentivo il mio corpo rilassarsi a quelle lusinghiere attenzioni, ma non avevo scordato la velata minaccia che era uscita dalle sue labbra dopo l'ultimo bacio che mi aveva concesso. La partita non era affatto finita.
Per questo non rimasi stupita quando mi riportò in camera e mi legò nuovamente al letto che intanto era stato cambiato. «Parlerai» mi disse subito prima di baciarmi, per poi lasciarmi sola nella stanza.
Non avevo modo di capire se fosse giorno o notte, il fuoco nel camino forniva l'unica luce che illuminava parzialmente la stanza. Mi addormentai e fu lei a svegliarmi, ricominciando da capo il mio supplizio. Gridai e piansi di nuovo e ancora non cedetti.
Il gioco andò avanti così per non so quanto tempo, sospettavo fosse passato anche più di un giorno intero. Non cedevo e questo alimentava la sua ira e la sua eccitazione. Io ero quasi sull'orlo della pazzia quando lei attirò la mia spossata attenzione scudisciandomi in volto.
«Tutti hanno un prezzo! Qual è il tuo?»
Quella domanda suonò alle mie orecchie come una piccola vittoria. Rispose al mio sorriso sferzandomi le labbra, ma non m'importò. L'avermi fatto quella domanda era un minuscolo cedimento di cui stancamente gioivo. Ad ogni modo realizzavo che quello fosse un gioco in cui la sua sconfitta non era prevista, mi avrebbe tenuta legata là dentro finchè prima o poi non avrei ceduto o avrei del tutto perso la ragione. La pazienza purtroppo non le mancava, men che meno la perseveranza. Dovevo trovare un modo per porre fine alla partita senza venir meno alla parola data a Imriel e forse fu la totale disperazione del momento che mi portò a trovare l'unica cosa che avrei potuto chiederle come prezzo del mio tradimento, certa che fosse per lei troppo alto da pagare.
«C'è» dissi con un filo di voce rauca «C'è una sola cosa che posso accettare da voi in cambio della fiducia di Imriel. Una soltanto.»
«Credo di averti ben dimostrato quanto ci tengo. Sono disposta a tutto. Di cosa si tratta?»
«Voglio» biascicai cercando invano di ignorare la difficoltà di parlare con la bocca tanto secca «Voglio sentirvi dire, sinceramente, cosa provate per me. E badate, ho imparato a riconoscere la vostra sincerità»
Prima di allora avevo ammirato tanto stupore sul suo viso una sola volta, quando vide me, una anguissette, scortata da Joscelin, allora un semplice Cassiliano. L'espressione che le si dipinse sul viso in quel momento fu della stessa impareggiabile rarità. Poi si mise a ridere.
«Questo è il tuo prezzo?»
Annuii.
«Vuoi sentirti dire ciò che sai benissimo? Ciò che persino Ysandre de La Coursel ha compreso fin troppo bene?»
«E' quello che voglio.»
«Questa mia prigionia non ti sembra un'ammissione sufficiente?»
«No. Voglio che mi diciate apertamente cosa vi trattiene qui.»
La sua serenità si era rabbuiata. I suoi occhi blu mi guardavano distanti, mentre cercava una via di fuga dal mio scacco.
«Sai cosa mi trattiene. Non serve che aggiunga altro.»
«Ditelo, se per voi è tanto insignificante. Ditemelo.»
Mai, in tutta la mia vita, avevo sentito di averla in pugno. Mai. Nemmeno il giorno in cui gettai il diamante che mi aveva regalato ai suoi piedi, condannandola a morte. Nemmeno quando annunciai il suo complotto dalla voce dell'oracolo del Tempio di Asherat. Nemmeno quando pensavo di poterle imporre le mie condizioni in cambio della vita di suo figlio. Mai come in quel momento avevo sentito di averla in mio potere, che i nostri ruoli si fossero, anche se solo per un istante, invertiti.
«Ditemelo.»
L'espressione di Mélisande era qualcosa di inedito, qualcosa a cui non volevo dare un nome, nel timore d'illudermi o d'impazzire di gioia.
Alcuni colpi violenti alla porta anticiparono di poco la sua apertura forzata. Imriel fece irruzione, rosso in viso e agitato come mai l'avevo visto.
«Lasciala in pace!» gridò rivolto a sua madre, con uno sguardo carico d'odio e di allarmata preoccupazione.
Compresi che erano passati due giorni dalla Notte Più Lunga, capii che Imriel doveva essere tornato a casa e doveva essere stato informato dai domestici che sua madre mi aveva tenuta sua prigioniera per tutto quel tempo. Nonostante questo la frustrazione per la mia gloriosa vittoria che sfumava via, mentre Mélisande si allontanava da me insieme alla possibilità di sentirle ammettere ciò che mai più avrei potuto chiederle, prese il sopravvento.
«Imriel! No!» e per poco non lo maledissi.



Questa storia fa parte di un insieme di racconti brevi dai toni semiseri liberamente tratti dalla saga di Kushiel ed ispirati da un pensiero di Phèdre sul finale di "La maschera e le tenebre", ovvero quando arriva a definire Imriel figlio suo e di Mélisande. La geniale assurdità di quel dettaglio ha scatenato in me folli fantasie sul quadretto familiare ed è nato il primo episodio quasi per scherzo.
Tecniche di scrittura, personaggi e anche modi di dire sono volutamente tratti nel modo più verosimile possibile all'opera di J.Carey, ma lo scenario è del tutto inventato e parodiato.
Il tono semiserio del racconto non vuole assolutamente deridere quest'opera che amo follemente... anche per la sottile ironia che maliziosamente spesso suggerisce.

   
 
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