Desclaimer: I personaggi di Sherlock non sono di mia proprietà
(tranne Hamish che appartiene al fandom), sono stati
creati da sir Doyle e, successivamente, adottati da Moffat e Gatiss (dateci la terza
serie, ci serve). Tutto ciò che
faccio io è soffrire nell’attesa e non vengo nemmeno pagata, pensate un po’.
Note: è
la terza volta che ricomincio questa fic, spero
seriamente che sia quella buona.
Non fatevi ingannare dagli
avvertimenti! C’è un sacco di roba da taglio di vene ma vi assicuro che non è
da suicidio. Anzi, rispetto alla mia media è persino speranzosa XD (...devo
farmi ricoverare al più presto).
Johnlock
implicito, Post Reichenbach, Reunion
(a sort of), Parentlock (ormai mi scorre nelle vene insieme al sangue). Liberamente
ispirato a A Christmas Carol di Charles Dickens.
Secondariamente liberamente ispirato allo Special di
Natale 2010 di Doctor Who e ad una
sua citazione, la quale dà il titolo alla fic.
Per una volta mi permetto
anche di consigliarvi la canzone che ha fatto da colonna sonora durante la
stesura, presa sempre dallo Special di Natale di DW:
Abigail's Song (Silence is All You Know).
Dedica:
nonostante sia arrivata in ritardo, questa è dedicata alle ragazze del TCATH.
Bellissime persone, vi conosco da meno di un anno e già non posso fare altro
che adorarvi. Questa è per voi, nella speranza che vi piaccia, insieme ai miei
auguri di un buon Natale e felice 2013 ♥
A chiunque voglia passarsi
mezz’ora, auguro buona lettura ♥
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Halfway Out of
the Dark
Seduto
sul davanzale della finestra del salotto, John guardava ormai da ore Baker
Street correre silenziosa sotto di sé.
La
pendola aveva suonato da qualche minuto le dieci di sera del 24 dicembre e
tutte le persone che avrebbero riempito le strade ogni altro giorno – di
ritorno dal lavoro, diretti al pub o a casa di amici, semplicemente di
passaggio – quella sera avevano di sicuro ben altro da fare. La vigilia di
Natale faceva questo effetto, di solito.
Si
immaginò, sistemandosi gli auricolari del lettore mp3 nelle orecchie, i grandi
cenoni. Il tacchino, i piatti da portata, le luci soffuse delle candele e lo
scintillio dell’albero addobbato. I sorrisi degli amanti, le risate dei
bambini. La neve, che quell’anno non aveva fatto loro visita ma che era così
frequente nell’immaginazione della gente quando pensava al Natale. Lo scambio
dei doni a mezzanotte insieme agli auguri. Per i più tradizionalisti, poi, il
brindisi con un buon spumante italiano, la nuova moda in fatto di “bollicine”
per le festività (una commessa era stata così gentile da informarlo di questo must have al Tesco, mentre comprava gli ingredienti per la sua cena della vigilia: latte, pane, una
confezione precotta di chicken tikka
masala1, un paio di bottiglie di vino rosso che
sull’etichetta portavano la scritta “Sangiovese” ma, a giudicare dal prezzo
stracciato, dubitava che fosse qualcosa di più del fondo della botte).
Lui
non avrebbe avuto nulla, di tutto quello. Lui non voleva nulla di tutto quello.
Accese
il lettore mp3, impostandolo sulla riproduzione singola. Sospirò quando le
prime note di Silence is All You Know
risuonarono nelle sue orecchie, accompagnando i suoi occhi a socchiudersi e la
sua mente a vagare nei ricordi.
Memorie
in cui il salotto ora buio dietro era illuminato da una calda luce
confortevole. Dove un piccolo alberello di Natale riempiva il vuoto vicino al
divano, fili di lucine colorate pendevano dalle finestre e attaccate allo
specchio sopra al camino, le note di Silent Night addolcivano
l’aria ora immobile portate dal suono di un tanto amato violino, suonate da una
mano altrettanto amata.
Una
mano che non c’era più, insieme a tutto il resto. Un tutto che mancava da
quella vita ormai da un anno e mezzo. Il tocco gentile di una carezza che aveva
avuto solo una volta, di cui aveva goduto solo per un istante, prima che il
proprietario di quel calore decidesse di rinnegare se stesso in un messaggio di
addio e costringerlo a guardare la sua caduta.
Lo
aveva costretto ad imprimersi negli occhi una scena che lo tormentava, di notte
così come di giorno, che occupava i suoi pensieri e non lo lasciava dormire in
pace, che infestava la sua mente come una malattia infettiva degenerativa, che
deteriorava il suo cervello come ruggine sul ferro: lentamente.
Deglutì,
sospirando a labbra socchiuse. Il cellulare, nella tasca dei pantaloni del
pigiama, vibrò contro la sua coscia.
Una
messaggio. Lestrade.
C’è sempre posto
per una persona in più.
John
non ebbe nessuna reazione nel leggere quelle parole. Pensò che, probabilmente,
un anno e mezzo prima gli avrebbero fatto piacere, gli avrebbero scaldato il
cuore.
Ma
un anno e mezzo prima era con Sherlock, quella sera. Stava ascoltando il suo
violino, lo guardava muoversi per l’appartamento, fare brutte figure con Molly,
cercare di essere cortese senza minimamente riuscirci. Condividere qualcosa con
le persone, con i suoi amici, con lui.
E
anche se non era perfetto, era comunque bellissimo.
Ma
ora non provava niente, nemmeno l’ombra di tutto quel calore, e rispose al
messaggio di Greg solo per pura cortesia. Non aveva voglia di andare a casa
sua, vedere gli sguardi di pietà che ancora gli riservavano le persone che
conosceva, assistere alla sua relazione con Mycroft,
approdata da poco allo stadio delle occhiatine di sottecchi e dei sorrisetti a
mezze labbra. Gli metteva davanti al naso una cosa che lui aveva avuto
l’opportunità di avere ma non ne aveva approfittato, non fino in fondo, e
quando si era accorto di volerla davvero ormai era troppo tardi. Il tempismo
della vita che lo mandava a fanculo per l’ennesima
volta.
Il
cellulare tremò di nuovo fra le sue mani. Un altro messaggio. Sempre Lestrade.
Ti prego, John. Ti
stiamo tutti aspettando.
Questa
volta, non gli usò nemmeno la cortesia di una risposta. Abbassò la mano e si
lasciò scivolare il telefono dalle dita, che impattò con il pavimento con un
rumore sordo di plastica che si crepa. Non gli importò più di tanto.
Allungò
la sinistra al suo fianco, afferrando tra le dita il collo lungo di una
bottiglia di vino. Se la portò davanti al naso e la aprì, non senza un po’ di fatica,
facendo saltare il tappo che finì chissà dove.
Non
si sprecò nemmeno di prendere dei bicchieri. Alzò direttamente la bottiglia
scura al cielo, sorridendo beffardo ad un luogo in cui nemmeno credeva,
sperando tuttavia che là fosse la persona a cui quel brindisi solitario era
dedicato e che lo stesse guardando, e che stesse finalmente provando qualcosa ora che era ridotto a
sol’anima, e magari che stesse facendo a botte con il proprio senso di colpa,
fra tutto.
« Buon Natale,
stronzo ».
« John? ».
Non
ricordava di essersi addormentato. Ma le cuffie del suo mp3, ancora ben
piantate nelle orecchie, erano silenziose. Si dovevano essere scaricate le
batterie, il che la diceva lunga sulla quantità di tempo in cui era rimasto
senza coscienza.
Le
sue labbra sapevano di vino e una bottiglia vuota giaceva riversa sul
pavimento, rotolata fino alla libreria. Non si ricordava di avere aperto la
seconda, però, ed infatti era ancora piena e sigillata ai piedi del davanzale.
Meglio così. Aveva passato poche sbronze nella sua vita – assistito a molte di
più – e quelle da vino erano notoriamente le peggiori.
Si
passò la lingua sulle labbra, mugugnando di dolore quando cercò di muovere la
schiena bloccata, ogni muscolo ad inviargli fitte dolorose su per la spina
dorsale. Scontato, quando si dorme per ore contro l’infisso della finestra.
Tentò
di stirarsi, ignorando il dolore, e pensò di trascinarsi in camera di Sherlock
– per dormire sopra il suo copriletto, degna conclusione di quella vigilia
solitaria e triste e vuota – ma fu solo quando quel pensiero si depositò che un
lampo di dubbio attraversò le volute nebbiose che l’alcool aveva creato nella
sua testa.
Qualcuno
lo aveva... chiamato?
« Sì, infatti. Era
ora. Certo che ce ne hai messo di tempo per accorgertene ».
John
sobbalzò violentemente alla voce che lo raggiunse, sufficientemente vicina da
essere nella sua stessa stanza, e
subito balzò in piedi, la mano sinistra in cerca della pistola (che non
portava) in uno scatto dettato dall’istinto del soldato.
Si
guardò intorno con ansia, scrutando il buio del salotto illuminato solo dalla
luna a tre quarti nel cielo sereno, cercando al contempo di non rimanere
soggiogato dal panico e di calmare il battito del proprio cuore impazzito.
« Chi sei? Fatti
vedere! » gridò, incollando
la schiena al muro e alzando i pugni davanti al volto in posa di combattimento.
Non era bravo nel corpo-a-corpo, ma in caso di
necessità sapeva per lo meno difendersi.
« Oh, non
esagerare, vuoi? Sei ridicolo. Sono io, stupido idiota, io! » disse la voce, la
quale fu subito associata ad un volto non appena il proprietario (o meglio, la proprietaria) entrò nel cono di luce
bianca proiettato dalla finestra.
E
John non credette ai suoi occhi.
« H-Harry... ?! » domandò sconvolto, osservandola.
Era
sua sorella, ma non era lei. O meglio, non
poteva essere lei. Sua sorella aveva
cinque anni in più di lui, cinque maledetti
anni in più di lui, cinque anni che molte volte lei aveva sfruttato per imporre
il suo volere, soprattutto quando era nel pieno dell’adolescenza e lui aveva
appena abbandonato l’infanzia.
Harriett Watson doveva aver compiuto la bellezza
di trentasette anni quell’anno, dunque la ragazzina appena quindicenne con le
trecce color sabbia e la camicia da notte bianca con gli orsetti non poteva essere sua sorella Harry.
Punto.
Lei
roteò gli occhi blu – un blu un po’ più scuro di quello di John – e sbuffò
contrariata.
« Non devo farti
tutto il discorso, vero? Dimmi che non è necessario, ti prego, faccio schifo a
spiegare le cose alla gente » disse, il tono scocciato che era stato la sua firma
durante l’adolescenza.
Quando
il panico passò, grazie alla convinzione che in realtà stesse ancora dormendo e
che fosse tutto un assurdo sogno, John la prese un po’ più con calma.
Per
lo meno, riuscì a riprendere possesso della propria voce: « sei... giovane » sottolineò.
Harry
alzò un sopracciglio. « È bello vedere
che la prendi con filosofia » disse.
« Se fosse reale
sarei pazzo » le rispose John,
sedendosi di nuovo sul davanzale.
Quella
si accigliò. « Cioè tu credi che
sia un sogno? » domandò, più
retoricamente che altro, scuotendo poi piano la testa in un modo teatrale: « da bambino eri
parecchio ottuso ma non pensavo che lo saresti stato anche da adulto, Johnny ».
Fu
il turno di John di accigliarsi. « Vuoi dire che sei... reale? » chiese, già
sull’orlo di un’inevitabile crisi di nervi.
Ma
Harry face spallucce. « Dovrei. Starà a
te deciderlo, suppongo. Ora potresti alzarti e seguirmi? Abbiamo parecchio da
fare e non voglio perderci tutta la notte, anche perché ho i minuti contati.
Letteralmente » sottolineò: « agli altri non
piace aspettare » disse.
John
la guardò con tanto d’occhi, interdetto. « Agli altri? » ripeté, lo
sguardo vacuo.
Lei
lo guardò negli occhi per qualche istante prima di riprendere parola: « non hai capito,
vero? ».
Il
medico non seppe più dove andare a parare, ed era già predisposto a risponderle
male quando lei decise di riprendere il discorso, alzando drammaticamente le
mani e rivolgendo lo sguardo al soffitto.
« Andiamo, Johnny!
Avrai letto quella pappardella di Dickens almeno venti volte, e sicuramente ti
sei cuccato tutte le versioni cinematografiche fatte fino ad oggi. Non puoi non
esserti accorto di chi sono! » esclamò la ragazzina.
Watson
la guardò con una smorfia a metà fra l’incredulo e il non-può-essere-possibile,
le labbra arricciate verso l’alto e la fronte aggrottata. Quando
l’illuminazione lo colse, non poté far altro che scoppiare lentamente in una
risata amara.
« Stronzate » disse poi: « non mi verrai a
dire che sei il Fantasma del Natale Passato, vero? » domandò, più
drasticamente divertito che serio.
Harry
non disse niente, aspettando che il fratello smettesse di ridere e tornasse a
guardarla.
John
si fece più serio. « Sei... il
Fantasma del Natale Passato? » domandò, incredulo.
Harriett fece una faccia scontata, annuendo con il
capo.
L’uomo,
però, non gliela diede ancora vinta. « Oh, andiamo! Se proprio devo avere una
psicosi delirante che almeno non sia a tema natalizio! » si lamentò: « plagiare “A
Christmas Carol” e metterci mia sorella nel suo periodo più insopportabile è
troppo anche per me! » continuò,
sfregandosi gli occhi con le mani.
Tornò
poi a guardarla, trapassandola da parte a parte. « Cos’ho fatto per meritarmi questo?
Non ho niente a che fare con Scrooge. Non ho schiavizzato
nessuno » esclamò.
« Che fai, lo
chiedi a me? E io cosa ne so, di grazia? » rispose lei, arrogante.
« Sei tu il
Fantasma del Natale Passato, qui, non io! ».
« E allora?! Avrai
fatto incazzare lo Spirito del Natale, cosa vuoi che ne sappia io? » ribatté quella,
la voce stridula da quanto alta.
« Cominciano ad
esserci un po’ troppi Spiriti qui... » borbottò però John, massaggiandosi con le
dita l’attaccatura del naso.
Harry
lo guardò, la classica espressione di sufficienza tipica della prima adolescenza,
prima di sbuffare. « Senti... fammi fare
il mio lavoro e vieni con me, ok? Prima facciamo e prima ti riporto indietro » offrì.
Un
patto che, tutto sommato, a John sembrò equo. Se era un sogno o stava
seriamente impazzendo poco importava. Alla fin fine, non aveva niente da
perdere.
« D’accordo » acconsentì
dunque, alzandosi dal davanzale ed infilandosi ciabatte e vestaglia di lana.
Notò solo in quel momento che i piedi di Harry erano nudi, ma non sollevò
l’argomento.
Gli
mancava solo di chiedere ad un’allucinazione se avesse freddo o meno.
Uscirono
dall’appartamento a passo leggero, scendendo i diciassette gradini del 221B
come se nemmeno vi poggiassero i piedi sopra. John pensò che fosse un’altra
prova del fatto che quello era tutto un sogno, ma si distrasse da quelle sue
elucubrazioni fin troppo logiche quando Harry, appoggiando una mano sulla
maniglia, aprì il portone.
Ciò
che si trovò davanti, però, non fu il solito panorama. Non le case dall’altra parte
della via, la stella cometa di luci intermittenti sul balcone del dirimpettaio,
il traffico sporadico della notte di vigilia.
Piuttosto,
un vialetto sterrato ricoperto di neve se non per le tracce di un paio di
pneumatici, che l’avevano compattata fino a farla diventare ghiaccio. Il manto
bianco si estendeva per chilometri oltre il vialetto, su campi a maggese che
sembravano infiniti, scontrandosi da una parte con il profilo di una cittadina
in lontananza e dall’altra con le luci di una villa in vecchio stile, animata
di musica e persone in festa.
« Questa... non è
Baker Street » disse John dopo
un attimo di smarrimento, chiudendosi la porta del 221B dietro di sé, che sparì
nel nulla trasformandosi in fiocchi di neve.
« Ottima deduzione,
Johnny » ironizzò Harry,
continuando prima che il medico avesse la possibilità di ribattere per le rime:
« questa è la
tenuta Holmes, nell’Essex, ed è la sera del 24
dicembre 1989 » disse,
cominciando ad incamminarsi lungo il vialetto in direzione dell’abitazione.
Inizialmente
John le andò dietro, ma quando sentì il nome dei proprietari si bloccò sul
posto. Harry lo notò solo dopo qualche passo e, sbuffando, si voltò indietro.
« Cosa c’è? » domandò, seccata.
John
si limitò a guardarla duramente. « Questa è... »
« Casa Holmes, sì.
Sherlock è cresciuto qui, di nuovo sì. Immagino non lo sapessi » interloquì.2
Watson
alzò gli occhi sulla casa poco più avanti, studiandone la struttura imponente
ma in vecchio stile, con il tetto spiovente di tegole rosse e le ampie finestre
squadrate.
No,
non lo sapeva. Sherlock non aveva mai diviso con lui qualcosa che riguardasse
la sua infanzia, così come non lo aveva fatto lui stesso con il detective. Non
perché non si conoscessero abbastanza, o non si fidassero l’uno dell’altro, ma
ci sono semplicemente cose di cui non si va fieri e, probabilmente per
entrambi, l’infanzia e l’adolescenza erano uno di quei discorsi tabù.
Ed
era un ricordo privato in cui non voleva immischiarsi.
« È prassi per voi
Fantasmi curiosare nei ricordi degli altri? » domandò allora John, nascondendo in
quella domanda tutto il disagio che il pensiero di mettere piede in quella casa
in realtà gli provocava.
E
non era per la privacy, per quanto tentasse nobilmente di convincersi che fosse
quello, il motivo. No. Sherlock non aveva più una privacy.
Era
perché Sherlock era morto, andato, sparito, e lui non aveva voglia di vederlo,
nemmeno in sogno, nemmeno sottoforma di un bambino impegnato a festeggiare il
Natale con la sua famiglia, che fosse amata o meno, amato o meno.
Non
voleva vederlo e basta.
« Smetti di fare il
moccioso e cammina » fu però la
risposta che ebbe dalla quindicenne in camicia da notte, che riprese a
camminare verso l’ingresso della villa.
John,
impossibilitato a fare altro senza il Fantasma al suo fianco, la seguì.
Un
numero discreto di macchine di lusso era parcheggiato nell’ampio spiazzo prima
dell’entrata e da una delle finestre del piano terra si potevano vedere le
sagome di alcune persone e percepire il chiacchiericcio tipico di una festa.
Lui
ed Harry sgattaiolarono dentro passando attraverso la porta chiusa – aveva
sempre desiderato farlo! – e l’alone di eleganza e ricchezza che subito quella
casa materializzò lo lasciò a bocca aperta per qualche istante. Come aveva
immaginato, Sherlock era cresciuto in una famiglia borghese, con tappeti persiani
sopra il parquet tirato a lucido e veri e propri arazzi alle pareti; con
genitori sicuramente benestanti che avevano amici altrettanto benestanti da
invitare la party della vigilia di Natale, in cui si ascoltava musica classica
e si discorreva di arte e affari e finanza e politica.
« Sia lui che suo
fratello hanno sempre avuto addosso quell’aria da signorotti, ma non avrei mai
pensato ad una cosa... così » mormorò John,
questa volta intento a fissare i vassoi d’argento con i quali la servitù
serviva agli ospiti flute di champagne e tart-tatin.
« Perché, c’è una
mezza via alla ricchezza? » domandò Harry, in piedi di fianco a lui con le
braccia conserte.
John
fece per risponderle ma fu costretto a rinunciare per scostarsi bruscamente
sulla destra all’avanzata in sua direzione di un cameriere con un vassoio
carico di tramezzini perfettamente triangolari.
« Rilassati, non
possono né vederci né toccarci » lo rassicurò, facendogli poi cenno di seguirlo.
Salirono
su per le scale e misero piede al primo piano, decisamente più buio e in cui il
chiacchiericcio del piano inferiore arrivava soffocato e lontano. Percorsero un
corridoio fatto più che altro di porte chiuse fino ad arrivare all’ultima sulla
sinistra, una porta a due ante che Harry attraversò con nonchalance. John la
seguì.
Non
era pronto a ciò che si trovò davanti, né fisicamente né mentalmente, e fu per
quello che rimase imbambolato con le labbra serrate e gli occhi sgranati e
fissi su di una figura dall’altra parte della stanza.
Una
figura che avrebbe riconosciuto ovunque, a prescindere dall’età.
Sotto
l’alta finestra di quella che era palesemente una biblioteca – alti scaffali di
libri occupavano almeno tre delle pareti ed una scrivania massiccia era ben
piantata in mezzo alla stanza, illuminata dalla luce fioca dei tre quarti di
luna che erano l’unica fonte di luce presente – era seduto un bambino esile e
dinoccolato, una massa di capelli scuri e ricci a ricadergli appena sulla
fronte, con un paio di occhi incredibilmente chiari che sembravano di ghiaccio
nel riflettere la luce lunare. Non poteva essere altri che Sherlock, e fu
esattamente quel nome che soffiò soprapensiero.
« Già » confermò Harry: « ha 10 anni qui,
se ti interessa saperlo » aggiunse poi,
guardando a sua volta nella stessa direzione di John.3
Il
piccolo Sherlock era vestito con un paio di pantaloni neri eleganti, una
camicia bianca ed un gilet di lana nera. Se ne stava inginocchiato a terra
intento a legare, con una delicatezza che John gli aveva visto usare molte
volte quando maneggiava beker ed alambicchi, un
sottile filo di cotone da cucito agli stoppini di diverse candele sparse per la
stanza – alcune a terra, altre sul ripiano del camino spento, altre sulla
scrivania, nessuna accanto ai libri.
Era
concentrato, quasi dedicato all’impresa, e quando ebbe collegato l’ultimo pezzo
di filo allo stoppino dell’ultima candela si sedette a gambe incrociate davanti
ad essa, estraendo dalla tasca dei pantaloni una scatola di fiammiferi.
Se
non fosse stato Sherlock, e se John non lo avesse conosciuto fin troppo bene da
adulto per fidarsi di lui anche da bambino, probabilmente avrebbe immaginato
subito l’intera libreria andare a fuoco.
Ma
Sherlock si limitò ad accendere la candela che aveva davanti a sé. E quando
John vide il filo di cotone prendere fuoco con una facilità impressionante, si
rese conto che doveva essere imbevuto in una qualche specie di liquido
infiammabile – probabilmente olio da lampada.
Ma
la bellezza di ciò che Sherlock aveva creato, dei giochi delle fiamme che
passavano da una candela all’altra accendendo uno stoppino dopo l’altro,
bruciando del tutto il filo che le collegava e che spariva, carbonizzato, dopo
pochi istanti di combustione, era talmente splendido da sembrare pura magia.
Il
fuoco caldo e lieve accese due candele a terra, passando ad un’altra su di una
sedia poco distante, poi alle tre posizionate sul camino ad uguale distanza una
dall’altra; scese verso una credenza, seguì il filo di nuovo sul pavimento e,
dopo due candele, salì ancora sulla sedia della scrivania, poi sulla scrivania
stessa. Riscese in un rivolo luminoso verso una candelabro a tre bracci nel
quale si divise in due dalla candela centrale, accendendo quelle laterali e
portandosi in due direzioni diverse, per poi rincontrarsi a terra su di un
altro stoppino poco più avanti e partire, correre lungo il filo in un
particolareggiato disegno a spirale che illuminò tutto il pavimento fino al
centro, dove infine si fermò.
John
non poté far altro che dimostrare, ancora una volta, la sua ammirazione. « Fantastico... » sussurrò,
stupito, osservando con un sorriso le traballanti fiammelle che li circondavano
completamente.
Ma
Harry non rispose e quando John cominciò a domandarsi il perché, e alzò gli
occhi su di lei e su Sherlock, si rese conto del perché.
Sherlock
non stava sorridendo, né sembrava felice della riuscita di quello che sembrava
tanto un esperimento di qualche sorta. Si limitava a fissare le candele con
aria torva, gli occhi lucidi di quelle che sembravano lacrime represse ma che
non avrebbe lasciato scendere, immerso nel silenzio di una biblioteca troppo
grande e troppo buia.
Solitudine.
Era solo. Il pensiero attraversò John come una scossa elettrica.
« A Natale nessuno
dovrebbe rimanere solo » osservò, gli
occhi fissi sul bambino immobile all’estremità opposta della stanza.
« Questo è il
Natale in cui Sherlock Holmes ha deciso di non credere più in niente » intervenne Harriett, spostandosi verso la scrivania e sedendosi
proprio sopra una delle candele accese; non fece altro che trapassarla e la
fiamma, da ferma che era, ferma rimase.
« Suo padre è
venuto a mancare da qualche mese. E prima che tu me lo chieda: no, non è stato
come per noi, non se ne è andato di notte sparendo nel nulla senza dire niente
a nessuno » aggiunse,
guardandolo dritto negli occhi.
Watson
non disse niente, limitandosi ad indurire la mascella in un moto di rabbia.
Ma
Harry continuò: « è morto in un
incidente d’auto. Ma Siger Holmes era l’unica persona
a cui Sherlock si sentisse realmente legato e, sfortunatamente, era anche
l’unico della famiglia che passasse abbastanza tempo con lui. Quell’arpia di
sua madre ha sempre preferito Mycroft e lo stesso Mycroft sguazzava abbondantemente nell’approvazione di
mammina per accorgersi di cosa vuol dire essere un maledetto fratello maggiore » sibilò.
« Harry! » la riprese John,
inutilmente preoccupato che il piccolo Sherlock potesse sentire.
« Che c’è? » domandò quella,
acida: « è la verità. Quei
due hanno cominciato a prestare attenzione a Sherlock quando ormai non ne aveva
più bisogno e solo perché si tuffava fino al collo in un guaio dopo l’altro,
facendosi beffe del buon nome della famiglia » disse con amarezza osservando il
bambino, prima di continuare: « in ogni caso, Sherlock stesso decise che non avrebbe
più avuto bisogno di nessun altro se non di se stesso. E non è difficile da
formulare come pensiero, per uno che non ha amici » terminò.
John
si sentì in dovere di dire qualcosa, ma quando prese fiato per farlo fallì
miseramente nel tentativo.
Non
c’era nient’altro da aggiungere a ciò che aveva detto sua sorella – o Fantasma
del Natale Passato che dir si voglia – perché aveva un fondo di verità che,
rapportato con lo Sherlock che lui aveva conosciuto, diveniva dolorosamente
palese. Molte volte John si era illuso di poter essere “l’eccezione alla
regola”, una di quelle eccezioni che a Sherlock non piaceva riconoscere, ma
nonostante il detective gli avesse fatto capire a voce di essere il suo unico
amico, John non glielo aveva mai domandato direttamente e ora tutte le sue
occasioni erano svanite nel nulla.
Chiuse
gli occhi davanti al bambino lasciato solo la notte della vigilia di Natale,
rivolgendosi ad Harry senza riaprirli. « Perché ho dovuto assistere a tutto
questo? » domandò, la voce
ferma.
La
ragazzina non si mosse dalla sua posizione sulla scrivania. « Non ti ricorda
qualcuno? » rispose con una
domanda.
Oh,
sì. Certo che gli ricordava qualcuno.
« Non c’era bisogno
di... questo » aggiunse John,
tornando a guardare Sherlock ed i suoi occhi chiari fissi sulla fiammella della
candela: « non dovevi
mostrarmi il suo passato, è privato è... intimo. Lui non avrebbe voluto ».
« Ma lui è morto » stoccò Harriett, guardandosi le unghie delle mani con simulata
sufficienza: « e questo è tutto
un sogno, no? » domandò ironica,
le stilettate nascoste in ogni parola.
John
si morse il labbro inferiore, combattuto, indeciso su cosa dire. « Perché...? » ripeté solamente.
« Perché a Natale
nessuno dovrebbe rimanere solo » gli rispose per l’ultima volta Harry, ripetendo ciò
che lui stesso aveva detto pochi minuti prima: « ora torna a casa e fatti un esame
di coscienza, Johnny ».
« Apetta! » esclamò John, voltandosi in fretta, ma non appena
Harry ebbe pronunciato l’ultima parola Sherlock soffiò sulla candela.
E
per un istante, tutto divenne buio.
Quando
terminò il mezzo giro su se stesso che aveva cominciato per girarsi verso
Harry, si rese conto di essere in piedi davanti alla finestra del 221B e che,
cosa più importante, il salotto era vuoto.
Rimase
interdetto per alcuni minuti, bloccato in piedi come se si aspettasse che la
ragazzina ricomparisse da un momento all’altro, ma quando non successe cominciò
seriamente a preoccuparsi della propria sanità mentale.
Possibile
che fosse stato tutto un sogno? O un’allucinazione? Ne stava uscendo pazzo?
Tutte domande alle quali non sapeva dare risposta.
Sospirò,
ormai convinto di aver perso quel minimo di equilibrio psichico che poteva
tragicamente essergli rimasto.
Forse
impazzire non era così male, alla fine. Vedere mondi al di là di questo, strani
pattern crittografati negli articoli di giornale, parlare ogni tanto con la
teiera o chiedere gentilmente alla lavatrice di lavare i bianchi a trenta
gradi. Un tipo di pazzia silenziosa, privata, solo vagamente pericolosa.
Chissà,
magari avrebbe anche potuto rivedere Sherlock. Il suo Sherlock, uno Sherlock creato da lui. Magari la brutta copia,
di lui, ma sempre, insostituibilmente, lui.
Sherlock...
Per
un momento, sedendosi sul divano nella penombra, pensò alle immagini che aveva
appena visto (sognato? Immaginato? Non lo sapeva proprio). Al ritratto di un
bambino solo e triste, lo sguardo vuoto, l’anima di chi non crede.
E nessuno che lo
andava a cercare.
Eppure,
pensò, sarebbe bastato così poco. Una mano tesa, una parola, un complimento.
Una compagnia silenziosa e comprensiva. Un sorriso.
Aspetta...
non era quello che aveva fatto proprio lui, conoscendolo?
« Sì, è vero ».
Il
cuore di John perse un battito a causa dello spavento e, decisamente colto alla
sprovvista, balzò dal divano e si voltò verso la fonte della frase, le mani
istintivamente portate davanti a sé in posizione difensiva (per la seconda
volta nella serata).
Dal
posto di fianco a lui, sul divano, Gregory Lestrade lo guardava con
un’espressione tranquilla e rilassata, persino sorridente.
« Ciao John » lo salutò.
« Greg... » soffiò fuori Watson,
facendo respiri profondi per calmare il battito ora impazzito del proprio
cuore. « Come ti salta in
mente di– aspetta... tu non dovresti essere... ».
« Alla festa nel
mio appartamento? Sì, infatti. E ci sono » annuì l’ispettore, passandosi una mano fra
i capelli brizzolati.
Ci
mise solo qualche istante, John, per rendersi conto che il trip in acido (o
meglio, il trip in facciamo-finta-che-sia-una-bottiglia-di-Sangiovese)
non era ancora arrivato alla sua conclusione.
« Non mi dire, il
Fantasma del Natale Presente? » borbottò contrariato, aggrottando le sopracciglia con
fare scocciato.
Quello,
alzando un sopracciglio, annuì con un cenno secco. « Ovviamente. Non
hai letto Dickens? Siamo in tre » disse, alzando altrettante dita della
mano.
« Sì, lo so. Speravo
solo di smaltire la sbronza prima che arrivassero gli altri due » gli rispose il
medico, passandosi il palmo sugli occhi chiusi. « Allora, dove mi porti? Sembri il
normalissimo Lestrade, niente cambi d’età o altro... » considerò a mezza
voce, osservandolo.
« Beh, “presente”,
no? È normale che tu mi veda come sono effettivamente al momento. E non andremo
da nessuna parte, no » disse Greg – o
Fantasma del Natale Presente che dir si voglia – battendo la mano sulla parte
vuota del divano che John aveva appena abbandonato: « siediti, ti
mostro una cosa ».
Inizialmente,
John si rifiutò di seguire le istruzioni di quel verosimile Lestrade seduto sul
suo divano, intento a ripescare il telecomando del televisore fra i cuscini. Ma
sapeva anche che, così com’era successo con la sua meno-verosimile
sorella di quindici anni, finché non gli avesse dato ascolto non sarebbe
finita.
In
altre parole, era fottuto in ogni caso.
Sospirò
pesantemente, accomodandosi accanto a Greg. Quello, premendo qualche tasto sul
telecomando, accese il televisore.
Ciò
che apparve sullo schermo non poteva essere definito da vocabolo che non fosse
“impossibile”. O variazioni sul tema.
« Quello è... ? ».
« Già ».
Nello
schermo a 32 pollici comparve, come se fosse un telefilm, l’appartamento di
Lestrade. Doveva essere per forza in quel momento, una sorta di livestream in contemporanea, perché la festicciola della
vigilia era in corso di svolgimento e John, osservando bene le immagini sullo
schermo, poté notare tutti gli invitati.
Tutte
le persone che conosceva.
Molly,
seduta sul divano color sabbia di fianco a mrs.
Hudson. Donovan, in piedi accanto a loro, un flute di spumante fra le dita
sottili. Lo stesso Lestrade, seduto sul rimanente pezzo d’angolo del divano e,
appoggiato sul bracciolo con un braccio delicatamente appoggiato sulle sue
spalle, Mycroft Holmes. Dimmok
stava passando in quel momento, inoltre, e andò a fermarsi vicino a Sally.
Nell’appartamento
risuonavano canzoni tipiche natalizie, un sottofondo musicale basso e
confortevole, ma non sembrava esserci aria di festa. Tutti osservavano Greg con
aria tesa o triste e lui, cellulare alla mano, aspettava qualcosa che aveva
l’aria di non arrivare.
« Non risponde » sentì dire al
Lestrade del televisore.
« Forse non vuole rispondere. Sarebbe meglio lasciarlo
stare » disse Sally in
tono pratico.
« No » si intestardì
però il poliziotto: « ormai è passato un anno e mezzo. È il secondo Natale
che passa da solo, non può continuare ad isolarsi da tutto e da tutti ».
« Devi considerare le circostanze, Greg » intervenne però Mycroft:
« per
quanto mi rammarichi ammetterlo, il dottor Watson era la persona più vicina a
mio fratello. E nemmeno io so spiegare esattamente quale fosse la vera natura
della loro relazione, se non per sottolineare la palese profondità del loro
legame. È per quello che, tutto sommato, la sua reazione potrebbe essere normale
» disse in tono mellifluo ed elegante.
Come
al solito quando sentiva parlare Mycroft, John
strinse il pugno in un moto di cieca rabbia. Il Greg accanto a lui lo notò, ma
dato che John non disse niente, nemmeno lui aprì bocca.
Il
dialogo sullo schermo continuò.
« Myc, ti prego, non anche
tu! » esclamò Lestrade.
« I-Io credo che abbia ragione, Greg... » cinguettò Molly, ma fu interrotta dallo
stesso ispettore prima che potesse aggiungere altro.
« No! » esclamò: « quell’uomo finirà
per distruggersi, e io non posso lasciarglielo fare! Non posso stare a guardare
di nuovo senza muovere un muscolo! ».
Per
qualche istante dopo quelle parole, il silenzio calò fra gli invitati. Holmes
sembrò intuire cosa intendesse Greg – non era difficile percepire la nota di autocommiserazione
nella sua voce – e portò la mano sulla sua nuca, massaggiandogli l’attaccatura
dei capelli con il pollice. Per calmarlo, probabilmente, o forse per fargli
sentire la propria vicinanza. Gesti d’affetto che erano così strani per Mycroft, così come lo erano stati anche per Sherlock, e
vederli palesati davanti a sé era proprio ciò che il medico voleva evitare.
Perché anche lui aveva ricevuto quel tipo di carezza, una volta, dal fratello
di colui che adesso stava toccando la nuca di un altro uomo con la stessa, muta
e sottointesa devozione, e il ricordo di quel piccolo istante era sufficiente a
martoriare il suo cuore ancora un po’, un po’ di più ogni volta.
John
distolse lo sguardo.
« Non è stata colpa tua » intervenne poi Dimmock: « c’erano delle procedure, e delle regole da
rispettare. Siamo Ispettori di Scotland Yard, Greg. Abbiamo delle
responsabilità ».
Greg
alzò su di lui uno sguardo furente, ma la voce che gli uscì dalle labbra era
calma e granitica. « È vero, avevo delle responsabilità nei confronti del
mio grado. Ma certe volte sono le responsabilità come uomo quelle che
dovrebbero prevalere. Il caso di Sherlock, per quanto strano sembrasse, che
fosse vero o falso, rientrava nella lista delle mie responsabilità come uomo.
Anzi, peggio: delle responsabilità come amico » fece una pausa,
cibandosi del silenzio attento delle persone attorno a lui: « lo conoscevo da 9
anni e l’ho lasciato morire. E non si tratta solo di lui. Ho caricato,
indirettamente, tutto sulle spalle di John. Tutti noi lo abbiamo fatto e
l’unica cosa che non abbiamo preso in considerazione era se John potesse
davvero resistere a quel peso. Li abbiamo lasciati da soli contro un nemico
troppo grande, che fosse o meno James Moriarty o lo
stesso inganno di Sherlock Holmes » ammise,
rammaricato. Socchiuse gli occhi quando la mano di Mycroft
passò dalla sua nuca ad accarezzargli la schiena, come farebbe un qualsiasi
compagno per calmare l’agitazione dell’altro.
« Watson ha
fallito, presumo » intervenne però Dimmock, la voce bassa ma nessuna voglia di abbandonare il
discorso: «
senza offesa nei confronti del signor Holmes qui presente, ma Sherlock Holmes
si è buttato. Watson non glielo ha impedito » disse.
E
John sentì il muro di vetro sottile che aveva eretto fra lui ed il dolore, con
sforzo e fatica e costrizione, creparsi ed infrangersi e cadere ai piedi della
sua anima in mille schegge di vetro.
Strinse
gli occhi, e i pugni sul tessuto dei pantaloni. « Basta così » supplicò.
« Mi dispiace, ma
devi ascoltare fino in fondo » gli rispose il Greg seduto al suo fianco, il tono serio.
« No... no. È morto
ormai, io non posso più... devo lasciarmi questa colpa alle spalle » rantolò John, il
fiato corto.
« È proprio perché
non ne sei in grado che mi trovo qui. E ora ascolta. Devi capire » gli rispose
Lestrade, inamovibile.
La
discussione sullo schermo del televisore – e dunque a casa del vero Lestrade –
continuò.
« No, non ha fallito ».
John
riaprì gli occhi, alzando lo sguardo.
A
parlare era stata Molly.
« Non ha fallito. John gli è stato vicino fino alla
fine, ha creduto in lui fino alla fine... anzi, ancora crede. Lui è l’unico che
non ha fallito » disse, gli occhi
lucidi pieni di lacrime, ad un passo dal pianto.
La
Signora Hudoson, sorridendole gentilmente, le prese la
mano con la sua e la strinse. « Io non credo che John sia triste » disse poi, la voce dolce della persona
saggia: « io
credo che John sia semplicemente... perso. Non riesce più a trovare la strada
giusta per vivere normalmente e, nel dubbio, si rassegna all’apatia. Gli serve
solo un po’ più di tempo, un po’ di tranquillità. Non potrà mai ritrovare la
via se noi gli stiamo sempre con il fiato sul collo, dico io. No? » domandò, sorridendo a tutti i presenti.
Fu
quello il momento in cui il Fantasma prese in mano il telecomando e spense il
televisore, lo schermo che tornò nero come se non fosse mai stato utilizzato.
Lo
guardò poi, in silenzio, aspettando una qualsiasi sua mossa. Una parola. Un
cenno.
Qualcosa.
Ma
da John non venne niente. Non sapeva come interpretare ciò che aveva visto, la
discussione che quelle persone avevano intavolato con lui come oggetto, e si
limitò a fissare il bordo del tavolino in silenzio. Qualcosa, nel petto,
bruciava di rabbia e sollievo contemporaneamente, ed era una sensazione strana
che non gli piaceva affatto.
Alla
fine, Lestrade si prese l’onere di cominciare il discorso. « Hai capito? » gli chiese.
John
scosse piano il capo. « No... » aggiunse in un
mormorio basso.
« Amici, John. Ne
hai ancora. Parlano di te, si preoccupano per te. Anche a Natale, quando
dovrebbero mettere da parte ogni cosa brutta o triste e pensare, almeno per un
paio di giorni, a divertirsi. E invece ti mandano SMS per fare in modo di farti
capire, anche se tramite qualche parola scritta in poche righe, che non sei
solo » gli spiegò,
appoggiandogli una mano sulla spalla. « So che Sherlock era diventato la cosa più
simile al centro del mondo che tu avessi mai avuto. So che importanza aveva per
te. Riesco a vederlo dentro di te... è stata l’unica mano tesa quando ne avevi
più bisogno. Nessuno ti ha capito come ti ha capito lui. Lo so, John, lo so...
ma devi dare una possibilità anche a loro, perché sono lì e da te non aspettano
nient’altro che questo: una possibilità » concluse, stringendogli affettuosamente
la spalla.
John
rifletté. Sulle parole del Fantasma al suo fianco, sulle parole di Greg, sulle
parole di Molly, sulle parole di Mycroft, sulle
parole della Signora Hudson. Sulle parole di Dimmock.
Ma non riusciva a togliersi dalla testa la voce di Sherlock, metallica a causa
del cellulare, che autodistruggeva tutto ciò che era... per cosa, poi? Per
distruggere anche lui? Sherlock sapeva di potersi fidare? Erano domande che lo
avevano tormentato, ucciso notte dopo notte, e ora che era finalmente riuscito
a rinchiuderle in un angolo della propria mente tutto tornava prepotentemente a
galla.
E
non capì più cos’era giusto o sbagliato.
« Sparisci » sibilò secco a
Lestrade, alzandosi dal divano con le braccia abbandonate lungo i fianchi. « Ho chiuso con
questa stronzata... » soffiò fuori,
dirigendosi a passo lento verso la porta della camera di Sherlock.
Lestrade,
dietro di lui, scomparve nel silenzio.
Il
suo cuscino non aveva più il suo odore. Sapeva semplicemente di polvere. Così
come il copriletto, il lenzuolo, la coperta e qualsiasi altra cosa; polvere, e
spray antiacaro.
Tuttavia,
a John bastava l’illusione. Dopo l’Afghanistan era diventato bravo a vivere di
esse, capacità che era migliorata dopo il suicidio di Sherlock. Dopotutto lui
non aveva mai carpito l’odore dell’altro dalla federa, o direttamente dai suoi
capelli, dunque non sapeva nemmeno quale potesse essere realmente. Si
accontentava di immaginarselo, ogni tanto, quando la notte passata sul divano o
in camera sua era insonne in una maniera imbarazzante e lui si rendeva conto
che, se avesse voluto trovare la pace, il solo luogo in cui avrebbe dovuto
cercarla era la camera di Sherlock.
E
si odiava, per questa debolezza. Per questa sua immaginazione fallace in
funzione della quale si era ridotto a vivere. Si diceva che sarebbe andata
meglio, con il tempo; se lo era ripetuto a lungo tutti i giorni, ma per un anno
e mezzo si era sentito alla stregua di un esiliato. Troppo orgoglioso per
chiedere aiuto, troppo bravo a mentire per accettare quello che gli veniva offerto.
E
intanto il tempo passava. E sono tutte cazzate quelle del cinema: il tempo non
aiuta, non guarisce proprio un bel niente. Fa dimenticare, forse, ma quella non
è una cura: è una scappatoia.
Lui
non scappava. Piuttosto, soffriva.
Inspirò
profondamente il profumo assente di Sherlock, girato sul fianco con le
ginocchia piegate. Voleva dormire, non pensare più a niente almeno fino a
mattina, scivolare nell’oblio e aspettare un Natale in cui forse, o meglio
quasi sicuramente, Mrs. Hudson avrebbe avuto abbastanza pena di lui da
portargli di sopra un piatto di biscotti fatti in casa e, la sera, qualche
avanzo di tacchino con verdure.
E
lui sarebbe stato grato delle piccole cose, avrebbe guardato lo Special di Natale di Doctor Who alla TV, e il 25 dicembre sarebbe scivolato via per un
altro anno portando con sé tutto il resto.
Non
si premurò di aprire gli occhi quando sentì qualcuno sedersi sul bordo del
letto, facendo abbassare il materasso, né lo fece quando delle dita sottili e piccole
presero ad accarezzargli i capelli con movimenti delicati.
Era
rassicurante in un modo estraneo ma famigliare al contempo. Aprì gli occhi.
La
figura che vide era senza ombra di dubbio quella di uno sconosciuto ma al
contempo non lo era. Nonostante la pochissima luce poteva vederne la sagoma ed
era senza ombra di dubbio un ragazzino, forse di quattordici o quindici anni,
con i capelli neri, lisci ed ispidi e gli occhi chiari (grigi, o forse
azzurri). Vestiva con un paio di jeans, ed il collo alto di un maglione bianco
spuntava dal colletto del cappotto corto e nero.
« Ne ho dodici » disse quello,
sorridendogli, la voce intrisa di dolce pacatezza.
Ormai
John non si stupiva più del fatto che ricevesse risposte a domande o
supposizioni che aveva solamente pensato.
« Ti conosco? » domandò invece,
immobile nella sua posizione e gli occhi socchiusi a godere stancamene di quel
tocco gentile.
« Non ancora » rispose il
ragazzino.
« Chi sei? » domandò allora
John.
« Il Fantasma del
Natale Futuro » fu la replica
veloce dell’altro.
Watson
sogghignò. « E hai un nome,
Fantasma del Natale Futuro? ».
« Sì » rispose l’altro: « ma non posso dirtelo.
Il futuro è una cosa labile, può essere stravolto persino dal battito d’ali di
una farfalla4, e non esagero nel dire che la mia stessa
esistenza dipende dal fatto che tu non sappia chi sono. Per lo meno, non prima
del tempo debito ».
John
piegò le labbra in un sorriso stanco, sistemandosi meglio contro il cuscino e
chiudendo gli occhi di nuovo. « Chiunque tu sia e dovunque tu voglia portarmi, io non
verrò » mise in chiaro: « non ho niente
contro di te, ma sono stanco di disilludermi ».
Il
Fantasma smise di carezzargli i capelli, appoggiando la mano sul copriletto. « Nemmeno se ti
prometto che il futuro che vedrai sarà carico di speranza? » domandò poi,
enigmatico.
John
soffiò fuori una risatina amara. « Come fai ad esserne certo? ».
« Perché la maggior
parte delle volte la parola più adatta per descrivere il futuro è proprio
“speranza”. Perché nella mente delle persone, pensare al futuro significa
sperare che tutto vada per il meglio, un giorno o l’altro » spiegò: « e perché tu sei
un brav’uomo, John Watson, e ti meriti il futuro in cui speri » aggiunse,
alzandosi in piedi e tendendogli la mano.
Il
medico, ancora steso sul letto, lo guardo in silenzio. « Questi non sono
concetti adatti ad un bambino di dodici anni. I dodicenni non pensano a queste
cose » affermò,
nascondendo una domanda fra le righe.
Quello
alzò l’angolo della labbra in un sorrisetto a mezza bocca. Un ghigno così
famigliare che, per un momento, gli sembrò di veder sorridere Sherlock.
« I miei genitori
mi hanno educato al meglio. E, modestia a parte, sono un po’ più intelligente
della media » gli rivelò, ma
dato il modo in cui si esprimeva John era sicuro che si stesse sottovalutando.
Non
seppe cosa lo portò a fidarsi. Forse
la luce particolare che quel ragazzo aveva negli occhi, o i modi così
conosciuti nonostante non lo avesse mai
incontrato prima di quel momento e non sapesse nemmeno il suo nome. Un po’ come
la prima volta che aveva incontrato Sherlock Holmes, si disse: lo aveva
affascinato con la sua intelligenza e presenza, e aveva subito sentito che la
propria naturale diffidenza era stata abbattuta senza il minimo sforzo.
Si
mise seduto, senza staccare mai gli occhi da quelli dell’altro, che non abbassò
la mano tesa in sua direzione. Una volta appoggiati i piedi a terra allungò
anche la sua, afferrandola.
Si
sentì tirare per il braccio e, quando fu in piedi, si rese conto
improvvisamente di non essere più in camera di Sherlock. Anzi, di non essere
più nemmeno al 221B.
Il
paesaggio attorno a lui era cambiato così in fretta che non se ne era nemmeno
accorto; come le scene nelle pellicole dei film, talmente veloci da riuscire ad
ingannare l’occhio e dare un senso di continuità.
Ciò
che si trovò davanti agli occhi fu Trafalgar Square
in tutta la sua bellezza, con bancarelle di Natale sparse per tutta la piazza e
un albero gigantesco ricoperto di luci colorate. Non nevicava, ma a giudicare
da come la gente era vestita doveva fare molto freddo.
John
sospirò, la mano ancora stretta in quella del ragazzino, volutamente ignaro di
come stringerla sembrasse una cosa così normale. « In che anno siamo? » chiese, assorto
nella contemplazione della piazza dalla scalinata della National Gallery, sopra la quale erano “atterrati”.
« Segreto » disse però l’altro,
cominciando a scendere: « posso solo dirti
che potrebbe essere il tuo futuro, ma non quanto prossimo » aggiunse.
« In che senso
“potrebbe”? ».
« Il futuro è tutta
una questione di scelte, John » gli disse, fermandosi ad una decina di gradini dalla
fine della scalinata: « e può essere
cambiato. Io ti sto mostrando uno dei possibili svolgimenti che la tua vita
potrebbe prendere, niente di più » e con un cenno della mano libera gli
indicò un punto in particolare ai piedi del grande albero, poco distante da
loro.
Vide
se stesso, John, sotto quell’enorme massa luccicante, in piedi con un bambino
in braccio. Il piccolo era avvolto in una tutina imbottita, dunque non riusciva
davvero a capire quanti anni avesse, ma era abbastanza piccolo per poter essere
tranquillamente appoggiato al fianco e sorretto senza fatica. Aveva un berretto
di lana bianca sulla testa dal quale spuntavano piccoli ciuffi scuri, con un pon-pon sulla cima, e osservava affascinato la lampadina
più vicina, indicandola con la manina guantata di rosso. Aveva gli occhi
chiari, e grandi.
John,
lasciando la mano del Fantasma, scese di altri due gradini, la bocca aperta e
lo sguardo incredulo. « È... mio? È mio
figlio? » domandò con un
fil di voce. Ma il Fantasma non rispose, rimanendo in piedi dietro di lui,
sorridente.
Non
gli importò più di tanto della risposta, in quel momento. Perché quel bambino
dalle guance paffute aveva riso, contento di chissà cosa, e quella felicità si
era riflessa sul volto del John futuro – sul suo volto – facendo nascere sulle sue labbra un sorriso dolce e
devoto, come se il bimbo che teneva il braccio fosse tutto il suo mondo, le
stelle e l’intero universo, e John capì.
Capì
di essere padre.
Con
qualche capello grigio in più e la stanchezza tipica di chi è abituato a
passare giornate movimentate, certo, ma nei suoi occhi di padre non c’era ombra
della tristezza e della solitudine, dello spettro aveva cominciato a vedere
ogni giorno riflesso nello specchio, e una seconda realizzazione lo colpì come
un’ondata di marea particolarmente violenta.
Capì
di non essere solo. Non più.
Sposato?
Aveva una moglie, una fidanzata, una compagna? Domande ed immagini cominciarono
a rincorrersi nella sua mente, ipotesi su chi avesse potuto accettare come
compagno un ex-soldato ferito con un’anima marcita dall’abbandono, e chissà
perché gli veniva in mente una sola persona.
Una
persona ormai perduta.
Ma
ecco un ombra muoversi veloce fra la folla. Un lungo cappotto ed il lampo blu
di una sciarpa. Un piccolo ma sincero sorriso sulle labbra sottili nel vedere
John con in braccio il bambino, gesto accolto con uno sguardo amorevole da
parte di quel John ormai padre e compagno e completo.
Prese
fiato per parlare, per pronunciare un nome, ma le mani del fantasma si posarono
sui suoi occhi, togliendogli la vista.
« Basta così » disse il ragazzo
dietro di lui, sussurrando direttamente nel suo orecchio.
Watson
fece per protestare, domandare di poter continuare a guardare ancora per un
po’, ma quando sentì quelle mani sottili scivolare via dai suoi occhi, si
ritrovò scomodamente seduto sul davanzale della finestra del 221B.
Si
sollevò da quella posizione scomoda, raddrizzando la schiena che scricchiolò
dolorosamente.
Sentiva
freddo, e sapore di vino sulle labbra, e non si ricordava davvero di avere
aperto la seconda bottiglia ma giaceva ai piedi della finestra vuota per tre
quarti, l’ultimo bicchiere del quale mezzo rovesciato sul tappeto.
Vergognandosi
di se stesso, si mise le mani nei capelli e chiuse gli occhi.
Era
stato tutto un sogno? Un’illusione indotta dall’alcool? Possibile. Anzi, quasi
sicuramente.
Dopotutto,
come poteva essere reale? I Fantasmi, i ricordi, quella... visione di lui nel
futuro, padre, felice. Non poteva
essere vera perché lui non era felice e, soprattutto, perché in essa c’era
Sherlock, e Sherlock era morto.
È
una cosa da cui non è possibile tornare indietro.
Si
strappò le cuffie dell’mp3 ormai completamente scarico dalle orecchie,
allungando poi la mano verso il cellulare per vedere l’ora. Quando sbloccò lo
schermo e la sua luminosità gli ferì gli occhi, trovò una chiamata persa. La
controllò.
Lestrade.
Era
stata effettuata poco prima di mezzanotte – ovvero due ore prima.
Per
un attimo, un flash attraversò la sua mente. Greg, dentro lo schermo del suo
televisore, dire “non risponde”.
No.
Era talmente vana e distante, come possibilità, che faceva persino fatica ad
essere considerata pura coincidenza.
Magari,
però, non era la verità che doveva cercare, questa volta.
Ma
la speranza. La forza di credere in qualcosa di migliore. Negli amici, tanto
per cominciare.
Nessuno
dovrebbe rimanere solo, a Natale.
Uscì
dal registro chiamate, aprendo un nuovo messaggio. Digitò in fretta uno
striminzito “Buon Natale”, non trovando davvero nient’altro da aggiungere, ma
supponeva andasse comunque bene così. Cercò in rubrica il numero di Lestrade e
lo inviò.
Probabilmente
non lo avrebbe visto prima di domani mattina, data l’ora. Ma almeno lo avrebbe
letto e, volendo, lo avrebbe anche richiamato. E John lo avrebbe invitato per
bere qualcosa, magari un tè, e chiacchierare. Per chiedergli quell’aiuto che
non aveva ancora chiesto a nessuno ma che gli serviva, non poteva più fare
finta.
E
magari avrebbe costruito un futuro come quello che aveva visto, in cui più
nessuno avrebbe dovuto passare da solo la vigilia di Natale, o smettere di
credere che sia possibile trovare una soluzione.
Sarebbe
andato avanti un passo per volta, partendo dalle piccole cose.
A
cominciare da un augurio.
Epilogo
5 anni dopo...
Si
sistemò meglio Hamish fra le braccia, cercando di evitare che toccasse il filo
di luci sull’albero e di parlare al telefono contemporaneamente.
« Sì, partiremo
domani mattina. Abbiamo già prenotato i biglietti, verremo in treno ».
Il
piccolino si aggrappò con una manina guantata di rosso al giubbotto del padre,
sporgendosi un po’ di più verso la piccola lucina gialla che se ne stava lì, a
qualche decina di centimetri di distanza, contornata da un affascinante lucore
dorato. John, osservando gli occhi vivaci e attenti di suo figlio, non poté
fare a meno di sorridere.
« Greg, è inutile
che ti dica che non è stata una mia decisione, vero? Ha detto che saremmo
venuti in treno e così sarà, la sentenza è inoppugnabile ».
Mentre
ascoltava la replica di Lestrade dall’altra parte dell’apparecchio, Hamish si
girò verso di lui. Si agitò, muovendo le gambe nel suo abbraccio saldo e
protettivo, come a volergli comunicare la meraviglia di aver scoperto le
lampadine colorate dell’albero di Natale.
Il
sorriso di John si allargò. Strusciò affettuosamente il suo naso contro quello
del bambino, che rise felice.
« Nemmeno io so
perché l’ho sposato, ma temo che io e te ci porremo questa domanda per il resto
della nostra vita » scherzò, baciando
la mano di Hamish quando il piccolo, volendo probabilmente esprimere il suo
affetto, gliela schiaffò sulle labbra. Suo figlio rise di nuovo. « Ok, allora ci
vediamo in stazione alle 11. Salutami Mycroft.
Buonanotte » salutò, chiudendo
la chiamata e mettendosi il cellulare in tasca.
Il
tempo di riappoggiare gli occhi sul pargolo che teneva in braccio, ora
impegnato in una personale campagna per la liberazione delle mani dai guanti,
che da lontano riconobbe la sagoma famigliare di suo marito percorrere la
piazza a passo di marcia con un waffle ancora caldo
in mano.
Osservandolo
avvicinarsi, John gli sorrise. Un sorriso sincero e nato dal cuore, dolce, e
nel farlo strinse di più al petto il loro bambino, che ormai era riuscito a
togliersi un guanto e minacciava di lanciarlo verso l’enorme albero di Natale
dietro di loro.
Sherlock,
a pochi passi da loro, ricambiò il sorriso con un lievissimo incurvarsi di
labbra.
« Tuo figlio ha
deciso che i guanti sono superflui, a quanto pare » gli disse,
alzando il collo quando il detective si chinò per sfiorargli le labbra con le
proprie: « e ti saluta Greg.
Alla fine Mycroft si è arreso all’evidenza che non
guiderai la sua macchina fino nell’Essex ».
« Alla buon’ora » ribatté Sherlock:
« dovrebbe
ringraziarci solo perché ci prendiamo il disturbo di partire la mattina di
Natale per andare da mia madre ».
« Violet merita di vedere suo nipote e suoi figlio almeno una
volta l’anno, Sherlock, ne abbiamo già parlato » lo redarguì John, arrendendosi al
volere del bambino e togliendogli finalmente i guanti.
« John, Hamish ha
un anno e mezzo. Ha tutta la vita per andare a trovare sua nonna. In quanto a
me sai benissimo che non è il giorno che aspetto di più in un anno » rispose però
Sherlock, testardo come sempre, staccando con le dita un pezzetto di waffle e cominciando a soffiarci sopra. Il freddo lo aiutò
ad intiepidirlo quasi subito.
« E non avevamo
nessun piano » continuò John con
un sorrisetto sghembo.
« È irrilevante,
John » troncò però
Holmes, allungando il pezzetto di dolce ad Hamish. Quello, dopo averlo
osservato attentamente per qualche istante, lo afferrò con entrambe le mani e
cominciò a sbocconcellarlo.
Il
sorriso di John, se possibile, si addolcì ancora di più. Ogni volta che
guardava suo marito e suo figlio, e faceva il conto di ciò che aveva, si
rendeva conto che non poteva più fare a meno di credere ai miracoli. Era troppa
tutta quella felicità per una persona sola, ma era sua, sua e di Sherlock, e
non l’avrebbe divisa con nessun altro perché nessuno la meritava più dell’uomo
che aveva sposato.
Rivolse
quello stesso sorriso a Sherlock, e Sherlock glielo restituì in un inclinarsi
di labbra.
« John? » lo chiamò poi il
detective, passando un altro pezzetto di dolce ad Hamish. « Perché Trafalgar Square? Non ci siamo mai venuti il giorno di vigilia » chiese.
Watson
alzò gli occhi, posandoli sull’imponente scalinata della National Gallery. Si immaginò una versione poco più giovane di se
stesso, in pigiama e vestaglia, e quello che ora sapeva essere suo figlio là,
in piedi su di un qualche gradino, e sorrise ancora prima di rispondere.
« Perché l’ho
sognato ».
End ~
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1.
Il chicken tikka masala è uno stufato di pezzi di pollo al curry serviti in
una salsa densa e piccante. La sua provenienza è incerta, in quanto sia la
Scozia che l'India ne reclamano i natali. Ho avuto l'onore di assaggiarlo a
Londra ma, essendo che a me non piacciono le cose speziate, ammetto che non mi
è piaciuto.
2.
È opinione comune che i signori Holmes, nel canone, fossero proprietari
terrieri appartenenti alla medio-alta borghesia. Indi
per cui, l'Essex mi sembrava abbastanza vicino a
Londra ma anche abbastanza in campagna per ospitare la tenuta Holmes (in cui, nei
miei pensieri più vividi, la loro madre abita ancora).
3.
Sempre attraverso fonti di maggioranza, ho calcolato che Sherlock sia nato nel
1979 (e John nel 1977). Sì, secondo gli "studiosi" del canone, i
nostri cari hanno solo due anni di differenza l'uno dall'altro. Va da sé che
nel Natale '89 Sherlock avesse 10 anni (quasi 11 in realtà, essendo nato il 6
gennaio).
4.
Riferito al famigerato Effetto Farfalla, locuzione della Teoria del Caos
secondo cui piccole variazioni nelle condizioni iniziali producono grandi
variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema. Citando il
professor Ian Malcom di Jurassic Park: "una farfalla batte le ali a
Pechino e a New York arriva la pioggia invece del sole".