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Autore: Yoko Hogawa    27/12/2012    11 recensioni
« Non mi dire, il Fantasma del Natale Presente? » borbottò contrariato, aggrottando le sopracciglia con fare scocciato.
Quello, alzando un sopracciglio, annuì con un cenno secco. « Ovviamente. Non hai letto Dickens? Siamo in tre » disse, alzando altrettante dita della mano.
« Sì, lo so. Speravo solo di smaltire la sbronza prima che arrivassero gli altri due » gli rispose il medico, passandosi il palmo sugli occhi chiusi.
[Post Reichenbach][Johnlock/Parentlock][un pizzico di Mystrade][Sale e pepe q.b.][Agitare prima dell'uso]
Genere: Fantasy, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Lestrade , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: I personaggi di Sherlock non sono di mia proprietà (tranne Hamish che appartiene al fandom), sono stati creati da sir Doyle e, successivamente, adottati da Moffat e Gatiss (dateci la terza serie, ci serve). Tutto ciò che faccio io è soffrire nell’attesa e non vengo nemmeno pagata, pensate un po’.

 

Note: è la terza volta che ricomincio questa fic, spero seriamente che sia quella buona.

Non fatevi ingannare dagli avvertimenti! C’è un sacco di roba da taglio di vene ma vi assicuro che non è da suicidio. Anzi, rispetto alla mia media è persino speranzosa XD (...devo farmi ricoverare al più presto).

Johnlock implicito, Post Reichenbach, Reunion (a sort of), Parentlock (ormai mi scorre nelle vene insieme al sangue). Liberamente ispirato a A Christmas Carol di Charles Dickens. Secondariamente liberamente ispirato allo Special di Natale 2010 di Doctor Who e ad una sua citazione, la quale dà il titolo alla fic.

Per una volta mi permetto anche di consigliarvi la canzone che ha fatto da colonna sonora durante la stesura, presa sempre dallo Special di Natale di DW: Abigail's Song (Silence is All You Know).

 

Dedica: nonostante sia arrivata in ritardo, questa è dedicata alle ragazze del TCATH. Bellissime persone, vi conosco da meno di un anno e già non posso fare altro che adorarvi. Questa è per voi, nella speranza che vi piaccia, insieme ai miei auguri di un buon Natale e felice 2013

 

A chiunque voglia passarsi mezz’ora, auguro buona lettura

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Halfway Out of the Dark

 

 

 

 

 

Seduto sul davanzale della finestra del salotto, John guardava ormai da ore Baker Street correre silenziosa sotto di sé.

La pendola aveva suonato da qualche minuto le dieci di sera del 24 dicembre e tutte le persone che avrebbero riempito le strade ogni altro giorno – di ritorno dal lavoro, diretti al pub o a casa di amici, semplicemente di passaggio – quella sera avevano di sicuro ben altro da fare. La vigilia di Natale faceva questo effetto, di solito.

Si immaginò, sistemandosi gli auricolari del lettore mp3 nelle orecchie, i grandi cenoni. Il tacchino, i piatti da portata, le luci soffuse delle candele e lo scintillio dell’albero addobbato. I sorrisi degli amanti, le risate dei bambini. La neve, che quell’anno non aveva fatto loro visita ma che era così frequente nell’immaginazione della gente quando pensava al Natale. Lo scambio dei doni a mezzanotte insieme agli auguri. Per i più tradizionalisti, poi, il brindisi con un buon spumante italiano, la nuova moda in fatto di “bollicine” per le festività (una commessa era stata così gentile da informarlo di questo must have al Tesco, mentre comprava gli ingredienti per la sua cena della vigilia: latte, pane, una confezione precotta di chicken tikka masala1, un paio di bottiglie di vino rosso che sull’etichetta portavano la scritta “Sangiovese” ma, a giudicare dal prezzo stracciato, dubitava che fosse qualcosa di più del fondo della botte).

Lui non avrebbe avuto nulla, di tutto quello. Lui non voleva nulla di tutto quello.

Accese il lettore mp3, impostandolo sulla riproduzione singola. Sospirò quando le prime note di Silence is All You Know risuonarono nelle sue orecchie, accompagnando i suoi occhi a socchiudersi e la sua mente a vagare nei ricordi.

Memorie in cui il salotto ora buio dietro era illuminato da una calda luce confortevole. Dove un piccolo alberello di Natale riempiva il vuoto vicino al divano, fili di lucine colorate pendevano dalle finestre e attaccate allo specchio sopra al camino, le note di Silent Night addolcivano l’aria ora immobile portate dal suono di un tanto amato violino, suonate da una mano altrettanto amata.

Una mano che non c’era più, insieme a tutto il resto. Un tutto che mancava da quella vita ormai da un anno e mezzo. Il tocco gentile di una carezza che aveva avuto solo una volta, di cui aveva goduto solo per un istante, prima che il proprietario di quel calore decidesse di rinnegare se stesso in un messaggio di addio e costringerlo a guardare la sua caduta.

Lo aveva costretto ad imprimersi negli occhi una scena che lo tormentava, di notte così come di giorno, che occupava i suoi pensieri e non lo lasciava dormire in pace, che infestava la sua mente come una malattia infettiva degenerativa, che deteriorava il suo cervello come ruggine sul ferro: lentamente.

Deglutì, sospirando a labbra socchiuse. Il cellulare, nella tasca dei pantaloni del pigiama, vibrò contro la sua coscia.

Una messaggio. Lestrade.

C’è sempre posto per una persona in più.

John non ebbe nessuna reazione nel leggere quelle parole. Pensò che, probabilmente, un anno e mezzo prima gli avrebbero fatto piacere, gli avrebbero scaldato il cuore.

Ma un anno e mezzo prima era con Sherlock, quella sera. Stava ascoltando il suo violino, lo guardava muoversi per l’appartamento, fare brutte figure con Molly, cercare di essere cortese senza minimamente riuscirci. Condividere qualcosa con le persone, con i suoi amici, con lui.

E anche se non era perfetto, era comunque bellissimo.

Ma ora non provava niente, nemmeno l’ombra di tutto quel calore, e rispose al messaggio di Greg solo per pura cortesia. Non aveva voglia di andare a casa sua, vedere gli sguardi di pietà che ancora gli riservavano le persone che conosceva, assistere alla sua relazione con Mycroft, approdata da poco allo stadio delle occhiatine di sottecchi e dei sorrisetti a mezze labbra. Gli metteva davanti al naso una cosa che lui aveva avuto l’opportunità di avere ma non ne aveva approfittato, non fino in fondo, e quando si era accorto di volerla davvero ormai era troppo tardi. Il tempismo della vita che lo mandava a fanculo per l’ennesima volta.

Il cellulare tremò di nuovo fra le sue mani. Un altro messaggio. Sempre Lestrade.

Ti prego, John. Ti stiamo tutti aspettando.

Questa volta, non gli usò nemmeno la cortesia di una risposta. Abbassò la mano e si lasciò scivolare il telefono dalle dita, che impattò con il pavimento con un rumore sordo di plastica che si crepa. Non gli importò più di tanto.

Allungò la sinistra al suo fianco, afferrando tra le dita il collo lungo di una bottiglia di vino. Se la portò davanti al naso e la aprì, non senza un po’ di fatica, facendo saltare il tappo che finì chissà dove.

Non si sprecò nemmeno di prendere dei bicchieri. Alzò direttamente la bottiglia scura al cielo, sorridendo beffardo ad un luogo in cui nemmeno credeva, sperando tuttavia che là fosse la persona a cui quel brindisi solitario era dedicato e che lo stesse guardando, e che stesse finalmente provando qualcosa ora che era ridotto a sol’anima, e magari che stesse facendo a botte con il proprio senso di colpa, fra tutto.

« Buon Natale, stronzo ».

 

 

 

« John? ».

Non ricordava di essersi addormentato. Ma le cuffie del suo mp3, ancora ben piantate nelle orecchie, erano silenziose. Si dovevano essere scaricate le batterie, il che la diceva lunga sulla quantità di tempo in cui era rimasto senza coscienza.

Le sue labbra sapevano di vino e una bottiglia vuota giaceva riversa sul pavimento, rotolata fino alla libreria. Non si ricordava di avere aperto la seconda, però, ed infatti era ancora piena e sigillata ai piedi del davanzale. Meglio così. Aveva passato poche sbronze nella sua vita – assistito a molte di più – e quelle da vino erano notoriamente le peggiori.

Si passò la lingua sulle labbra, mugugnando di dolore quando cercò di muovere la schiena bloccata, ogni muscolo ad inviargli fitte dolorose su per la spina dorsale. Scontato, quando si dorme per ore contro l’infisso della finestra.

Tentò di stirarsi, ignorando il dolore, e pensò di trascinarsi in camera di Sherlock – per dormire sopra il suo copriletto, degna conclusione di quella vigilia solitaria e triste e vuota – ma fu solo quando quel pensiero si depositò che un lampo di dubbio attraversò le volute nebbiose che l’alcool aveva creato nella sua testa.

Qualcuno lo aveva... chiamato?

« Sì, infatti. Era ora. Certo che ce ne hai messo di tempo per accorgertene ».

John sobbalzò violentemente alla voce che lo raggiunse, sufficientemente vicina da essere nella sua stessa stanza, e subito balzò in piedi, la mano sinistra in cerca della pistola (che non portava) in uno scatto dettato dall’istinto del soldato.

Si guardò intorno con ansia, scrutando il buio del salotto illuminato solo dalla luna a tre quarti nel cielo sereno, cercando al contempo di non rimanere soggiogato dal panico e di calmare il battito del proprio cuore impazzito.

« Chi sei? Fatti vedere! » gridò, incollando la schiena al muro e alzando i pugni davanti al volto in posa di combattimento. Non era bravo nel corpo-a-corpo, ma in caso di necessità sapeva per lo meno difendersi.

« Oh, non esagerare, vuoi? Sei ridicolo. Sono io, stupido idiota, io! » disse la voce, la quale fu subito associata ad un volto non appena il proprietario (o meglio, la proprietaria) entrò nel cono di luce bianca proiettato dalla finestra.

E John non credette ai suoi occhi.

« H-Harry... ?! » domandò sconvolto, osservandola.

Era sua sorella, ma non era lei. O meglio, non poteva essere lei. Sua sorella aveva  cinque anni in più di lui, cinque maledetti anni in più di lui, cinque anni che molte volte lei aveva sfruttato per imporre il suo volere, soprattutto quando era nel pieno dell’adolescenza e lui aveva appena abbandonato l’infanzia.

Harriett Watson doveva aver compiuto la bellezza di trentasette anni quell’anno, dunque la ragazzina appena quindicenne con le trecce color sabbia e la camicia da notte bianca con gli orsetti non poteva essere sua sorella Harry. Punto.

Lei roteò gli occhi blu – un blu un po’ più scuro di quello di John – e sbuffò contrariata.

« Non devo farti tutto il discorso, vero? Dimmi che non è necessario, ti prego, faccio schifo a spiegare le cose alla gente » disse, il tono scocciato che era stato la sua firma durante l’adolescenza.

Quando il panico passò, grazie alla convinzione che in realtà stesse ancora dormendo e che fosse tutto un assurdo sogno, John la prese un po’ più con calma.

Per lo meno, riuscì a riprendere possesso della propria voce: « sei... giovane » sottolineò.

Harry alzò un sopracciglio. « È bello vedere che la prendi con filosofia » disse.

« Se fosse reale sarei pazzo » le rispose John, sedendosi di nuovo sul davanzale.

Quella si accigliò. « Cioè tu credi che sia un sogno? » domandò, più retoricamente che altro, scuotendo poi piano la testa in un modo teatrale: « da bambino eri parecchio ottuso ma non pensavo che lo saresti stato anche da adulto, Johnny ».

Fu il turno di John di accigliarsi. « Vuoi dire che sei... reale? » chiese, già sull’orlo di un’inevitabile crisi di nervi.

Ma Harry face spallucce. « Dovrei. Starà a te deciderlo, suppongo. Ora potresti alzarti e seguirmi? Abbiamo parecchio da fare e non voglio perderci tutta la notte, anche perché ho i minuti contati. Letteralmente » sottolineò: « agli altri non piace aspettare » disse.

John la guardò con tanto d’occhi, interdetto. « Agli altri? » ripeté, lo sguardo vacuo.

Lei lo guardò negli occhi per qualche istante prima di riprendere parola: « non hai capito, vero? ».

Il medico non seppe più dove andare a parare, ed era già predisposto a risponderle male quando lei decise di riprendere il discorso, alzando drammaticamente le mani e rivolgendo lo sguardo al soffitto.

« Andiamo, Johnny! Avrai letto quella pappardella di Dickens almeno venti volte, e sicuramente ti sei cuccato tutte le versioni cinematografiche fatte fino ad oggi. Non puoi non esserti accorto di chi sono! » esclamò la ragazzina.

Watson la guardò con una smorfia a metà fra l’incredulo e il non-può-essere-possibile, le labbra arricciate verso l’alto e la fronte aggrottata. Quando l’illuminazione lo colse, non poté far altro che scoppiare lentamente in una risata amara.

« Stronzate » disse poi: « non mi verrai a dire che sei il Fantasma del Natale Passato, vero? » domandò, più drasticamente divertito che serio.

Harry non disse niente, aspettando che il fratello smettesse di ridere e tornasse a guardarla.

John si fece più serio. « Sei... il Fantasma del Natale Passato? » domandò, incredulo.

Harriett fece una faccia scontata, annuendo con il capo.

L’uomo, però, non gliela diede ancora vinta. « Oh, andiamo! Se proprio devo avere una psicosi delirante che almeno non sia a tema natalizio! » si lamentò: « plagiare “A Christmas Carol” e metterci mia sorella nel suo periodo più insopportabile è troppo anche per me! » continuò, sfregandosi gli occhi con le mani.

Tornò poi a guardarla, trapassandola da parte a parte. « Cos’ho fatto per meritarmi questo? Non ho niente a che fare con Scrooge. Non ho schiavizzato nessuno » esclamò.

« Che fai, lo chiedi a me? E io cosa ne so, di grazia? » rispose lei, arrogante.

« Sei tu il Fantasma del Natale Passato, qui, non io! ».

« E allora?! Avrai fatto incazzare lo Spirito del Natale, cosa vuoi che ne sappia io? » ribatté quella, la voce stridula da quanto alta.

« Cominciano ad esserci un po’ troppi Spiriti qui... » borbottò però John, massaggiandosi con le dita l’attaccatura del naso.

Harry lo guardò, la classica espressione di sufficienza tipica della prima adolescenza, prima di sbuffare. « Senti... fammi fare il mio lavoro e vieni con me, ok? Prima facciamo e prima ti riporto indietro » offrì.

Un patto che, tutto sommato, a John sembrò equo. Se era un sogno o stava seriamente impazzendo poco importava. Alla fin fine, non aveva niente da perdere.

« D’accordo » acconsentì dunque, alzandosi dal davanzale ed infilandosi ciabatte e vestaglia di lana. Notò solo in quel momento che i piedi di Harry erano nudi, ma non sollevò l’argomento.

Gli mancava solo di chiedere ad un’allucinazione se avesse freddo o meno.

Uscirono dall’appartamento a passo leggero, scendendo i diciassette gradini del 221B come se nemmeno vi poggiassero i piedi sopra. John pensò che fosse un’altra prova del fatto che quello era tutto un sogno, ma si distrasse da quelle sue elucubrazioni fin troppo logiche quando Harry, appoggiando una mano sulla maniglia, aprì il portone.

Ciò che si trovò davanti, però, non fu il solito panorama. Non le case dall’altra parte della via, la stella cometa di luci intermittenti sul balcone del dirimpettaio, il traffico sporadico della notte di vigilia.

Piuttosto, un vialetto sterrato ricoperto di neve se non per le tracce di un paio di pneumatici, che l’avevano compattata fino a farla diventare ghiaccio. Il manto bianco si estendeva per chilometri oltre il vialetto, su campi a maggese che sembravano infiniti, scontrandosi da una parte con il profilo di una cittadina in lontananza e dall’altra con le luci di una villa in vecchio stile, animata di musica e persone in festa.

« Questa... non è Baker Street » disse John dopo un attimo di smarrimento, chiudendosi la porta del 221B dietro di sé, che sparì nel nulla trasformandosi in fiocchi di neve.

« Ottima deduzione, Johnny » ironizzò Harry, continuando prima che il medico avesse la possibilità di ribattere per le rime: « questa è la tenuta Holmes, nell’Essex, ed è la sera del 24 dicembre 1989 » disse, cominciando ad incamminarsi lungo il vialetto in direzione dell’abitazione.

Inizialmente John le andò dietro, ma quando sentì il nome dei proprietari si bloccò sul posto. Harry lo notò solo dopo qualche passo e, sbuffando, si voltò indietro.

« Cosa c’è? » domandò, seccata.

John si limitò a guardarla duramente. « Questa è... »

« Casa Holmes, sì. Sherlock è cresciuto qui, di nuovo sì. Immagino non lo sapessi » interloquì.2

Watson alzò gli occhi sulla casa poco più avanti, studiandone la struttura imponente ma in vecchio stile, con il tetto spiovente di tegole rosse e le ampie finestre squadrate.

No, non lo sapeva. Sherlock non aveva mai diviso con lui qualcosa che riguardasse la sua infanzia, così come non lo aveva fatto lui stesso con il detective. Non perché non si conoscessero abbastanza, o non si fidassero l’uno dell’altro, ma ci sono semplicemente cose di cui non si va fieri e, probabilmente per entrambi, l’infanzia e l’adolescenza erano uno di quei discorsi tabù.

Ed era un ricordo privato in cui non voleva immischiarsi.

« È prassi per voi Fantasmi curiosare nei ricordi degli altri? » domandò allora John, nascondendo in quella domanda tutto il disagio che il pensiero di mettere piede in quella casa in realtà gli provocava.

E non era per la privacy, per quanto tentasse nobilmente di convincersi che fosse quello, il motivo. No. Sherlock non aveva più una privacy.

Era perché Sherlock era morto, andato, sparito, e lui non aveva voglia di vederlo, nemmeno in sogno, nemmeno sottoforma di un bambino impegnato a festeggiare il Natale con la sua famiglia, che fosse amata o meno, amato o meno.

Non voleva vederlo e basta.

« Smetti di fare il moccioso e cammina » fu però la risposta che ebbe dalla quindicenne in camicia da notte, che riprese a camminare verso l’ingresso della villa.

John, impossibilitato a fare altro senza il Fantasma al suo fianco, la seguì.

Un numero discreto di macchine di lusso era parcheggiato nell’ampio spiazzo prima dell’entrata e da una delle finestre del piano terra si potevano vedere le sagome di alcune persone e percepire il chiacchiericcio tipico di una festa.

Lui ed Harry sgattaiolarono dentro passando attraverso la porta chiusa – aveva sempre desiderato farlo! – e l’alone di eleganza e ricchezza che subito quella casa materializzò lo lasciò a bocca aperta per qualche istante. Come aveva immaginato, Sherlock era cresciuto in una famiglia borghese, con tappeti persiani sopra il parquet tirato a lucido e veri e propri arazzi alle pareti; con genitori sicuramente benestanti che avevano amici altrettanto benestanti da invitare la party della vigilia di Natale, in cui si ascoltava musica classica e si discorreva di arte e affari e finanza e politica.

« Sia lui che suo fratello hanno sempre avuto addosso quell’aria da signorotti, ma non avrei mai pensato ad una cosa... così » mormorò John, questa volta intento a fissare i vassoi d’argento con i quali la servitù serviva agli ospiti flute di champagne e tart-tatin.

« Perché, c’è una mezza via alla ricchezza? » domandò Harry, in piedi di fianco a lui con le braccia conserte.

John fece per risponderle ma fu costretto a rinunciare per scostarsi bruscamente sulla destra all’avanzata in sua direzione di un cameriere con un vassoio carico di tramezzini perfettamente triangolari.

« Rilassati, non possono né vederci né toccarci » lo rassicurò, facendogli poi cenno di seguirlo.

Salirono su per le scale e misero piede al primo piano, decisamente più buio e in cui il chiacchiericcio del piano inferiore arrivava soffocato e lontano. Percorsero un corridoio fatto più che altro di porte chiuse fino ad arrivare all’ultima sulla sinistra, una porta a due ante che Harry attraversò con nonchalance. John la seguì.

Non era pronto a ciò che si trovò davanti, né fisicamente né mentalmente, e fu per quello che rimase imbambolato con le labbra serrate e gli occhi sgranati e fissi su di una figura dall’altra parte della stanza.

Una figura che avrebbe riconosciuto ovunque, a prescindere dall’età.

Sotto l’alta finestra di quella che era palesemente una biblioteca – alti scaffali di libri occupavano almeno tre delle pareti ed una scrivania massiccia era ben piantata in mezzo alla stanza, illuminata dalla luce fioca dei tre quarti di luna che erano l’unica fonte di luce presente – era seduto un bambino esile e dinoccolato, una massa di capelli scuri e ricci a ricadergli appena sulla fronte, con un paio di occhi incredibilmente chiari che sembravano di ghiaccio nel riflettere la luce lunare. Non poteva essere altri che Sherlock, e fu esattamente quel nome che soffiò soprapensiero.

« Già » confermò Harry: « ha 10 anni qui, se ti interessa saperlo » aggiunse poi, guardando a sua volta nella stessa direzione di John.3

Il piccolo Sherlock era vestito con un paio di pantaloni neri eleganti, una camicia bianca ed un gilet di lana nera. Se ne stava inginocchiato a terra intento a legare, con una delicatezza che John gli aveva visto usare molte volte quando maneggiava beker ed alambicchi, un sottile filo di cotone da cucito agli stoppini di diverse candele sparse per la stanza – alcune a terra, altre sul ripiano del camino spento, altre sulla scrivania, nessuna accanto ai libri.

Era concentrato, quasi dedicato all’impresa, e quando ebbe collegato l’ultimo pezzo di filo allo stoppino dell’ultima candela si sedette a gambe incrociate davanti ad essa, estraendo dalla tasca dei pantaloni una scatola di fiammiferi.

Se non fosse stato Sherlock, e se John non lo avesse conosciuto fin troppo bene da adulto per fidarsi di lui anche da bambino, probabilmente avrebbe immaginato subito l’intera libreria andare a fuoco.

Ma Sherlock si limitò ad accendere la candela che aveva davanti a sé. E quando John vide il filo di cotone prendere fuoco con una facilità impressionante, si rese conto che doveva essere imbevuto in una qualche specie di liquido infiammabile – probabilmente olio da lampada.

Ma la bellezza di ciò che Sherlock aveva creato, dei giochi delle fiamme che passavano da una candela all’altra accendendo uno stoppino dopo l’altro, bruciando del tutto il filo che le collegava e che spariva, carbonizzato, dopo pochi istanti di combustione, era talmente splendido da sembrare pura magia.

Il fuoco caldo e lieve accese due candele a terra, passando ad un’altra su di una sedia poco distante, poi alle tre posizionate sul camino ad uguale distanza una dall’altra; scese verso una credenza, seguì il filo di nuovo sul pavimento e, dopo due candele, salì ancora sulla sedia della scrivania, poi sulla scrivania stessa. Riscese in un rivolo luminoso verso una candelabro a tre bracci nel quale si divise in due dalla candela centrale, accendendo quelle laterali e portandosi in due direzioni diverse, per poi rincontrarsi a terra su di un altro stoppino poco più avanti e partire, correre lungo il filo in un particolareggiato disegno a spirale che illuminò tutto il pavimento fino al centro, dove infine si fermò.

John non poté far altro che dimostrare, ancora una volta, la sua ammirazione. « Fantastico... » sussurrò, stupito, osservando con un sorriso le traballanti fiammelle che li circondavano completamente.

Ma Harry non rispose e quando John cominciò a domandarsi il perché, e alzò gli occhi su di lei e su Sherlock, si rese conto del perché.

Sherlock non stava sorridendo, né sembrava felice della riuscita di quello che sembrava tanto un esperimento di qualche sorta. Si limitava a fissare le candele con aria torva, gli occhi lucidi di quelle che sembravano lacrime represse ma che non avrebbe lasciato scendere, immerso nel silenzio di una biblioteca troppo grande e troppo buia.

Solitudine. Era solo. Il pensiero attraversò John come una scossa elettrica.

« A Natale nessuno dovrebbe rimanere solo » osservò, gli occhi fissi sul bambino immobile all’estremità opposta della stanza.

« Questo è il Natale in cui Sherlock Holmes ha deciso di non credere più in niente » intervenne Harriett, spostandosi verso la scrivania e sedendosi proprio sopra una delle candele accese; non fece altro che trapassarla e la fiamma, da ferma che era, ferma rimase.

« Suo padre è venuto a mancare da qualche mese. E prima che tu me lo chieda: no, non è stato come per noi, non se ne è andato di notte sparendo nel nulla senza dire niente a nessuno » aggiunse, guardandolo dritto negli occhi.

Watson non disse niente, limitandosi ad indurire la mascella in un moto di rabbia.

Ma Harry continuò: « è morto in un incidente d’auto. Ma Siger Holmes era l’unica persona a cui Sherlock si sentisse realmente legato e, sfortunatamente, era anche l’unico della famiglia che passasse abbastanza tempo con lui. Quell’arpia di sua madre ha sempre preferito Mycroft e lo stesso Mycroft sguazzava abbondantemente nell’approvazione di mammina per accorgersi di cosa vuol dire essere un maledetto fratello maggiore » sibilò.

« Harry! » la riprese John, inutilmente preoccupato che il piccolo Sherlock potesse sentire.

« Che c’è? » domandò quella, acida: « è la verità. Quei due hanno cominciato a prestare attenzione a Sherlock quando ormai non ne aveva più bisogno e solo perché si tuffava fino al collo in un guaio dopo l’altro, facendosi beffe del buon nome della famiglia » disse con amarezza osservando il bambino, prima di continuare: « in ogni caso, Sherlock stesso decise che non avrebbe più avuto bisogno di nessun altro se non di se stesso. E non è difficile da formulare come pensiero, per uno che non ha amici » terminò.

John si sentì in dovere di dire qualcosa, ma quando prese fiato per farlo fallì miseramente nel tentativo.

Non c’era nient’altro da aggiungere a ciò che aveva detto sua sorella – o Fantasma del Natale Passato che dir si voglia – perché aveva un fondo di verità che, rapportato con lo Sherlock che lui aveva conosciuto, diveniva dolorosamente palese. Molte volte John si era illuso di poter essere “l’eccezione alla regola”, una di quelle eccezioni che a Sherlock non piaceva riconoscere, ma nonostante il detective gli avesse fatto capire a voce di essere il suo unico amico, John non glielo aveva mai domandato direttamente e ora tutte le sue occasioni erano svanite nel nulla.

Chiuse gli occhi davanti al bambino lasciato solo la notte della vigilia di Natale, rivolgendosi ad Harry senza riaprirli. « Perché ho dovuto assistere a tutto questo? » domandò, la voce ferma.

La ragazzina non si mosse dalla sua posizione sulla scrivania. « Non ti ricorda qualcuno? » rispose con una domanda.

Oh, sì. Certo che gli ricordava qualcuno.

« Non c’era bisogno di... questo » aggiunse John, tornando a guardare Sherlock ed i suoi occhi chiari fissi sulla fiammella della candela: « non dovevi mostrarmi il suo passato, è privato è... intimo. Lui non avrebbe voluto ».

« Ma lui è morto » stoccò Harriett, guardandosi le unghie delle mani con simulata sufficienza: « e questo è tutto un sogno, no? » domandò ironica, le stilettate nascoste in ogni parola.

John si morse il labbro inferiore, combattuto, indeciso su cosa dire. « Perché...? » ripeté solamente.

« Perché a Natale nessuno dovrebbe rimanere solo » gli rispose per l’ultima volta Harry, ripetendo ciò che lui stesso aveva detto pochi minuti prima: « ora torna a casa e fatti un esame di coscienza, Johnny ».

« Apetta! » esclamò John, voltandosi in fretta, ma non appena Harry ebbe pronunciato l’ultima parola Sherlock soffiò sulla candela.

E per un istante, tutto divenne buio.

 

 

Quando terminò il mezzo giro su se stesso che aveva cominciato per girarsi verso Harry, si rese conto di essere in piedi davanti alla finestra del 221B e che, cosa più importante, il salotto era vuoto.

Rimase interdetto per alcuni minuti, bloccato in piedi come se si aspettasse che la ragazzina ricomparisse da un momento all’altro, ma quando non successe cominciò seriamente a preoccuparsi della propria sanità mentale.

Possibile che fosse stato tutto un sogno? O un’allucinazione? Ne stava uscendo pazzo? Tutte domande alle quali non sapeva dare risposta.

Sospirò, ormai convinto di aver perso quel minimo di equilibrio psichico che poteva tragicamente essergli rimasto.

Forse impazzire non era così male, alla fine. Vedere mondi al di là di questo, strani pattern crittografati negli articoli di giornale, parlare ogni tanto con la teiera o chiedere gentilmente alla lavatrice di lavare i bianchi a trenta gradi. Un tipo di pazzia silenziosa, privata, solo vagamente pericolosa.

Chissà, magari avrebbe anche potuto rivedere Sherlock. Il suo Sherlock, uno Sherlock creato da lui. Magari la brutta copia, di lui, ma sempre, insostituibilmente, lui.

Sherlock...

Per un momento, sedendosi sul divano nella penombra, pensò alle immagini che aveva appena visto (sognato? Immaginato? Non lo sapeva proprio). Al ritratto di un bambino solo e triste, lo sguardo vuoto, l’anima di chi non crede.

E nessuno che lo andava a cercare.

Eppure, pensò, sarebbe bastato così poco. Una mano tesa, una parola, un complimento. Una compagnia silenziosa e comprensiva. Un sorriso.

Aspetta... non era quello che aveva fatto proprio lui, conoscendolo?

« Sì, è vero ».

Il cuore di John perse un battito a causa dello spavento e, decisamente colto alla sprovvista, balzò dal divano e si voltò verso la fonte della frase, le mani istintivamente portate davanti a sé in posizione difensiva (per la seconda volta nella serata).

Dal posto di fianco a lui, sul divano, Gregory Lestrade lo guardava con un’espressione tranquilla e rilassata, persino sorridente.

« Ciao John » lo salutò.

« Greg... » soffiò fuori Watson, facendo respiri profondi per calmare il battito ora impazzito del proprio cuore. « Come ti salta in mente di– aspetta... tu non dovresti essere... ».

« Alla festa nel mio appartamento? Sì, infatti. E ci sono » annuì l’ispettore, passandosi una mano fra i capelli brizzolati.

Ci mise solo qualche istante, John, per rendersi conto che il trip in acido (o meglio, il trip in facciamo-finta-che-sia-una-bottiglia-di-Sangiovese) non era ancora arrivato alla sua conclusione.

« Non mi dire, il Fantasma del Natale Presente? » borbottò contrariato, aggrottando le sopracciglia con fare scocciato.

Quello, alzando un sopracciglio, annuì con un cenno secco. « Ovviamente. Non hai letto Dickens? Siamo in tre » disse, alzando altrettante dita della mano.

« Sì, lo so. Speravo solo di smaltire la sbronza prima che arrivassero gli altri due » gli rispose il medico, passandosi il palmo sugli occhi chiusi. « Allora, dove mi porti? Sembri il normalissimo Lestrade, niente cambi d’età o altro... » considerò a mezza voce, osservandolo.

« Beh, “presente”, no? È normale che tu mi veda come sono effettivamente al momento. E non andremo da nessuna parte, no » disse Greg – o Fantasma del Natale Presente che dir si voglia – battendo la mano sulla parte vuota del divano che John aveva appena abbandonato: « siediti, ti mostro una cosa ».

Inizialmente, John si rifiutò di seguire le istruzioni di quel verosimile Lestrade seduto sul suo divano, intento a ripescare il telecomando del televisore fra i cuscini. Ma sapeva anche che, così com’era successo con la sua meno-verosimile sorella di quindici anni, finché non gli avesse dato ascolto non sarebbe finita.

In altre parole, era fottuto in ogni caso.

Sospirò pesantemente, accomodandosi accanto a Greg. Quello, premendo qualche tasto sul telecomando, accese il televisore.

Ciò che apparve sullo schermo non poteva essere definito da vocabolo che non fosse “impossibile”. O variazioni sul tema.

« Quello è... ? ».

« Già ».

Nello schermo a 32 pollici comparve, come se fosse un telefilm, l’appartamento di Lestrade. Doveva essere per forza in quel momento, una sorta di livestream in contemporanea, perché la festicciola della vigilia era in corso di svolgimento e John, osservando bene le immagini sullo schermo, poté notare tutti gli invitati.

Tutte le persone che conosceva.

Molly, seduta sul divano color sabbia di fianco a mrs. Hudson. Donovan, in piedi accanto a loro, un flute di spumante fra le dita sottili. Lo stesso Lestrade, seduto sul rimanente pezzo d’angolo del divano e, appoggiato sul bracciolo con un braccio delicatamente appoggiato sulle sue spalle, Mycroft Holmes. Dimmok stava passando in quel momento, inoltre, e andò a fermarsi vicino a Sally.

Nell’appartamento risuonavano canzoni tipiche natalizie, un sottofondo musicale basso e confortevole, ma non sembrava esserci aria di festa. Tutti osservavano Greg con aria tesa o triste e lui, cellulare alla mano, aspettava qualcosa che aveva l’aria di non arrivare.

« Non risponde » sentì dire al Lestrade del televisore.

« Forse non vuole rispondere. Sarebbe meglio lasciarlo stare » disse Sally in tono pratico.

« No » si intestardì però il poliziotto: « ormai è passato un anno e mezzo. È il secondo Natale che passa da solo, non può continuare ad isolarsi da tutto e da tutti ».

« Devi considerare le circostanze, Greg » intervenne però Mycroft: « per quanto mi rammarichi ammetterlo, il dottor Watson era la persona più vicina a mio fratello. E nemmeno io so spiegare esattamente quale fosse la vera natura della loro relazione, se non per sottolineare la palese profondità del loro legame. È per quello che, tutto sommato, la sua reazione potrebbe essere normale » disse in tono mellifluo ed elegante.

Come al solito quando sentiva parlare Mycroft, John strinse il pugno in un moto di cieca rabbia. Il Greg accanto a lui lo notò, ma dato che John non disse niente, nemmeno lui aprì bocca.

Il dialogo sullo schermo continuò.

« Myc, ti prego, non anche tu! » esclamò Lestrade.

« I-Io credo che abbia ragione, Greg... » cinguettò Molly, ma fu interrotta dallo stesso ispettore prima che potesse aggiungere altro.

« No! » esclamò: « quell’uomo finirà per distruggersi, e io non posso lasciarglielo fare! Non posso stare a guardare di nuovo senza muovere un muscolo! ».

Per qualche istante dopo quelle parole, il silenzio calò fra gli invitati. Holmes sembrò intuire cosa intendesse Greg – non era difficile percepire la nota di autocommiserazione nella sua voce – e portò la mano sulla sua nuca, massaggiandogli l’attaccatura dei capelli con il pollice. Per calmarlo, probabilmente, o forse per fargli sentire la propria vicinanza. Gesti d’affetto che erano così strani per Mycroft, così come lo erano stati anche per Sherlock, e vederli palesati davanti a sé era proprio ciò che il medico voleva evitare. Perché anche lui aveva ricevuto quel tipo di carezza, una volta, dal fratello di colui che adesso stava toccando la nuca di un altro uomo con la stessa, muta e sottointesa devozione, e il ricordo di quel piccolo istante era sufficiente a martoriare il suo cuore ancora un po’, un po’ di più ogni volta.

John distolse lo sguardo.

« Non è stata colpa tua » intervenne poi Dimmock: « c’erano delle procedure, e delle regole da rispettare. Siamo Ispettori di Scotland Yard, Greg. Abbiamo delle responsabilità ».

Greg alzò su di lui uno sguardo furente, ma la voce che gli uscì dalle labbra era calma e granitica. « È vero, avevo delle responsabilità nei confronti del mio grado. Ma certe volte sono le responsabilità come uomo quelle che dovrebbero prevalere. Il caso di Sherlock, per quanto strano sembrasse, che fosse vero o falso, rientrava nella lista delle mie responsabilità come uomo. Anzi, peggio: delle responsabilità come amico » fece una pausa, cibandosi del silenzio attento delle persone attorno a lui: « lo conoscevo da 9 anni e l’ho lasciato morire. E non si tratta solo di lui. Ho caricato, indirettamente, tutto sulle spalle di John. Tutti noi lo abbiamo fatto e l’unica cosa che non abbiamo preso in considerazione era se John potesse davvero resistere a quel peso. Li abbiamo lasciati da soli contro un nemico troppo grande, che fosse o meno James Moriarty o lo stesso inganno di Sherlock Holmes » ammise, rammaricato. Socchiuse gli occhi quando la mano di Mycroft passò dalla sua nuca ad accarezzargli la schiena, come farebbe un qualsiasi compagno per calmare l’agitazione dell’altro.

« Watson ha fallito, presumo » intervenne però Dimmock, la voce bassa ma nessuna voglia di abbandonare il discorso: « senza offesa nei confronti del signor Holmes qui presente, ma Sherlock Holmes si è buttato. Watson non glielo ha impedito » disse.

E John sentì il muro di vetro sottile che aveva eretto fra lui ed il dolore, con sforzo e fatica e costrizione, creparsi ed infrangersi e cadere ai piedi della sua anima in mille schegge di vetro.

Strinse gli occhi, e i pugni sul tessuto dei pantaloni. « Basta così » supplicò.

« Mi dispiace, ma devi ascoltare fino in fondo » gli rispose il Greg seduto al suo fianco, il tono serio.

« No... no. È morto ormai, io non posso più... devo lasciarmi questa colpa alle spalle » rantolò John, il fiato corto.

« È proprio perché non ne sei in grado che mi trovo qui. E ora ascolta. Devi capire » gli rispose Lestrade, inamovibile.

La discussione sullo schermo del televisore – e dunque a casa del vero Lestrade – continuò.

« No, non ha fallito ».

John riaprì gli occhi, alzando lo sguardo.

A parlare era stata Molly.

« Non ha fallito. John gli è stato vicino fino alla fine, ha creduto in lui fino alla fine... anzi, ancora crede. Lui è l’unico che non ha fallito » disse, gli occhi lucidi pieni di lacrime, ad un passo dal pianto.

La Signora Hudoson, sorridendole gentilmente, le prese la mano con la sua e la strinse. « Io non credo che John sia triste » disse poi, la voce dolce della persona saggia: « io credo che John sia semplicemente... perso. Non riesce più a trovare la strada giusta per vivere normalmente e, nel dubbio, si rassegna all’apatia. Gli serve solo un po’ più di tempo, un po’ di tranquillità. Non potrà mai ritrovare la via se noi gli stiamo sempre con il fiato sul collo, dico io. No? » domandò, sorridendo a tutti i presenti.

Fu quello il momento in cui il Fantasma prese in mano il telecomando e spense il televisore, lo schermo che tornò nero come se non fosse mai stato utilizzato.

Lo guardò poi, in silenzio, aspettando una qualsiasi sua mossa. Una parola. Un cenno.

Qualcosa.

Ma da John non venne niente. Non sapeva come interpretare ciò che aveva visto, la discussione che quelle persone avevano intavolato con lui come oggetto, e si limitò a fissare il bordo del tavolino in silenzio. Qualcosa, nel petto, bruciava di rabbia e sollievo contemporaneamente, ed era una sensazione strana che non gli piaceva affatto.

Alla fine, Lestrade si prese l’onere di cominciare il discorso. « Hai capito? » gli chiese.

John scosse piano il capo. « No... » aggiunse in un mormorio basso.

« Amici, John. Ne hai ancora. Parlano di te, si preoccupano per te. Anche a Natale, quando dovrebbero mettere da parte ogni cosa brutta o triste e pensare, almeno per un paio di giorni, a divertirsi. E invece ti mandano SMS per fare in modo di farti capire, anche se tramite qualche parola scritta in poche righe, che non sei solo » gli spiegò, appoggiandogli una mano sulla spalla. « So che Sherlock era diventato la cosa più simile al centro del mondo che tu avessi mai avuto. So che importanza aveva per te. Riesco a vederlo dentro di te... è stata l’unica mano tesa quando ne avevi più bisogno. Nessuno ti ha capito come ti ha capito lui. Lo so, John, lo so... ma devi dare una possibilità anche a loro, perché sono lì e da te non aspettano nient’altro che questo: una possibilità » concluse, stringendogli affettuosamente la spalla.

John rifletté. Sulle parole del Fantasma al suo fianco, sulle parole di Greg, sulle parole di Molly, sulle parole di Mycroft, sulle parole della Signora Hudson. Sulle parole di Dimmock. Ma non riusciva a togliersi dalla testa la voce di Sherlock, metallica a causa del cellulare, che autodistruggeva tutto ciò che era... per cosa, poi? Per distruggere anche lui? Sherlock sapeva di potersi fidare? Erano domande che lo avevano tormentato, ucciso notte dopo notte, e ora che era finalmente riuscito a rinchiuderle in un angolo della propria mente tutto tornava prepotentemente a galla.

E non capì più cos’era giusto o sbagliato.

« Sparisci » sibilò secco a Lestrade, alzandosi dal divano con le braccia abbandonate lungo i fianchi. « Ho chiuso con questa stronzata... » soffiò fuori, dirigendosi a passo lento verso la porta della camera di Sherlock.

Lestrade, dietro di lui, scomparve nel silenzio.

 

 

Il suo cuscino non aveva più il suo odore. Sapeva semplicemente di polvere. Così come il copriletto, il lenzuolo, la coperta e qualsiasi altra cosa; polvere, e spray antiacaro.

Tuttavia, a John bastava l’illusione. Dopo l’Afghanistan era diventato bravo a vivere di esse, capacità che era migliorata dopo il suicidio di Sherlock. Dopotutto lui non aveva mai carpito l’odore dell’altro dalla federa, o direttamente dai suoi capelli, dunque non sapeva nemmeno quale potesse essere realmente. Si accontentava di immaginarselo, ogni tanto, quando la notte passata sul divano o in camera sua era insonne in una maniera imbarazzante e lui si rendeva conto che, se avesse voluto trovare la pace, il solo luogo in cui avrebbe dovuto cercarla era la camera di Sherlock.

E si odiava, per questa debolezza. Per questa sua immaginazione fallace in funzione della quale si era ridotto a vivere. Si diceva che sarebbe andata meglio, con il tempo; se lo era ripetuto a lungo tutti i giorni, ma per un anno e mezzo si era sentito alla stregua di un esiliato. Troppo orgoglioso per chiedere aiuto, troppo bravo a mentire per accettare quello che gli veniva offerto.

E intanto il tempo passava. E sono tutte cazzate quelle del cinema: il tempo non aiuta, non guarisce proprio un bel niente. Fa dimenticare, forse, ma quella non è una cura: è una scappatoia.

Lui non scappava. Piuttosto, soffriva.

Inspirò profondamente il profumo assente di Sherlock, girato sul fianco con le ginocchia piegate. Voleva dormire, non pensare più a niente almeno fino a mattina, scivolare nell’oblio e aspettare un Natale in cui forse, o meglio quasi sicuramente, Mrs. Hudson avrebbe avuto abbastanza pena di lui da portargli di sopra un piatto di biscotti fatti in casa e, la sera, qualche avanzo di tacchino con verdure.

E lui sarebbe stato grato delle piccole cose, avrebbe guardato lo Special di Natale di Doctor Who alla TV, e il 25 dicembre sarebbe scivolato via per un altro anno portando con sé tutto il resto.

Non si premurò di aprire gli occhi quando sentì qualcuno sedersi sul bordo del letto, facendo abbassare il materasso, né lo fece quando delle dita sottili e piccole presero ad accarezzargli i capelli con movimenti delicati.

Era rassicurante in un modo estraneo ma famigliare al contempo. Aprì gli occhi.

La figura che vide era senza ombra di dubbio quella di uno sconosciuto ma al contempo non lo era. Nonostante la pochissima luce poteva vederne la sagoma ed era senza ombra di dubbio un ragazzino, forse di quattordici o quindici anni, con i capelli neri, lisci ed ispidi e gli occhi chiari (grigi, o forse azzurri). Vestiva con un paio di jeans, ed il collo alto di un maglione bianco spuntava dal colletto del cappotto corto e nero.

« Ne ho dodici » disse quello, sorridendogli, la voce intrisa di dolce pacatezza.

Ormai John non si stupiva più del fatto che ricevesse risposte a domande o supposizioni che aveva solamente pensato.

« Ti conosco? » domandò invece, immobile nella sua posizione e gli occhi socchiusi a godere stancamene di quel tocco gentile.

« Non ancora » rispose il ragazzino.

« Chi sei? » domandò allora John.

« Il Fantasma del Natale Futuro » fu la replica veloce dell’altro.

Watson sogghignò. « E hai un nome, Fantasma del Natale Futuro? ».

«» rispose l’altro: « ma non posso dirtelo. Il futuro è una cosa labile, può essere stravolto persino dal battito d’ali di una farfalla4, e non esagero nel dire che la mia stessa esistenza dipende dal fatto che tu non sappia chi sono. Per lo meno, non prima del tempo debito ».

John piegò le labbra in un sorriso stanco, sistemandosi meglio contro il cuscino e chiudendo gli occhi di nuovo. « Chiunque tu sia e dovunque tu voglia portarmi, io non verrò » mise in chiaro: « non ho niente contro di te, ma sono stanco di disilludermi ».

Il Fantasma smise di carezzargli i capelli, appoggiando la mano sul copriletto. « Nemmeno se ti prometto che il futuro che vedrai sarà carico di speranza? » domandò poi, enigmatico.

John soffiò fuori una risatina amara. « Come fai ad esserne certo? ».

« Perché la maggior parte delle volte la parola più adatta per descrivere il futuro è proprio “speranza”. Perché nella mente delle persone, pensare al futuro significa sperare che tutto vada per il meglio, un giorno o l’altro » spiegò: « e perché tu sei un brav’uomo, John Watson, e ti meriti il futuro in cui speri » aggiunse, alzandosi in piedi e tendendogli la mano.

Il medico, ancora steso sul letto, lo guardo in silenzio. « Questi non sono concetti adatti ad un bambino di dodici anni. I dodicenni non pensano a queste cose » affermò, nascondendo una domanda fra le righe.

Quello alzò l’angolo della labbra in un sorrisetto a mezza bocca. Un ghigno così famigliare che, per un momento, gli sembrò di veder sorridere Sherlock.

« I miei genitori mi hanno educato al meglio. E, modestia a parte, sono un po’ più intelligente della media » gli rivelò, ma dato il modo in cui si esprimeva John era sicuro che si stesse sottovalutando.

Non seppe cosa lo portò a fidarsi. Forse la luce particolare che quel ragazzo aveva negli occhi, o i modi così conosciuti nonostante non lo avesse mai incontrato prima di quel momento e non sapesse nemmeno il suo nome. Un po’ come la prima volta che aveva incontrato Sherlock Holmes, si disse: lo aveva affascinato con la sua intelligenza e presenza, e aveva subito sentito che la propria naturale diffidenza era stata abbattuta senza il minimo sforzo.

Si mise seduto, senza staccare mai gli occhi da quelli dell’altro, che non abbassò la mano tesa in sua direzione. Una volta appoggiati i piedi a terra allungò anche la sua, afferrandola.

Si sentì tirare per il braccio e, quando fu in piedi, si rese conto improvvisamente di non essere più in camera di Sherlock. Anzi, di non essere più nemmeno al 221B.

Il paesaggio attorno a lui era cambiato così in fretta che non se ne era nemmeno accorto; come le scene nelle pellicole dei film, talmente veloci da riuscire ad ingannare l’occhio e dare un senso di continuità.

Ciò che si trovò davanti agli occhi fu Trafalgar Square in tutta la sua bellezza, con bancarelle di Natale sparse per tutta la piazza e un albero gigantesco ricoperto di luci colorate. Non nevicava, ma a giudicare da come la gente era vestita doveva fare molto freddo.

John sospirò, la mano ancora stretta in quella del ragazzino, volutamente ignaro di come stringerla sembrasse una cosa così normale. « In che anno siamo? » chiese, assorto nella contemplazione della piazza dalla scalinata della National Gallery, sopra la quale erano “atterrati”.

« Segreto » disse però l’altro, cominciando a scendere: « posso solo dirti che potrebbe essere il tuo futuro, ma non quanto prossimo » aggiunse.

« In che senso “potrebbe”? ».

« Il futuro è tutta una questione di scelte, John » gli disse, fermandosi ad una decina di gradini dalla fine della scalinata: « e può essere cambiato. Io ti sto mostrando uno dei possibili svolgimenti che la tua vita potrebbe prendere, niente di più » e con un cenno della mano libera gli indicò un punto in particolare ai piedi del grande albero, poco distante da loro.

Vide se stesso, John, sotto quell’enorme massa luccicante, in piedi con un bambino in braccio. Il piccolo era avvolto in una tutina imbottita, dunque non riusciva davvero a capire quanti anni avesse, ma era abbastanza piccolo per poter essere tranquillamente appoggiato al fianco e sorretto senza fatica. Aveva un berretto di lana bianca sulla testa dal quale spuntavano piccoli ciuffi scuri, con un pon-pon sulla cima, e osservava affascinato la lampadina più vicina, indicandola con la manina guantata di rosso. Aveva gli occhi chiari, e grandi.

John, lasciando la mano del Fantasma, scese di altri due gradini, la bocca aperta e lo sguardo incredulo. « È... mio? È mio figlio? » domandò con un fil di voce. Ma il Fantasma non rispose, rimanendo in piedi dietro di lui, sorridente.

Non gli importò più di tanto della risposta, in quel momento. Perché quel bambino dalle guance paffute aveva riso, contento di chissà cosa, e quella felicità si era riflessa sul volto del John futuro – sul suo volto – facendo nascere sulle sue labbra un sorriso dolce e devoto, come se il bimbo che teneva il braccio fosse tutto il suo mondo, le stelle e l’intero universo, e John capì.

Capì di essere padre.

Con qualche capello grigio in più e la stanchezza tipica di chi è abituato a passare giornate movimentate, certo, ma nei suoi occhi di padre non c’era ombra della tristezza e della solitudine, dello spettro aveva cominciato a vedere ogni giorno riflesso nello specchio, e una seconda realizzazione lo colpì come un’ondata di marea particolarmente violenta.

Capì di non essere solo.  Non più.

Sposato? Aveva una moglie, una fidanzata, una compagna? Domande ed immagini cominciarono a rincorrersi nella sua mente, ipotesi su chi avesse potuto accettare come compagno un ex-soldato ferito con un’anima marcita dall’abbandono, e chissà perché gli veniva in mente una sola persona.

Una persona ormai perduta.

Ma ecco un ombra muoversi veloce fra la folla. Un lungo cappotto ed il lampo blu di una sciarpa. Un piccolo ma sincero sorriso sulle labbra sottili nel vedere John con in braccio il bambino, gesto accolto con uno sguardo amorevole da parte di quel John ormai padre e compagno e completo.

Prese fiato per parlare, per pronunciare un nome, ma le mani del fantasma si posarono sui suoi occhi, togliendogli la vista.

« Basta così » disse il ragazzo dietro di lui, sussurrando direttamente nel suo orecchio.

Watson fece per protestare, domandare di poter continuare a guardare ancora per un po’, ma quando sentì quelle mani sottili scivolare via dai suoi occhi, si ritrovò scomodamente seduto sul davanzale della finestra del 221B.

 

 

 

Si sollevò da quella posizione scomoda, raddrizzando la schiena che scricchiolò dolorosamente.

Sentiva freddo, e sapore di vino sulle labbra, e non si ricordava davvero di avere aperto la seconda bottiglia ma giaceva ai piedi della finestra vuota per tre quarti, l’ultimo bicchiere del quale mezzo rovesciato sul tappeto.

Vergognandosi di se stesso, si mise le mani nei capelli e chiuse gli occhi.

Era stato tutto un sogno? Un’illusione indotta dall’alcool? Possibile. Anzi, quasi sicuramente.

Dopotutto, come poteva essere reale? I Fantasmi, i ricordi, quella... visione di lui nel futuro, padre, felice. Non poteva essere vera perché lui non era felice e, soprattutto, perché in essa c’era Sherlock, e Sherlock era morto.

È una cosa da cui non è possibile tornare indietro.

Si strappò le cuffie dell’mp3 ormai completamente scarico dalle orecchie, allungando poi la mano verso il cellulare per vedere l’ora. Quando sbloccò lo schermo e la sua luminosità gli ferì gli occhi, trovò una chiamata persa. La controllò.

Lestrade.

Era stata effettuata poco prima di mezzanotte – ovvero due ore prima.

Per un attimo, un flash attraversò la sua mente. Greg, dentro lo schermo del suo televisore, dire “non risponde”.

No. Era talmente vana e distante, come possibilità, che faceva persino fatica ad essere considerata pura coincidenza.

Magari, però, non era la verità che doveva cercare, questa volta.

Ma la speranza. La forza di credere in qualcosa di migliore. Negli amici, tanto per cominciare.

Nessuno dovrebbe rimanere solo, a Natale.

Uscì dal registro chiamate, aprendo un nuovo messaggio. Digitò in fretta uno striminzito “Buon Natale”, non trovando davvero nient’altro da aggiungere, ma supponeva andasse comunque bene così. Cercò in rubrica il numero di Lestrade e lo inviò.

Probabilmente non lo avrebbe visto prima di domani mattina, data l’ora. Ma almeno lo avrebbe letto e, volendo, lo avrebbe anche richiamato. E John lo avrebbe invitato per bere qualcosa, magari un tè, e chiacchierare. Per chiedergli quell’aiuto che non aveva ancora chiesto a nessuno ma che gli serviva, non poteva più fare finta.

E magari avrebbe costruito un futuro come quello che aveva visto, in cui più nessuno avrebbe dovuto passare da solo la vigilia di Natale, o smettere di credere che sia possibile trovare una soluzione.

Sarebbe andato avanti un passo per volta, partendo dalle piccole cose.

A cominciare da un augurio.

 

 

 

 

 

 

Epilogo

5 anni dopo...

 

Si sistemò meglio Hamish fra le braccia, cercando di evitare che toccasse il filo di luci sull’albero e di parlare al telefono contemporaneamente.

« Sì, partiremo domani mattina. Abbiamo già prenotato i biglietti, verremo in treno ».

Il piccolino si aggrappò con una manina guantata di rosso al giubbotto del padre, sporgendosi un po’ di più verso la piccola lucina gialla che se ne stava lì, a qualche decina di centimetri di distanza, contornata da un affascinante lucore dorato. John, osservando gli occhi vivaci e attenti di suo figlio, non poté fare a meno di sorridere.

« Greg, è inutile che ti dica che non è stata una mia decisione, vero? Ha detto che saremmo venuti in treno e così sarà, la sentenza è inoppugnabile ».

Mentre ascoltava la replica di Lestrade dall’altra parte dell’apparecchio, Hamish si girò verso di lui. Si agitò, muovendo le gambe nel suo abbraccio saldo e protettivo, come a volergli comunicare la meraviglia di aver scoperto le lampadine colorate dell’albero di Natale.

Il sorriso di John si allargò. Strusciò affettuosamente il suo naso contro quello del bambino, che rise felice.

« Nemmeno io so perché l’ho sposato, ma temo che io e te ci porremo questa domanda per il resto della nostra vita » scherzò, baciando la mano di Hamish quando il piccolo, volendo probabilmente esprimere il suo affetto, gliela schiaffò sulle labbra. Suo figlio rise di nuovo. « Ok, allora ci vediamo in stazione alle 11. Salutami Mycroft. Buonanotte » salutò, chiudendo la chiamata e mettendosi il cellulare in tasca.

Il tempo di riappoggiare gli occhi sul pargolo che teneva in braccio, ora impegnato in una personale campagna per la liberazione delle mani dai guanti, che da lontano riconobbe la sagoma famigliare di suo marito percorrere la piazza a passo di marcia con un waffle ancora caldo in mano.

Osservandolo avvicinarsi, John gli sorrise. Un sorriso sincero e nato dal cuore, dolce, e nel farlo strinse di più al petto il loro bambino, che ormai era riuscito a togliersi un guanto e minacciava di lanciarlo verso l’enorme albero di Natale dietro di loro.

Sherlock, a pochi passi da loro, ricambiò il sorriso con un lievissimo incurvarsi di labbra.

« Tuo figlio ha deciso che i guanti sono superflui, a quanto pare » gli disse, alzando il collo quando il detective si chinò per sfiorargli le labbra con le proprie: « e ti saluta Greg. Alla fine Mycroft si è arreso all’evidenza che non guiderai la sua macchina fino nell’Essex ».

« Alla buon’ora » ribatté Sherlock: « dovrebbe ringraziarci solo perché ci prendiamo il disturbo di partire la mattina di Natale per andare da mia madre ».

« Violet merita di vedere suo nipote e suoi figlio almeno una volta l’anno, Sherlock, ne abbiamo già parlato » lo redarguì John, arrendendosi al volere del bambino e togliendogli finalmente i guanti.

« John, Hamish ha un anno e mezzo. Ha tutta la vita per andare a trovare sua nonna. In quanto a me sai benissimo che non è il giorno che aspetto di più in un anno » rispose però Sherlock, testardo come sempre, staccando con le dita un pezzetto di waffle e cominciando a soffiarci sopra. Il freddo lo aiutò ad intiepidirlo quasi subito.

« E non avevamo nessun piano » continuò John con un sorrisetto sghembo.

« È irrilevante, John » troncò però Holmes, allungando il pezzetto di dolce ad Hamish. Quello, dopo averlo osservato attentamente per qualche istante, lo afferrò con entrambe le mani e cominciò a sbocconcellarlo.

Il sorriso di John, se possibile, si addolcì ancora di più. Ogni volta che guardava suo marito e suo figlio, e faceva il conto di ciò che aveva, si rendeva conto che non poteva più fare a meno di credere ai miracoli. Era troppa tutta quella felicità per una persona sola, ma era sua, sua e di Sherlock, e non l’avrebbe divisa con nessun altro perché nessuno la meritava più dell’uomo che aveva sposato.

Rivolse quello stesso sorriso a Sherlock, e Sherlock glielo restituì in un inclinarsi di labbra.

« John? » lo chiamò poi il detective, passando un altro pezzetto di dolce ad Hamish. « Perché Trafalgar Square? Non ci siamo mai venuti il giorno di vigilia » chiese.

Watson alzò gli occhi, posandoli sull’imponente scalinata della National Gallery. Si immaginò una versione poco più giovane di se stesso, in pigiama e vestaglia, e quello che ora sapeva essere suo figlio là, in piedi su di un qualche gradino, e sorrise ancora prima di rispondere.

« Perché l’ho sognato ».

 

 

 

 

 

 

 

 

End ~

 

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1. Il chicken tikka masala è uno stufato di pezzi di pollo al curry serviti in una salsa densa e piccante. La sua provenienza è incerta, in quanto sia la Scozia che l'India ne reclamano i natali. Ho avuto l'onore di assaggiarlo a Londra ma, essendo che a me non piacciono le cose speziate, ammetto che non mi è piaciuto.

 

2. È opinione comune che i signori Holmes, nel canone, fossero proprietari terrieri appartenenti alla medio-alta borghesia. Indi per cui, l'Essex mi sembrava abbastanza vicino a Londra ma anche abbastanza in campagna per ospitare la tenuta Holmes (in cui, nei miei pensieri più vividi, la loro madre abita ancora).

 

3. Sempre attraverso fonti di maggioranza, ho calcolato che Sherlock sia nato nel 1979 (e John nel 1977). Sì, secondo gli "studiosi" del canone, i nostri cari hanno solo due anni di differenza l'uno dall'altro. Va da sé che nel Natale '89 Sherlock avesse 10 anni (quasi 11 in realtà, essendo nato il 6 gennaio).

 

4. Riferito al famigerato Effetto Farfalla, locuzione della Teoria del Caos secondo cui piccole variazioni nelle condizioni iniziali producono grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema. Citando il professor Ian Malcom di Jurassic Park: "una farfalla batte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia invece del sole".

   
 
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