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Autore: Silvar tales    27/12/2012    1 recensioni
Tra tutte le cose a cui poteva pensare in quel momento, gli venne spontaneo riflettere sulla differenza che intercorreva tra il mondo dei coloni e il loro.
Nessuno dei Mohawk si era mai dato pena nel vivere la propria vita con naturalezza, con spontaneità, proprio perché i loro bambini crescevano immersi nella natura più libera e selvaggia.
Veniva insegnato loro il rispetto, l'esistenza di un qualche cosa di superiore e sacro impossibile da afferrare, l'esistenza di un ecosistema fragile da preservare, da curare, da accogliere con gioia.
Non vi era bisogno di moralità, ciò che era in accordo con la natura era di conseguenza giusto e legittimato.
L'amore era giusto. L'amore era innocuo ed apparteneva alla natura. L'amore era una buona cosa.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Connor Kenway
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ratonhaké:ton

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Ratonhaké:ton non era conosciuto come un ragazzino particolarmente forte o prodigioso tra la sua gente.
Pur senza eccessiva passività, rispettava il bene comune della tribù sopra ogni altra cosa, obbediva, era animato da un profondo senso di rispetto per gli adulti, per gli animali, per la natura stessa.
La sua era l'attitudine di un ragazzino normale, senza sregolatezze, con la giusta cognizione delle cose, con la giusta dose di furbizia ed agilità - sia mentale che fisica.
Eppure, quei suoi occhi neri e lucidi trasmettevano qualcosa di più. Trasmettevano un urlo silenzioso, una rabbia interiore, una ferrea volontà di spezzare le catene che gli impedivano di spiccare il volo.
Ratonhaké:ton era pronto a cambiare la sua condizione, qualunque fosse stato il destino a cui sarebbe andato incontro.
Era pronto ad uscire dal nido, dall'apparente ala protettiva della valle Mohawk. Perché aveva compreso che il mondo che credeva eterno ed intaccabile era in realtà fragile e indifeso, e sarebbe potuto sprofondare nelle fiamme da un momento all'altro.

Si morse le labbra, annusando l'aria e lasciando che il vento invernale gli fischiasse nelle orecchie. Tese l'arco alzando il gomito oltre le spalle.
Sotto i suoi piedi, un alce adulto con un'imponente impalcatura di corna era impegnato a spellare la corteccia di un abete.
L'animale scuoteva la testa sbuffando nervoso, avvertiva l'odore di Connor nell'aria ma il fatto di non riuscire ad individuarlo lo irritava.
Il ragazzo assicurò meglio i piedi sul suo ramo d'appoggio e allargò le braccia per mantenere l'equilibrio. Strinse gli occhi per prendere meglio la mira ma, in quell'attimo, respirò accidentalmente un fiocco di neve. Storse il naso lasciandosi sfuggire una smorfia per il fastidio, e cercò con tutte le sue forse di non starnutire; ma inutilmente.
Non riuscì a bloccare quel riflesso involontario e, nell'atto di tapparsi la bocca con la mano, si sbilanciò in avanti spezzando una frasca.
Il rumore dello schiocco fu minimo ma sufficiente ad allarmare l'alce che, infastidita, si diresse al galoppo verso la radura.
Connor sospirò, maledicendosi.
Pensava che l'addestramento di Achille fosse servito ad affinargli i riflessi, eppure lui sembrava addirittura peggiorato in abilità e destrezza da quando aveva lasciato il villaggio.
Scese dall'albero atterrando sgraziatamente tra la neve alta, e si accorse subito dell'errore commesso. Se un branco di lupi l'avesse attaccato in quel momento, si sarebbe trovato in una posizione estremamente vulnerabile. Perciò saltò sull'albero successivo usando un tronco caduto come appoggio, saggiando cautamente con i piedi il legno marcio che scricchiolava sotto i suoi leggeri passi.
Ratonhaké:ton era avvezzo a convivere con i pericoli della foresta, non temeva le minacce della natura. Anzi, c'erano ben altri pericoli disseminati nella vastità della Frontiera, di gran lunga più malvagi, dotati di un'intelligenza maliziosa e di un'incredibile dose di vigliaccheria.
Connor fece una smorfia quando udì i canti sguaiati di un gruppo di ufficiali inglesi in pattuglia, sbronzi probabilmente.
Deciso a tenere sott'occhio la situazione, avanzò verso quella fonte di rumore che disturbava il silenzio della foresta annegata nella neve.
Balzò agilmente di ramo in ramo, facendo attenzione a non scivolare, e atterrò su un abete piuttosto alto, con le fronde sporgenti sulla strada.
In quel momento passò la rumorosa pattuglia: era un esiguo gruppo di quattro uomini, visibilmente esaltati dall'alcool ma resi vispi dal mordace freddo continentale. La tentazione di ingaggiare un combattimento era forte, tanto che il ragazzo si sporse in avanti con l'intenzione di coglierli di sorpresa atterrando in mezzo a loro, ma qualcosa lo fermò appena in tempo.
Con la coda dell'occhio vide una macchia scura aggirarsi alle sue spalle, proprio sulla curva successiva della via che attendeva il gruppo di soldati.
Un lupo, parecchio affamato per giunta.
Ignorò il gruppo di inglesi chiassosi e rivolse la sua attenzione verso la bestia. L'esperienza gli aveva insegnato che un lupo non si muoveva mai da solo in pieno inverno, a meno che non fosse gravemente ferito. E infatti non impiegò molto ad individuare almeno altri cinque predatori, non lontani dal capobranco.
Un sorriso gli si aprì spontaneamente sulle labbra.
Non c'era bisogno che ingaggiasse nessun combattimento. La sua alleata più fedele, la natura, aveva già provveduto.
Saltò sul ramo dell'albero adiacente e si diresse verso la tenuta Davenport, lasciandosi alle spalle le grida dei soldati.


*

Nonostante la neve alta e la scarsa visibilità, camminava ad un ritmo piuttosto sostenuto.
Di quel passo avrebbe raggiunto la casa di Achille sul far della notte, se non avesse incontrato quel piccolo contrattempo.
«Ratonhaké:ton».
Connor s'irrigidì, fermandosi all'istante sulla via. Era tanto che non sentiva chiamare il suo vero nome, e sapeva che soltanto uno dei Mohawk poteva chiamarlo in quel modo.
Si voltò e vide un volto familiare, un volto che gli ricordava fin troppo bene casa sua.
«Adahy», rispose chinando appena il capo, ma la sua espressione rimase neutra. Improvvisamente si accorse di non essere tanto distante dal suo villaggio.
Adahy aveva diciassette anni, sei mesi in meno di lui, ma un viso più spigoloso e maturo, leggermente più pallido e con meno lentiggini.
Come Connor, era cresciuto assieme ai Mohawk. Come Connor, aveva perso delle persone a lui molto care durante l'incendio che uccise Kaniehti:io: i suoi nonni. Sua madre e suo padre, invece, furono massacrati dagli inglesi anni addietro.
L'odio che Adahy nutriva verso quegli spietati oppressori era spropositato in confronto a quello che avvelenava Connor.
Quest'ultimo gli fece cenno di seguirlo sugli alberi, com'erano abituati a fare.
Con le dita fece leva su una protuberanza del tronco per raggiungere la successiva, puntellando i piedi contro la corteccia scivolosa. In pochi agili movimenti raggiunse la biforcazione del tronco e saltò sul ramo successivo.
Adahy lo seguì con movimenti altrettanto fluidi e disinvolti.
Connor, sentendo i suoi passi dietro di sé, si lasciò sfuggire un sorriso.
All'istante Achille era svanito dai suoi pensieri, nonostante la luna sorgesse maculata di neve e lui si fosse ripromesso di raggiungere la tenuta prima che calasse la notte. Ma il suo mentore avrebbe potuto benissimo attendere la mattina successiva.
I due ragazzi si inseguirono in silenzio, tra gli alberi, senza scambiarsi una sola parola. Con l'aspettativa che infiammava i loro cuori.
Adahy stava al passo, anzi, forse superava Ratonhaké:ton in bravura. Forse sarebbe stato un Assassino migliore di lui, se solo non fosse stato così diffidente verso tutto ciò che non riguardava il suo villaggio, la sua cultura, il suo popolo.
Come dargli torto, visto il passato che gli gravava sulle spalle.

Attraversarono una porzione abbondante di foresta, seguendo il fiume, rimanendo sugli alberi per non incappare in probabili branchi di lupi affamati.
Poi si fermarono su un piccolo promontorio spoglio di alberi, illuminato dalla luna. La neve che cadeva dal cielo stava diventando più rada.
«Perché hai lasciato il villaggio? Non sarai un traditore, vero?» Gli domandò Adahy con occhi sospettosi, non appena si fermarono sulla roccia.
Connor lo guardò negli occhi, scuotendo la testa.
Attese qualche minuto prima di rispondergli, tempo nel quale tentò di riprender fiato. Sfregò le mani tra loro cercando di riscaldarle, poi finalmente si decise a parlare.
«Io penso che tu sia molto coraggioso, rimanere nel forte che sta per essere assediato, magari per combattere fino all'ultimo insieme alla tua gente, stentando, arrivando persino a sacrificarti».
Prese un respiro, guardando i suoi occhi neri colmi di risentimento. Sapeva che per Adahy la sua “fuga” dalla valle Mohawk equivaleva ad un abbandono. E se ne dispiaceva.
«Ma io non sono così. Io ho preferito uscire dalla fortezza, ricercare i motivi di quest'odio, studiare i miei nemici e, magari, prevenire l'assedio. Io non ce la faccio a morire in trappola come la mamma. Non riuscirei a sopportare l'idea».
Adahy strinse gli occhi, turbato. Guardava Connor come se volesse cercare ombra di menzogna sul suo viso, ma non ne trovò. Lesse soltanto dispiacere, paura e, allo stesso tempo, euforia. Un'enorme forza di volontà, volontà di cambiare le cose, di imparare, di fare delle domande e ricercarne le risposte.
«Chiamala codardia, chiamala indole, chiamala come preferisci. Questa è la verità del mio sentire».
«E cosa senti oltre a questo, Ratonhaké:ton?» Gli chiese avvicinandoglisi, afferrandogli una mano con delicatezza, com'erano abituati a fare tra di loro.
Connor si appoggiò al tronco d'albero alle sue spalle, cercando di interporre ulteriore distanza tra sé ed Adahy.
Abbassò lo sguardo, ascoltando il rumore soffice della neve che cadeva coperto dal battito del suo cuore.
Una punta di vergogna gli stuzzicò il petto. Se voleva diventare un Assassino, doveva cominciare con il sopprimere la paura e il turbine dei sentimenti.
Ma in fondo, cosa ci poteva mai essere di sbagliato in un bacio, nel toccarsi, nel fare l'amore? Questa era una di quelle cose che Achille tentava di insegnargli, e che Connor non arrivava a comprendere.
«Sento che è in arrivo un grande male per tutti noi».
Connor sentiva il respiro caldo di Adahy sul mento. Una sensazione familiare gli offuscò la mente, ed avvertì uno strano formicolio pervadergli l'addome.
Si baciarono con naturalezza, scambiandosi pochi caldi tocchi.
Connor inclinò la testa e grattò nervosamente la corteccia dell'albero cui era appoggiato, impolverandosi le unghie.
Tra tutte le cose a cui poteva pensare in quel momento, gli venne spontaneo riflettere sulla differenza che intercorreva tra il mondo dei coloni e il loro. Nessuno dei Mohawk si era mai dato pena nel vivere la propria vita con naturalezza, con spontaneità, proprio perché i loro bambini crescevano immersi nella natura più libera e selvaggia. Veniva insegnato loro il rispetto, l'esistenza di un qualche cosa di superiore e sacro impossibile da afferrare, l'esistenza di un ecosistema fragile da preservare, da curare, da accogliere con gioia. Non vi era bisogno di moralità, ciò che era in accordo con la natura era di conseguenza giusto e legittimato.
L'amore era giusto. L'amore era innocuo ed apparteneva alla natura. L'amore era una buona cosa.
«Tu mi mancherai Adahy», disse Connor dandogli un altro bacio, bagnandosi le labbra del suo sapore salato.
Gli sarebbe mancato davvero, non far più l'amore con lui, di nascosto, in luoghi che conoscevano soltanto loro, in anfratti che solo due aquile avrebbero potuto raggiungere. Non inseguirlo più tra i rami. Non sentire le sue silenziose risate a bocca chiusa.
Connor sapeva qual era il suo timore più grande, glielo leggeva negli occhi. Aveva paura che cambiasse, che venisse corrotto dalla civiltà dei coloni, che non tornasse più tra la sua gente.
«Sei sempre stato fin troppo ostile ad ogni cambiamento Adahy», soffiò il ragazzo sorridendo divertito. «Così come farai ad abituarti quando inizierete per davvero a vivere in pace?»
Detto questo, Connor fece per divincolarsi dalla sua debole stretta, ma Adahy lo trattenne poggiandogli due mani sulle spalle.
«Noi abbiamo già conosciuto un mondo in pace, Ratonhaké:ton. Aspettiamo solo che ci venga restituito».
Connor sentì il cuore sobbalzargli in petto.
Aveva ragione.
Aveva capito.
Poggiò a sua volta un braccio sulla spalla destra di Adahy, e sorrise.
«Non ti dimenticherò Adahy, te lo prometto».

Adahy lo guardò allontanarsi con un mezzo sorriso sulla bocca, consapevole che non l'avrebbe rivisto mai più.
Ora sapeva che doveva riporre in lui le sue speranze. O meglio, quello che rimaneva delle sue speranze.
La neve continuava a cadere sui profili della Frontiera, lenta e indelebile.
La neve non cancellava le tracce di un Assassino che cresceva.
Che avrebbe ridato la libertà al suo popolo.










   
 
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