Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: nightswimming    26/12/2012    1 recensioni
Raccolta di one-shot basate sul disco "Chaos And Creation In The Backyard" di Paul McCartney, prevalentemente a tema Johnlock, ma è garantita l'allegra partecipazione del resto della famiglia.
Tematiche e rating variabilissimi, dal fluff che caria i denti, agli arruffamenti di lenzuola, all'angst esistenziale e/o sentimentale dei nostri eroi.
(N°4: Una certa tristezza nel suo sorriso.)
Genere: Generale, Introspettivo, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: è un vero peccato che non siano miei, perchè sono così incredibilmente decorativi, dal primo all’ultimo ç_ç Due pollici bene bene in alto per le Loro Altezze Reali Moffatt e Gatiss, e infinita gratitudine e amore per il loro originale creatore, sir Arthur Conan Doyle.
Per quanto la mia sete di denaro sia immensa, non ho ancora trovato il modo per spremere soldi da tutto questo affare delle fanfictions. Scrivo dal 2003 e ancora non mi riesce, maledizione – ma! chissà perché, non mi dispiace per niente. :D
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
There is a fine line between recklessness and courage
It's about time you understood which road to take
It's a fine line, your decision makes a difference
Get it wrong, you'll be making a big mistake
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La ghiaia scricchiolò sotto i suoi piedi quando lui aumentò il passo, la valigia che gli sbatteva contro una gamba. Con la mano libera si strinse il cappotto attorno al collo: erano le sei di una silenziosa, eterea mattina d’inverno, e un freddo umido gli mordeva la pelle. Una gioia intensa come quella di un bambino lo invadeva tutto. Le fughe avevano un che di codardo, sempre, ma in quel momento era troppo felice e affamato d’avventura per pensare al proprio onore.
Ancora pochi passi e sarebbe stato fuori. Ancora pochi passi e si sarebbe lasciato alle spalle quella prigione dorata. Ancora pochi passi e-
Nel buio si udì un clacson lontano. Sherlock digrignò i denti e alzò gli occhi al cielo. Era una prospettiva troppo utopica pensare di riuscire ad andarsene indisturbato.
Continuò a camminare veloce, il mento tenuto alto come un re nel bel mezzo di una parata, ignorando il rombo sempre più vicino della macchina che veniva nella sua direzione.
“Sherlock!”
Ignorò quella voce - cosa in cui era straordinariamente versato sin da quando aveva imparato a capire l’inglese.
“Sherlock, maledizione, piantala con questa pagliacciata e fermati!”
Il ragazzo guardò oltre la propria spalla e rivolse un ghigno in direzione di Mycroft, che aveva la testa fuori dal finestrino e fumava di rabbia.
“Torna indietro, My, o ti perderai la colazione, che Dio te ne scampi.”
Suo fratello si affiancò a lui, le gomme che giravano silenziose sull’erba coperta di rugiada, e allungò una mano per afferrargli con forza un braccio.
“Che cosa fai, stupido! Cosa pensi di ottenere? Dove pensi di andare?” Lo scosse violentemente, spegnendo il motore con l’altra mano. Sherlock emise un oltraggiato “Ahi!” e si divincolò con rabbia dalla presa del fratello. Mycroft scese dalla macchina e gli si parò davanti in tutta la gloria rigida e impostata dei suoi ventisette anni. “Eh? Farai morire la mamma di crepacuore!”
Sherlock raddrizzò la schiena e guardò fisso negli occhi del fratello. Vi lesse rabbia, irritazione, e un qualcosa di mai visto negli occhi di Mycroft, come un brillìo malfermo che sembrava… spavento?
“Credevo fossi contento che me ne andassi,” disse gelido.  Strinse più forte la maniglia della valigia e lanciò uno sguardo alla villa di famiglia in lontananza, senza un minimo di rimorso. “Credevo lo foste tutti.”
Mycroft stette in silenzio e lo guardò come fosse qualcosa di irragionevole, un’equazione senza risultato, una di quelle figure impossibili di Escher.
“La mamma vuole parlarti,” disse, piano, tendendo le mani in avanti, come se il fratello fosse una bestia che potesse prendersi paura e fuggire via al minimo movimento inconsulto.
Sherlock alzò uno sprezzante sopracciglio.
“Beh, io non voglio. Dille che non mi hai raggiunto in tempo. Addio,” e si voltò per andarsene, pronto a reagire con la violenza se Mycroft avesse tentato di trattenerlo fisicamente. Dopotutto, pur essendo dieci anni più giovane, era di gran lunga più alto e robusto di lui. Non sarebbe stato per niente difficile dargli una bella lezione e, Dio, che soddisfazione si sarebbe preso.
“Sherlock,” chiamò suo fratello dietro di lui, e Sherlock davvero non seppe spiegarsi il motivo per cui si fermò, perché non era il suo solito tono presuntuoso e autoritario e paternalistico – no, il suo nome era diventato sulle labbra di Mycroft un confuso interrogativo, un dubbio. Un ripensamento, forse.
“Che c’è?” sputò fuori, veloce, troppo veloce.
“Almeno salutala.”
Lo sentì rientrare in macchina. Deglutì, lanciò uno sguardo pieno di desiderio ai cancelli della tenuta, sospirò stancamente, e girò sui tacchi.
Lo faccio solo per te, fu sul punto di dire con astio a quel brutto muso di suo fratello, che guidava di fianco a lui tutto pomposamente soddisfatto; ma poi quel pensiero ribelle prese davvero forma davanti ai suoi occhi, e Sherlock si stupì di essere stato capace di scendere così in basso.
Fuori dal finestrino il cielo cominciava ad albeggiare, metà rosa metà nero, metà giorno e metà notte, e Sherlock si sentiva proprio così – metà da una parte e metà dall’altra.
 
 
 
 
 
 
 
 
There is a long way between chaos and creation
If you don't say which one of these your gonna choose
It's a long way, and in every contradiction
Seems to say it's a game that your bound to loose

 
 
 
 
 
 
 
 

Sherlock si pulì con un gesto automatico i piedi sullo zerbino ed entrò in casa, buio in volto, dietro al fratello.
L’entrata era fredda e immersa nella penombra, tutta marmi e altissime finestre e candelieri di cristallo, e il solo pensiero di dover stare altro tempo ancora in quella casa gli fece venir voglia di vomitare.
“Seguimi,” disse piano Mycroft, evitando di guardarlo negli occhi. La sua postura era persino più rigida del solito e la ragione sembrava andare oltre la sua ossessione per il galateo. “È nel salottino.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. Sua madre e il suo inverecondo amore per la teatralità. Mormorò qualcosa di acido e camminò dietro al fratello fissandosi le punte delle scarpe.
Mycroft bussò educatamente a una spessa porta di mogano.
“Avanti,” disse una voce cristallina dall’interno. Mycroft si voltò verso il fratello con un’espressione quasi paterna sul viso.
“Prego, Sherlock,” disse, indicandogli la stanza con una mano.
“Tu non vieni?” domandò bruscamente Sherlock senza sapersi davvero spiegare il motivo.
“No. Questa te la devi sbrigare da solo.”
“Ovviamente,” replicò stizzitò Sherlock passandogli avanti. “Credevo solo che non avresti rinunciato a questa golosa opportunità di ficcare il naso nei miei affari.”
Mycroft gli sorrise con placidità.
“Come tu ben sai, sono pieno di sorprese.”
“Una più sgradevole dell’altra.”
“Smettetela di bisticciare” li raggiunse la stessa voce di prima, decisa e altisonante, “ormai siete uomini fatti. Sherlock, non farmi perdere ancora di più la pazienza.”
I due fratelli alzarono all’unisono gli occhi al cielo, dopodichè si guardarono con un certo imbarazzo.
“Sono in sala da pranzo,” lo informò meccanicamente Mycroft.
“Non mi interessa dove diavolo sei.”
E con questo, Sherlock gli voltò le spalle ed entrò nella stanza.
 
 
 
 
 
 
 
Whatever's more important to you
You've got to choose what you wanna do
Whatever's more important to be
Well, that's the view that you've gotta see
 
 
 
 
 
 

Sherlock chiuse la porta dietro di sè e vi appoggiò contro la schiena, ispirando profondamente.
Sua madre era sdraiata sul divanetto prospiciente il tavolino da té e stava leggendo il giornale, mangiucchiando con fare assente una fetta di torta. Di fianco a lei vi era un vassoio con sopra una teiera di ceramica finemente dipinta e due tazze con i manici laccati d’oro, insieme a due cucchiaini e a una zuccheriera d’argento.
“Non stare lì impalato, Sherlock,” mormorò la donna con il naso immerso nell’Evening Post del giorno prima. “Dobbiamo pur scioglierlo questo nodo. Siediti qui con me.”
Sherlock ubbidì trascinando i piedi e la propria valigia sul pavimento.
Cornelia Holmes alzò gli occhi dal quotidiano e rivolse una breve occhiata all’abbigliamento del proprio figlio minore, stravaccato di malavoglia nella poltrona di fronte a lei.
“Come siamo… ribelli,” disse, sorridendo divertita nel vedere lo stato di trasandatezza in cui versava Sherlock, dalle maniche sfilacciate della camicia al cappotto consunto alla vecchia sciarpa tarmata. “Hai voluto fare le cose per bene, eh? Che impavido fuggitivo saresti stato con l’aspetto di un rampollo di buona famiglia?”
Sherlock tirò su col naso, infastidito, e si irrigidì nella poltrona, lo sguardo fisso fuori dalla finestra ancora coperta per metà dalle pesanti tende di broccato.
Cornelia piegò il quotidiano in due e lo mise da parte. Era una donna alta, slanciata ed energica, con una pelle color porcellana che l’aveva resa famosa quando era giovane e due penetranti occhi grigi, dello stesso colore dei capelli elegantemente acconciati in un basso chignon. Amava visceralmente i suoi due figli, ognuno nel modo che credeva più adatto, ma non aveva mai avuto molto pazienza ed era stata una madre poco presente fino al termine dell’infanzia di Mycroft e Sherlock. I bambini la innervosivano e i suoi due maschi erano a dir poco ingovernabili: esagitati, curiosi, capricciosi – così terribilmente stancanti. Straordinari, come quasi tutti gli Holmes. Una gioia e una croce da gestire.
Ora Cornelia guardava il suo ultimo bambino non più bambino e si faceva (con ben poca convinzione, ad essere sinceri) un esame di coscienza. Vi erano stati momenti in cui l’aveva adorato, Sherlock, fino al punto del dolore, fino al sentirlo come un appendice di sé. Vi erano state giornate intere che aveva dedicato interamente a lui e ai suoi giochi; poi, era vero, spesso vi era stato il nulla. Un rimprovero, e anche piuttosto pigro. Un buongiorno la mattina e una buonanotte la sera, e poi via a farsi gli affari suoi, sicura che le domestiche sarebbero state del tutto all’altezza dei bisogni di quei suoi due figli così introversi e riluttanti al contatto umano.
Ma forse, si disse, era colpa sua se erano cresciuti così. Freddi e scostanti, amaramente ironici, condannati a una solitudine resa privilegiata dal loro mostruoso intelletto.
Una fitta di rimorso le strinse il cuore alla vista del suo Sherlock, bello e malinconico e nel fiore dell’adolescenza, così palesemente irritato dal non essere riuscito a fuggire da casa, da lei. Ma fu solo un attimo. Gli Holmes non erano come tutti gli altri, non avrebbero mai potuto esserlo. Lei li aveva svezzati al meglio: li aveva preparati con il giusto rigore al mondo che stava fuori da quella tenuta principesca, lontano dai precettori che subivano in silenzio tutti i loro dispetti, via dai domestici che li servivano e riverivano come principi. Sì, lei aveva fatto loro del bene, somministrando un po’ di durezza insieme a quel suo amore spigoloso.
Le medicine non erano mai state buone da mandare giù, si ripetè con energia. Ma andavano prese.
“Allora, bambino mio,” esordì, versando a entrambi una tazza di tè. “Sei stato vergognosamente viziato da quando sei nato, e hai sempre ottenuto tutto ciò che volevi. Immagino che sarebbe incoerente, da parte mia, interrompere questa abitudine proprio adesso.” Sorbì lentamente un sorso, imitata da Sherlock che però sembrava farlo per puro, semplice, filiale dovere. “Che cosa vuoi in questo momento?”
“Andarmente di qui,” rispose subito lui, lanciandole uno sguardo ostinato. Cornelia aggrottò le sopracciglia ma non disse niente, non subito.
“Capisco. Beh, ti dispiacerebbe essere un po’ più chiaro?” Si allungò con grazia in avanti per afferrare un biscotto e lo addentò pensierosamente. “Intendi fare l’università? Intendi lavorare? Drogarti? Andare a donne? A uomini?”
Sherlock scosse la testa, infastidito, e i riccioli gli danzarono intorno al viso.
“Voglio andarmene di qui e fare quello che voglio. Non lo so ancora, cos’è”, borbottò cupo, poi tacque.
Cornelia gli fece scivolare davanti il piatto con le paste e i biscotti e lo guardò arricciare il naso come un gatto bagnato.
“Mangia.”
“Non ne ho voglia.”
“Come pensi di poter vivere da solo se non sai nemmeno nutrirti per conto tuo? Dimmi perché dovrei lasciarti andare, Sherlock, se rischio di passare il resto della vita a preoccuparmi per te.”
Gli occhi di Sherlock tornarono a guardarla con un’espressione di derisoria ostilità.
“E quando mai l’hai fatto davvero, mamma?”
Cornelia lo fissò con durezza.
“Ogni giorno della mia vita, Sherlock. Non mancarmi di rispetto su una cosa che mi sta tanto a cuore.”
“Oh, sul serio? Si imparano sempre cose nuove. Incredibile.”
Stava per urlargli contro qualcosa, per rimetterlo al suo posto – forse persino per dargli il primo schiaffo della sua vita – ma poi cacciò di nuovo tutto giù e tornò razionale, tornò coerente, tornò una Holmes; gli sorrise con grazia. Dopotutto, non aveva mai tenuto al guinzaglio corto nessuno, nella sua vita, nemmeno il suo adorato marito. Sapeva riconoscere quando uno spirito ribelle andava lasciato libero; sapeva riconoscere quando qualcuno non le apparteneva più.
Si alzò in piedi e gli si avvicinò. Lui si raggomitolò istintivamente nella poltrona.
“Sei uno sciocchino, mio piccolo Sherlock,” gli disse con affetto, accarezzandogli piano i capelli. Sherlock la guardò esterrefatto. “Sei uno sciocchino molto, molto intelligente, e lo rimarrai fino a nuovo ordine.” Gli diede un buffetto su uno di quegli zigomi regali, uguali a quelli di suo padre. “Vai pure, se è davvero quello che desideri. E ti auguro di trovare quello che cerchi.” Si chinò su di lui, sorridendogli, e si picchiettò la guancia con un dito. “E ora saluta per bene la tua mamma. Bacio.”
Sherlock rimase immobile per diversi secondi, spiazzato. Dopodichè, i suoi lineamenti spigolosi sembrarono addolcirsi alla luce di una qualche improvvisa comprensione che doveva aver avuto luogo nel suo prodigioso cervello. Abbassò piano le lunghe ciglia e passo goffamente un braccio attorno alle spalle di sua madre prima di baciarla.
Cornelia emise un “mmh” di approvazione.
“Bene, bene.” Tornò a stendersi sul divanetto e riprese in mano il giornale. Vide con la coda dell’occhio che Sherlock si alzava e tornò a rivolgere l’attenzione su di lui.
“Quanto sei alto, caro?” chiese con voce un po’ svagata, un po’ curiosa.
Sherlock gonfiò il petto senza neanche accorgersene.
“Un metro e ottantasei,” disse spavaldo. Lei gli sorrise.
“Crescerai ancora. Sei giovane.” Abbassò lo sguardo sul giornale. “Mycroft ti accompagnerà alla stazione. No, protestare non serve a niente,” lo anticipò alzando un dito indice nella sua direzione. Sherlock emise uno sbuffo esasperato. “È tuo fratello e gli farai questo favore.”
“Quale favore?” sibilò spazientito Sherlock, una luce di pura rabbia negli occhi. “Perché devo dargli la soddisfazione di vedermi andare via? Non aspetta altro da quando sono nato. Festeggerà rimpinzandosi dei suoi cioccolatini preferiti fino a scoppiare, quell’essere disgustoso. Lo conosco bene.”
Cornelia fece un piccolo sorriso e scosse la testa.
“Per quanto straordinariamente intelligente, rimarrai sempre uno stupido su queste cose.”
“Ma-”
“Non eri impaziente di andartene? Vai, Sherlock. Chiama per informarmi che sei vivo, ogni tanto, e ovviamente per farmi sapere quanti soldi ti servono.” Prese un altro pezzo di torta. “Dirò a Mycroft di provvedere a ogni tuo bisogno.”
“Non farlo.”
“Fai buon viaggio, caro.”
Sorrise sentendolo andare via pestando i piedi, poi, quando fu certa che la porta si fosse richiusa dietro di lui, buttò il giornale a terra e si mise a fissare il vuoto.
Non sarebbe mai potuto essere facile ed intuitivo per gli Holmes, questo sentimento snervante,  questo amore. Mai.
Nemmeno quando si trattava di qualcosa di così naturale e atavico come il legame che lega una madre ad un figlio.
Andò alla finestra e vide i due fratelli entrare in macchina senza nemmeno rivolgersi la parola.
Sì, aveva fatto proprio un bel lavoro, a farli amare reciprocamente senza aver mai insegnato loro le parole per dirselo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
It's a fine line
It's a fine line
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: allora, tutto è cominciato quando nei casuali di iTunes è rispuntato fuori uno degli album più recenti di Paul McCartney, che io ho preso ad ascoltare in loop. Il tutto è poi proseguito quando sono andata a cercarmi i testi e ho scoperto con somma letizia che la maggior parte sembrava scritta apposta per Sherlock e John. Mi sono venute subito mille idee per diverse scenette basate su queste canzoni e non ho saputo resistere, perciò, eccole qua: sono tredici one-shot che pubblicherò settimanalmente, una alla volta, con la prevalenza tematica dell’amato Johnlock ma con la partecipazione di tutta la compagnia cantante. Possono essere lette tutte a sé stante, anche se si presentano in una qualche sorta di ordine interno (credo) (spero).
Ah, un’ultima cosa: la madre di Sherlock e Mycroft resta tuttora innominata, perlomeno a quanto ne so io, perciò il nome che le ho scelto è completamente casuale. :D
Tanti auguri ritardatari di buon Natale, e spero vi piacciano!
:***
   
 
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