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Autore: Stellalontana    26/12/2012    1 recensioni
Honolulu, Hawaii. Occhi neri e la vigilia da Natale.
[Storia partecipante alla challenge "Dal nome alla storia" di Nonna Papera!]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Scritto nel nome'
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kai


Aloha Hauʻoli







N.d.A: piccola shot per festeggiare, anche se in ritardo, il Natale. Partecipa alla challenge Dal nome alla storia di Nonna Papera sul forum di Efp. Il nome che ho usato è Kai, che in Hawaiano vuol dire "oceano". E quale migliore destinazione per qualcuno che in un gelido mattino di inverno litiga con i suoi? Baci a tutti e Buone Feste dalla vostra Stellalontana.



«Basta! Me ne vado!»
Sebastian mollò un calcio alla porta della sua stanza e corse via, sbattendosi la porta di casa alle spalle. Uscì fuori, nella neve di dicembre, il freddo pungente gli entrò subito nelle ossa e il vento gli tagliò il volto come tanti coltelli affilati.
Respirò a fondo l’aria gelida, e quando fu certo che nessuno gli sarebbe corso dietro s’incamminò verso la più vicina stazione della metro. Scrutò i cartelloni appesi che recitavano le fermate in colori accesi. Appoggiò il borsone a terra, indeciso.
Ora che aveva sbollito la rabbia, camminando un po’ nel gelo, l’idea di tornare a casa non era poi così scontata, ma quando ripensò a suo padre e al modo in cui l’aveva praticamente sbattuto fuori, l’ira tornò e un profondo senso di ribellione lo mosse verso la linea che portava all’aeroporto.
I soldi ce li aveva – in effetti non erano quelli che mancavano, in casa sua – e allora perché non sprecarne un po’? Tanto suo padre di certo non avrebbe obiettato, finché se ne stava fuori dai piedi.
Si sedette nel vagone, accanto a un bambino che stava giocando con un robot. Sua madre lo teneva sulle ginocchia, stretto a sé. Il bambino lo guardò e sorrise. Gli mancavano tutti e quattro i denti davanti.
«Che c’è lì dentro?» domandò dopo un po’. Sebastian scrollò le spalle.
«Un po’ di cose.» rispose.
«Quali cose?»
«I miei vestiti e qualche libro» ribatté allora Sebastian «per un viaggio.»
«E dove vai? Non hai un’altra valigia?»
Arcuò le sopracciglia. «No. E non so dove vado.»
«Mick, smettila di importunare il signore.» disse a quel punto la donna, rimbeccando il bambino, che strinse il robot tra le mani e mise il broncio. Sebastian scosse la testa.
«Non si preoccupi, nessun fastidio.»
La donna, chiaramente contrariata, lo guardò senza dire nulla. Scesero alla fermata dopo, lasciando Sebastian solo nel vagone. Non c’era folla nella metro, visto che mancavano tre giorni a Natale.
Già, Natale, pensò Sebastian, e io vado all’aeroporto.
Beh, si disse scendendo dal vagone, i suoi se l’erano voluta. Non era certo colpa sua se suo padre era un militare della vecchia guardia che odiava tutto ciò che suo figlio faceva o diceva. La scelta del college, la scelta degli amici, la scelta dei vestiti, la scelta sessuale. Soprattutto quella. Sebastian si appoggiò al parapetto del secondo piano dell’aeroporto, guardando in giù. Non c’era molta vita, all’interno dell’aeroporto, ma alcune persone andavano e venivano con enormi valigie o zaini e lui si sentì un po’ meno solo.
Raggiunse i banchi del check-in dove una graziosa ragazza in divisa verde scuro gli sorrise.
«Vorrei un'informazione,» disse prima che lei potesse dire qualcosa «il primo volo che parte?»
La ragazza aggrottò per un momento la fronte. «Un momento solo.» batté qualcosa al computer poi rialzò la testa «Honolulu.» rispose.
Sebastian deglutì. Honolulu, Hawaii. Tamburellò le dita sopra il ripiano, cercando di riflettere più in fretta possibile. La ragazza lo guardava con attenzione, forse cercando di decidere se aveva abbastanza soldi per potersi permettere un viaggio del genere.
«Il gate chiude tra mezz’ora.» lo informò con voce piatta.
Sebastian estrasse il portafogli dalla tasca dei jeans. «Questa basta?» chiese tirando fuori l’American Express. La ragazza la prese tra le dita dalle unghie laccate di rosso e sorrise.
«Certamente.»
Cinque minuti dopo Sebastian stava in fila al gate, aspettando di salire sull’aereo della Hawaiian Airlines. Qualcosa vibrò nella tasca dei jeans. Sul display del suo Black Berry lampeggiò la scritta “mamma”. Con un sospiro spense il cellulare, tolse la sim e lo gettò nella spazzatura, mentre la fila scorreva. Cacciò la sim nel portafoglio e riprese la borsa per uscire nel gelo.
Salito sull’aereo gli venne in mente che se non avesse riattivato la sim nessuno avrebbe saputo dove si trovava. Quella consapevolezza lo fece preoccupare e esaltare nello stesso momento. Non è così che fa la gente quando scappa? Stacca i cellulari, non saluta nessuno, non avverte nessuno.
Si rilassò sul seggiolino, accanto a lui un uomo di mezz’età leggeva tranquillamente un giornale in hawaiano, e prima ancora che l’aereo decollasse, già dormiva.

*

Il volo fino a Honolulu era stato tranquillo. Sebastian non aveva mai avuto paura di volare, aveva viaggiato molto con la sua famiglia. Soprattutto aveva dormito per tutto il viaggio o quasi, quindi non aveva avuto nemmeno il tempo per avere paura dei vuoti d’aria, che dovevano aver spaventato a morte l’uomo che sedeva al suo fianco, visto che quando scesero il suo colorito era virato al verde.
Alle Hawaii faceva caldo. Faceva un caldo tremendo. Sebastian si tolse il cappotto e la felpa, ripiegandole di malagrazia all’interno della borsa. Si asciugò la fronte e si incamminò verso l’uscita. C’erano taxi che attendevano gli arrivati proprio lì fuori, ma Sebastian preferì incamminarsi. L’aria era calda, ma sopportabile, spirava una leggera brezza da sud e tutto era immerso nel sole. Era dicembre anche lì, ma non c’era un grammo di neve o un termometro che segnasse meno di trenta gradi.
Alcune bellissime ragazze con il gonnellino di paglia e collane di fiori gli passarono accanto cantando allegre, un ragazzino con lo skateboard lo sorpassò a tutta velocità e un uomo che doveva avere almeno settant’anni cantava con una chitarra a tutta voce sulla spiaggia.
Sebastian lasciò scorrere per un momento il traffico, attraversò la strada e si fermò sulla spiaggia, con le scarpe immerse nella sabbia bianca. Alla fine se le tolse, le cacciò all’interno della borsa e piegò i jeans così che non si riempissero di sabbia. Camminò per qualche minuto sulla spiaggia, osservando i turisti e gli hawaiani che prendevano il sole o facevano il bagno. Si sedette su un tratto di spiaggia semi deserto, a guardare l’oceano. Un immensa distesa di acqua salata che risplendeva al sole accecante, un’altrettanta distesa di cielo azzurro in ogni direzione e laggiù all’orizzonte, lo strano velo di foschia creata dal sole, che confondeva la vista e la sottile differenza tra cielo e mare.
Sebastian chiuse gli occhi, godendosi il tepore del sole sulla faccia. Un libro non recitava forse che le Hawaii erano il paradiso del sole e del mare?
Era vero, per quanto ne sapeva Sebastian.
Riaprì gli occhi, mentre alcuni ragazzi con delle tavole da surf correvano verso l’acqua. Le onde erano piccole, ma Sebastian si disse che quei ragazzi volevano soltanto vantarsi. E ne avevano di cose per cui vantarsi. Soprattutto uno.
Lo guardò mentre entrava in acqua, sollevando spruzzi tutt’intorno, e saliva sulla tavola per poi cadere di nuovo tra le risate generali. Un ragazzo abbronzato e dal fisico mozzafiato, i capelli scuri e lunghi legati sulla spalla. Aveva un costume a fiori nero che gli si appiccicava attorno alle gambe.
Sebastian cercò di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. Era troppo vicino alla battigia per far finta di guardare altrove. Allora rimase lì ad osservare quei ragazzi, cinque in tutto che lottavano tra loro e con le piccole onde che si infrangevano addosso a loro. Non seppe quanto tempo passò, ma rimase deluso quando uscirono dall’acqua. Sospirò. Voleva dire che doveva andarsene, anche perché doveva trovare un posto dove stare.
«Ehi, tu! Mahilini! Ehi!»
Sebastian si voltò. Il moro che aveva guardato per tutto quel tempo si stava avvicinando ancora tutto bagnato, con l’acqua che scivolava i rivoli sui suoi addominali. Sebastian cercò di distogliere lo sguardo.
In mano il moro reggeva un pallone.
«Ci servirebbe un portiere.» disse quando si fu avvicinato. Sebastian rimase lì impalato, nei suoi jeans e la sua camicia bianca.
«Io...»
«Andiamo, biondino, non farti pregare.» lo spronò l’altro. Gli tirò la palla contro e Sebastian l’afferrò appena in tempo prima che gli rompesse il naso.
«Chi hai chiamato biondino?»
Il moro sorrise. «Allora, sei dei nostri?»
«Sebastian.» si presentò allungando la mano. L’altro gli porse la sua e la strinse.
«Kai» lo tirò «e non credo che i vestiti ti serviranno, qui.»
Sebastian sperò proprio che fosse un promessa.

*

«E bravo biondino, dove hai imparato a parare?» chiese Kai mentre Sebastian si accasciava sulla sabbia. Rise.
«Mio padre era convinto che mi sarei rotto l’osso del collo, così...» rispose. Kai si sdraiò accanto a lui e si puntellò sul gomito per guardarlo.
«Davvero? E adesso dov’è?»
Sebastian lo fissò senza capire, e l’altro sbuffò contrariato.
«Tuo padre, intendo.»
Lui si rabbuiò. Non voleva ripensare ai suoi e a quello che gli avevano detto subito prima che lui decidesse di scappare. Chiuse gli occhi, per non dover rispondere, e si voltò dall’altra parte.
«Ho capito, non vuoi parlarne.»
«No, non voglio parlarne.» confermò Sebastian «Dimmi di te. Che fai nella vita?»
Kai rise. «Mio padre ha una pescheria qui vicino. Viviamo qui sulla spiaggia. Laggiù.» allungò una mano e indicò un gruppo di linde casette di legno in fondo alla spiaggia, circondate da un boschetto di rigogliose palme.
«Quindi fai il pescatore?»
«Mio padre» lo rimbeccò Kai «comunque sì, a tempo perso. E poi scrivo per un giornale giovanile di Honolulu.» alzò il polso destro facendogli vedere una collana arrotolata con un dente di squalo fissato con un nodo. «Questo me lo ha portato mio padre dopo una notte di pesca. Lo squalo morse un pescatore, ma si salvò e dalla ferita hanno estratto questo. È un simbolo di coraggio. È preziosa per me.»
Sebastian lo fissò. Il suo volto abbronzato si tese in uno dei suoi bellissimi sorrisi. Aveva gli occhi di un nero assoluto, ma sembravano avere una luce propria quando sorrideva.
«Insomma, sai bene cosa fare della tua vita.» commentò. Kai aggrottò le sopracciglia.
«Perché tu no?» domandò. Sebastian sollevò le spalle.
«Mio padre critica tutto quello che faccio, mia madre non fa niente per difendermi. Quando ho scelto il college ha detto che non andava bene, che non mi avrebbe permesso di andarci.» sollevò la sabbia e se la fece scorrere tra le dita.
«Quindi non vuole che tu segua i tuoi sogni.» riassunse Kai.
«Già,» sospirò lui «è per questo che sono qui.»
«Sei scappato.»
Sebastian si mise seduto e fissò Kai negli occhi. Si guardarono per diversi momenti, poi Sebastian  si alzò e fece qualche passo sulla spiaggia. Era quasi il tramonto, ormai, e il cielo si incendiava di arancione e rosso e all’orizzonte era oro e blu. Non aveva mai visto un tramonto così. Respirò a fondo quell’aria limpida.
«Ho litigato con i miei» confessò «sul fatto che sono gay. Mio padre non lo accetta, mia madre non sa cosa fare, e allora... beh, all’ennesimo urlo ho preso lo zaino e me ne sono andato.»
Non aveva sentito Kai alzarsi, così sentì solo il suo braccio che si appoggiava al suo. Era caldo, e rassicurante. Rimasero in silenzio per parecchio tempo, poi fu Kai il primo a parlare.
«Hai un posto dove stare?» chiese. Sebastian arcuò le spalle.
«No.»
«Bene,» commentò Kai allontanandosi «allora vieni.»
Sebastian rimase immobile a guardarlo, prima di realizzare e afferrare la borsa per seguirlo.
«Dove andiamo?»
Kai lo guardò con uno strano sorrisetto. «Lo vedrai.»
Fu solo quando ebbero camminato a lungo sulla spiaggia che Sebastian si rese conto di dove lo stava portando Kai. Casa sua.
Kai lo fece entrare, e Sebastian si pentì immediatamente di aver accettato la sua ospitalità. La casa era tra il moderno e quello che lui intendeva come capanna, al centro della sala c’era un tavolo di legno di palma e bambù al quale sedevano una donna e un uomo, i genitori di Kai, presunse Sebastian, e una bambina, di non più di dieci anni.
«Makua, questo è Sebastian.» lo presentò Kai. L’uomo, che non poteva aver ancora superato i cinquant’anni si alzò con un sorriso sul volto abbronzato. Assomigliava incredibilmente a Kai.
«Aloha, Sebastian. Io sono Nahoa.»
Sebastian non sapeva che cosa fare o dire, perciò se ne stette in silenzio, stringendo la mano di Nahoa. La donna, la madre di Kai, si alzò a sua volta e si avvicinò.
«Aloha, ragazzo. Io sono Kaila. Benvenuto a casa nostra.»
Sebastian sorrise stentato. «Grazie, signora, io però...»
«Niente signora. Sarai stanco, immagino e affamato se sei stato con Kai tutto il giorno.» gli strizzò l’occhio, e Sebastian sospettò che ci fosse qualche significato nascosto sotto quell’affermazione. Poi sentì qualcuno che gli tirava i jeans, ormai irrimediabilmente sporchi di sabbia umida. Era la piccola che sedeva al tavolo. Piccola, insomma.
«Io mi chiamo Malie. Sono otto anni.» si presentò in un inglese un po’ arrabattato. Kai rise.
«Ho otto anni, Malie.» la corresse scompigliandole i capelli neri.
«No, io sono otto anni, tu ventidue.» replicò. Sebastian non poté fare a meno di accordarsi alle risate generali.
«Vieni, mentre mia madre cucina ti faccio vedere la cosa migliore di questo posto.» gli propose Kai, facendogli un cenno.
Perché non sei tu la cosa migliore?  avrebbe voluto domandare Sebastian, ma si trattenne. Oltrepassarono una porta, poi un corridoio su cui davano due camere da letto e il bagno e uscirono su quella che a prima vista lui aveva creduto una terrazza, invece era una specie di continuazione del pavimento, una palafitta proprio in mezzo all’acqua cristallina.
«Di solito vengo qui per guardare le stelle.» disse Kai. Sebastian era senza parole. Davanti a lui, in tutte le direzioni, c’era soltanto acqua.  Non ne aveva mai vista tanta tutta insieme. L’oceano.
A nord, verso il promontorio di Honolulu, si scorgevano le navi e i pescherecci che uscivano in mare con il favore delle tenebre per pescare crostacei, mentre, dove il sole era tramontato, le stelle stavano facendo capolino sull’orizzonte.
«È bellissimo qui.» commentò.
«Già» ammise Kai «vieni, ti do qualcosa di pulito da metterti.»
Sebastian lo seguì di nuovo dentro, poi in camera di Kai, rivestita di articoli di giornale, una tavola da surf in un angolo, uno skateboard che faceva capolino da sotto il letto, una scrivania e un armadio di palma. Gli gettò una maglietta blu e un paio di pantaloncini bianchi, e prese i suoi vestiti quando Sebastian se li fu tolti.
«Dirò alla mamma di lavarteli.»
«Non ce n’è bisogno!» obiettò Sebastian mentre s’infilava i pantaloni. Kai sorrise.
«Sì che ce n’è. Finché starai qui.»
Sebastian lo guardò uscire e rientrare un minuto più tardi. «Non starò a lungo,» rispose «non voglio essere un peso.»
L’altro lo guardò incrociando le braccia sul petto. «Non lo sei, infatti.» e la sua frase era una di quelle frasi che non ammetteva nessuna replica. Sebastian si infilò la maglia con un sospiro rassegnato. Non si sarebbe mai aspettato un’accoglienza del genere, da nessuna parte, soprattutto in un luogo così lontano da casa sua. Si prese tutto il tempo del mondo per annodare i lacci che stringevano l’elastico dei pantaloni per rimettere in sento le idee.
Suo padre lo avrebbe trovato, prima o poi, e lo avrebbe convinto a tornare a casa. Gli mancava sua madre, ma era ancora troppo arrabbiato per poter pensare di poter perdonare il suo comportamento. Era anche vero che lui non era mai stato capace di negoziare con suo padre o di essere diplomatico, così urlavano e gridavano tutti e due e sua madre non sapeva da che parte stare.
Non è colpa mia, pensò piccato. O almeno non era sempre colpa sua, come sosteneva suo padre.
«Hai bisogno di aiuto?»
Sebastian si riscosse e si voltò. Kai se ne stava appoggiato alla parete, le braccia incrociate sul petto.
«No, grazie.» rispose Sebastian arrossendo. Kai ridacchiò.
«Hai preso un po’ di sole,» lo informò avvicinandosi «hai il viso rosso.»
Il biondo si spostò di un passo all’indietro e Kai si fermò, arcuando le labbra in un ghigno che non aveva niente di rassicurante.
«Che fai, scappi?» domandò divertito. Sebastian deglutì, senza sapere che cosa dire. Voleva rispondergli per le rime, ma tanto ogni volta che cercava una frase ad effetto nel suo cervello quella non arrivava mai in tempo.
«Ragazzi, a tavola!»
Kai sospirò teatrale. «Salvato dalla cena.»
Sebastian lo fissò. «Salvato da cosa, di preciso?»
L’altro si limitò a guardarlo con quegli occhi neri come la notte e a sorridere. Ma in quel sorriso non c’era assolutamente niente di confortante.

*

Domani è Natale.
Sebastian aprì gli occhi. Dalle tende filtrava il sole e capì che era già mattina inoltrata. Precisamente era la mattina del 24 dicembre, la vigilia di Natale.
«Hoi Ahiahi Kalikimaka!»
Sebastian sobbalzò sul letto. Kai indossava già il costume da bagno e una maglia aderente azzurra ma aveva uno stupido cappello da Babbo Natale verde acceso e due collane di fiori rossi e bianchi.
«Buona vigilia di Natale.» tradusse poi quando si accorse della faccia di Sebastian.
«Ah. Grazie.» non era proprio in vena di ricambiare l’entusiasmo di Kai. Si alzò e si vestì, sotto lo sguardo dell’altro.
«Awe, che brutta cera!»
Sebastian non replicò, ma prese la ghirlanda che Kai gli offriva, e se la mise al collo, poi lo seguì fuori, sulla palafitta, dove suo padre aveva portato il tavolo e sua madre aveva disposto un cesto ricolmo di frutta matura.
«Dormito bene kaiki?» lo salutò Nahoa. Sebastian annuì prendendo quello che sembrava un mango maturo e lo spezzò con un coltello. Vedendolo in difficoltà Kai glielo prese dalle mani e lo sbucciò poi glielo rese. Sebastian mugugnò un grazie.
«Che cosa avete intenzione di fare oggi?» chiese Kaila.
«Andiamo a Waikiki.» rispose Kai prendendo un avocado. Sebastian lo guardò un momento, poi decise di lasciar perdere. Era come parlare al vento. Mangiò il suo mango, che era maturo al punto giusto e dolce come il miele, guardando l’orizzonte bagnato dall’oceano.
«Ti mancano i tuoi?»
Sebastian si voltò. Kaila lo guardava sorridendo dolcemente. Annuì.
«Un po’,» ammise «ma se sono qui è anche per colpa loro.»
«Avete litigato?»
Sebastian si morse le labbra, senza sapere se rispondere o meno. Alla fine decise che con qualcuno doveva pur parlare.
«Mio padre è uno di quei padri che vuole che il figlio segua le sue orme. Il mio destino era quello di fare il notaio» raccontò «ma io ho altri progetti. Ho scelto lettere, voglio fare lo scrittore e non me la cavo nemmeno male, ma lui...» lasciò in sospeso la frase, certo che tutti avrebbero capito lo stesso.
«I padri sono sempre un po’ rigidi per quanto riguarda i figli» commentò Nahoa «anche Kai e io abbiamo avuto le nostre discussioni.»
Sebastian annuì. «Ma non è proprio tutta la storia.» aggiunse mordendosi l’interno della guancia. Kai, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, piluccando il suo avocado fece una cosa che mai Sebastian si sarebbe aspettato: si spostò sulla panca a cui erano seduti e gli coprì la mano che stava sul tavolo con la propria. Nessuno disse niente, nessuno si irrigidì o si scandalizzò per quello che Kai aveva appena fatto.
Sebastian stava per aprire bocca e lasciar andare, ma qualcosa gli picchiettò sulla gamba. Era Maile. Indossava lo stesso buffo cappello di suo fratello, ma un gonnellino rosso e una canottiera verde acceso.
«Domani è Natale.» gli disse «Tu stai qui con noi?»
Sebastian si irrigidì. Già, domani è Natale, pensò. E lui era alle Hawaii.
«Andiamo,» Kai si alzò tirandolo per il polso finché anche lui ebbe fatto lo stesso «Waikiki ci aspetta.»
Così Sebastian fu caricato nella jeep di Kai che partì a tutta velocità per raggiungere la spiaggia di Waikiki, la più turistica dell’isola. Infatti c’era un sacco di gente, e a Sebastian la cosa non piaceva per niente. Ma Kai sembrava di altro avvivo perciò scesero dalla macchina per avvicinarsi alla spiaggia, dove Kai trovò delle conoscenze.
Quei ragazzi sembravano perfettamente acclimatati con il mare e la spiaggia, erano abbronzati, snelli e belli come il sole, mentre lui era bianco come il latte, biondo e con gli occhi azzurri. Temeva di apparire completamente fuori posto e di essere schernito, invece ben presto si accorse che era appena diventato argomento di conversazione. Gli chiesero se davvero nel suo paese nevicava o se sciava in montagna invece di fare surf in mare. Sebastian disse che era praticamente impossibile surfare nello Stretto della Manica.
Fu una giornata indimenticabile, dal suo punto di vista. Mangiarono gamberetti piccanti al banchetto di Kamekona, un gigante hawaiano di almeno due metri di altezza, corsero sulla spiaggia, Kai gli insegnò i rudimenti del surf.
Era ormai il tramonto quando gli altri ragazzi se ne andarono. La spiaggia si era fatta semi deserta, a parte per qualche coppietta che sostava ai moli. Kai si sedette al riparo di una piccola duna, fuori dalla portata della vista degli altri e Sebastian sedette accanto a lui.
«Domani è Natale.» disse improvvisamente malinconico. Non gli piaceva il fatto di essere lontano da casa proprio a Natale, ma... beh, i suoi se l’erano cercata.
«Lo so,» rispose Kai «vuoi tornare a casa?»
«Non lo so.» replicò Sebastian. In un moto di pazzia quel pomeriggio era andato a comprare un telefono e aveva chiamato l’aeroporto. Un volo partiva il giorno dopo, alle cinque del pomeriggio. Lo aveva detto a Kai ma non sapeva se lo avrebbe preso oppure no.
«Credo che dovresti pensarci,» dichiarò il moro con un’alzata di spalle «anche se temo già di sapere quale sarà la risposta.»
Sebastian lo guardò. Kai teneva gli occhi fissi all’orizzonte, come se in quell’orizzonte screziato di rosso ci fossero tutte le risposte del mondo. E forse, si disse, era proprio così. Non sarebbe stato così semplice rimanere lì con Kai, in quell’isola, circondato dall’oceano? E poi, l’oceano era Kai. E lui amava l’oceano.
«Tornerò.» disse a un tratto «Qui.»
Kai lo guardò senza capire.
«Devo andare a casa,» spiegò Sebastian con rammarico «ma tornerò.»
Il moro continuò a guardarlo, come se non lo vedesse davvero, poi si sporse così lentamente che Sebastian avrebbe potuto respingerlo se avesse voluto, ma non lo fece, così le loro labbra s’incontrarono per un breve attimo, prima che Kai si scostasse.
Lo guardò negli occhi, e Sebastian non poté fare altro che ricambiare quello sguardo e sorridere. E così Kai lo baciò. Un bacio lento, appassionato, di quelli che ti rimangono sotto la pelle per sempre.
Sebastian si lasciò cadere sulla sabbia fresca, mentre Kai lo sovrastava e lo tratteneva con il suo peso, ma anche se non l’avesse fatto Sebastian non sarebbe andato da nessuna parte.
La sabbia la sentiva dappertutto, sulle mani, sul viso, sulla pelle. Mentre facevano l’amore sulla spiaggia Sebastian domandò se quello fosse veramente il paradiso e Kai gli rispose con una frase in hawaiano che Sebastian non decifrò. Si sarebbe fatto dire che cosa significava, visto che gli era rimasta impressa nell’anima.
Quando tornarono a casa non c’era anima viva, forse i suoi erano a festeggiare sulla spiaggia. Rimasero sulla palafitta per un tempo infinito, guardando la luna sorgere. In quel momento Sebastian fissò Kai. Gli occhi neri dell’hawaiano lo fissarono di rimando.
«Che cosa vuol dire quello che mi hai detto prima?» chiese a un tratto Sebastian. Kai sorrise.
«Ho detto molte cose.» gli fece notare. Sebastian sospirò.
«Aloha wau ia 'oe.» ripeté un po’ stentato. Kai rise della sua pronuncia.
«Lo sai già» rispose tornando improvvisamente serio. «Lo sai Sebastian. Lo sai.»
E Sebastian lo sapeva, lo sapeva perfettamente. Gli bastava guardare gli occhi neri di Kai per capirlo. Si morse le labbra, mentre guardava la luna rotonda nel cielo.
«Io... non posso restare.»
Kai annuì brevemente. «Lo so.»
«Ho un sacco di cose da mettere a posto, cose da dire e da fare e... ma non voglio andarmene.» aggiunse. Kai scoppiò in una risata.
«So anche questo» replicò «ma non preoccuparti.»
Sebastian aggrottò la fronte ma Kai non gli permise di parlare perché gli premette la mano sulla nuca e lo attirò a sé per baciarlo.
«Io aspetterò.» gli sussurrò sulle labbra, ponendo fine al loro bacio. Sebastian si leccò piano le labbra, guardandolo negli occhi così da vicino come non aveva mai fatto con nessuno.
«Chi ti dice che tornerò?» domandò.
Kai sorrise. «Nessuno. Mi fido di te. Hai detto che tornerai e io ci credo.»
L’altro rimase per un momento immobile, la mano di Kai ferma sulla spalla, calda e rassicurante.
«Abbiamo ancora un po’ di tempo.»
Kai fece scorrere la mano dalla sua spalla al suo polso e glielo cinse leggero, poi si tolse la collana con il dente di squalo che portava arrotolata al polso destro e la arrotolò a quello di Sebastian.
«Ma questa...»
«Shh.» gli intimò Kai «Non è un regalo,» precisò «è solo un prestito. La rivoglio indietro, malihini, capito?»
Sebastian annuì. L’hawaiano intrecciò le dita alle sue.
«Cos’è che stavi dicendo sul tempo?» domandò mentre l’altra mano gli sfiorava il fianco. Sebastian rabbrividì.
«Che ne abbiamo ancora un po’.»
«Davvero?» Kai gli premette la mano aperta sul petto e lo incitò ad alzarsi. «Beh, allora non dovremmo sprecarlo, tu che dici?»
Il biondo camminò all’indietro fino a che non andò a sbattere contro la porta della casa di Kai.
«Dico che sono d’accordo.» esalò, mentre l’altro apriva la porta e lo spingeva dentro. Barcollarono per un po’, fino a quando Kai non trovò una superficie piana su cui spingerlo. Gli prese i polsi tra le mani baciandolo come se dovesse essere l’ultimo bacio.
«Kai.» ansimò Sebastian. Gli occhi dell’altro lo fissarono vicinissimi.
«Sì?»
Sebastian lasciò sfuggire una lacrima e sorrise. «Aloha wau ia 'oe.»
Kai gli tappò la bocca prima che potesse finire la frase, ma Sebastian era convinto che avesse capito perfettamente, perché non tutte le lacrime che sentiva tra le labbra erano le sue.



*Malihini, - straniero in hawaiano.
kaiki - ragazzo
Hoi Ahiahi Kalikimaka - buona vigilia di Natale, (o quasi.)
Aloha Hauʻoli - ciao felicità.
Aloha wau ia 'oe - ti amo. In hawaiano aloha ha due significati, quello che conosciamo tutti, “ciao”, e amore.
Kamekona – non è inventato, è l’amico di Steve McGarrett di Hawaii Five-O.

   
 
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