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Autore: Opalix    14/07/2007    10 recensioni
“Ai miei tempi sono stata chiamata in molti modi: sorella, amante, sacerdotessa, maga, regina. Ora in verità sono una maga e forse verrà un giorno in cui queste cose dovranno essere conosciute. Ma credo che saranno i cristiani a narrare l’ultima storia…” Marion Zimmer Bradley – “Le nebbie di Avalon”.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Draco/Ginny
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
Capitoli:
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Allora, volevo dire solo un paio di cose:
1. GIU’ LE MANI DA AXL.
2. Questo che vi accingete a leggere dovrebbe essere il penultimo capitolo: mi manca un capitolo e l’epilogo. Avrei voluto finire tutto prima dell’uscita di Deathly Hollows, ma non ce l’ho fatta per un pelo. Il prossimo weekend la maggior parte di noi (me compresa) sarà impegnata nel vedere il beneamato Voldie lasciare questa valle di lacrime, quindi non avrete certo tempo di badare alla mia ff. Questo mi lascia una decina di giorni per mettere giù il finale al meglio delle mie possibilità, per deludervi il meno possibile. Buona lettura e un bacio a tutte!

CAPITOLO 11: FORGET ME NOT

“Where do we go from here?
This isn't where we intended to be
We had it all, you believed in me
I believed in you…”
“You must love me” from “Evita” (film, 1996)

Madama Chips sbiancò davanti allo spettacolo angosciante della schiena candida di Ginny ricoperta da mille piccoli tagli scarlatti: identici tra loro, alla stessa distanza l’uno dall’altro, partivano dal fondoschiena ed arrivavano a ricoprire le spalle, le braccia e persino le mani, in un’orrida e sottile tortura. Tuttavia sparirono in fretta sotto le mani esperte della vecchia infermiera, e Ginny sopportò l’effetto della pozione bruciante senza un lamento. Non sembrava neppure viva.
Né reagì quando le raccontai della profezia, se non con un debole sorrisetto amaro, il sorriso di chi aveva già da tempo compreso ogni cosa . Ma, anche se attesa, la verità faceva sempre e comunque un male d’inferno.
“Dì qualcosa, ti prego…” le dissi, vedendo che non accennava ad aprire bocca.
“E che vuoi che ti dica…” sospirò, “fa quasi paura quanto tutto questo abbia senso, alla fine…” Che voleva dire? Non era una sensazione familiare , né tantomeno confortevole, non riuscire a seguire il filo di un discorso.
“L’isola di smeraldo è l’Irlanda, Hermione, non lo sapevi?” chiese Ginny distrattamente, lo sguardo pensoso rivolto al ritaglio di cielo blu intenso che si vedeva dalla porta spalancata; la notte era calda e il profumo dell’estate ci avvolgeva, secco e fragrante.
Isanhild era una maga irlandese.
Ginny stessa aveva origini irlandesi.
Il cerchio doveva chiudersi, là dove si era aperto.
Come faceva Ginny ad essere così tranquilla e rassegnata? Non lo so, non lo so proprio…
Non era così che doveva finire. Era difficile togliersi quel pensiero infantile dalla testa. Ginny avrebbe dovuto essere mia cognata, damigella d’onore al mio matrimonio come io al suo… con Harry. Era il nostro sogno di ragazzine, mai confessato, ma sempre presente tra le parole non dette di quegli anni di amicizia, ad Hogwarts. Era quello il futuro che sognavamo. Non Ron disteso su un letto, immobile, senza più nulla se non la speranza di risvegliarsi, un giorno, con un buco di anni nella memoria. Non la sofferenza per la morte di tanti amici e familiari, non il dolore. Non Draco. Non così.
Eppure il mondo, gli dei, il destino… il caso… c’è un disegno, da qualche parte. Forse nascosto. A volte così incomprensibile che non sabbiamo dargli altro nome che “perversità”. Ma un disegno esiste, sempre… e il privilegio di aver vissuto tanti anni da non poterli nemmeno più contare è quello di poterne cogliere , finalmente, l’intero trama nella sua crudele complessità e bellezza.

“C’è una bestia che
Si addormenterà ogni volta che
Bella come sei, le sorriderai…”
“C’è una bestia…” from “La bella e la bestia” (Disney,1991)

Era passata da poco mezzanotte quando il drago si posò sul prato, planando sul pendio della collina. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi, ma c’eravamo tutti, un po’ nascosti, un po’ in disparte, e nessuno avrebbe lasciato partire Ginny senza dirle addio, almeno nel proprio cuore. Harry non si vedeva, ma c’era anche lui, da qualche parte.
Ginny si avvicinò al drago senza paura e accarezzò il muso nero e squamoso, che si era piegato in un timido inchino: il segno di resa di una delle più imponenti creature magiche al tocco gentile delle dita di una fanciulla.
La Principessa e il Drago.
La Bella e la Bestia.
Mille favole e sogni infantili mi attraversarono la mente, mentre guardavo Ginny salire sulla schiena del rettile ed abbracciare il collo possente, sistemandosi sull’attaccatura delle ali. Poi le ali si spiegarono, ampie e frangiate come quelle di un pipistrello, e il drago sparì nella notte.
Non rivedemmo Ginny e Draco per molto tempo, più di un anno… un anno, un mese e un giorno, in effetti, proprio come aveva predetto Calì. Fu un periodo lungo e tedioso. La condizione di Ron non accennava a cambiare, così come non sembrava voler mutare la logorante fase di stallo tra Voldemort e l’Ordine: la guerra era in ogni angolo, in ogni sorriso colpevole, in ogni lacrima nascosta… l’ultimo horcrux fu trovato e distrutto, ma per mesi il mondo magico continuò a trascinarsi in una angosciante tregua armata.
Il tempo passava lento e regolare, scandito non tanto dal procedere del calendario, quanto dai pensieri che, ciclicamente, passavano dal ricordo dei morti, all’ansia per i vivi… alle preghiere per i dispersi. No, nessuno di noi si dimenticò di Ginny e Draco, sebbene parlare di loro fosse diventato una sorta di tabù, due nomi evitati nelle parole ma ricorrenti nei pensieri che, per una regola non scritta, non venivano mai espressi.
Non so cosa accadde laggiù in Irlanda: i ricordi di Draco e Ginny di quel periodo sono frammentati ed incoerenti, così come dimezzate sono state le loro vite. Soltanto un episodio, un incontro, è stato raccontato da Ginny in modo abbastanza chiaro perché io possa raccontartelo a mia volta. Del resto, senza di esso, la storia non avrebbe alcun senso di essere tramandata.

“Time passes. Even when it seems impossible. Even when each tick of the second hand aches like the pulse of blood behind a bruise. […] Even for me.”
Stephenie Meyer
“New Moon”

La figura vestita di bianco vagava nel bosco, sola eppure tranquilla… come se nulla potesse farle del male, in quell’angolo di terra ancora non mutato dall’opera dell’essere umano. Trascinava per le briglie un cavallo dal mantello nero, il suo passo era lento e stanco, il suo sguardo distante; i suoi capelli, come fiamma sul candore della tunica che indossava, ondeggiavano nella brezza della notte, lunghi fino ai reni. Il battito sordo delle ali di un drago echeggiava, ripetendosi ogni pochi passi della donna e del cavallo, costruendo una ritmata melodia a tre voci nel silenzio della foresta. Un bagliore di luce azzurrina che traspariva dal fogliame fitto degli arbusti attirò gli occhi grandi e scuri della ragazza, che deviò impercettibilmente dal sentiero che seguiva, per inoltrarsi, con sicurezza, nel buio.
Un unicorno.
Un cucciolo, in realtà. Il piccolo corno argenteo risplendeva come un gioiello e anche il manto candido, di un bianco così puro da risultare praticamente celeste, emanava la debole luminosità caratteristica degli unicorni. Nelle forme acerbe e ancora sproporzionate si distingueva già la linea elegante e fine che avrebbe mostrato di lì a pochi mesi. Negli occhi espressivi, di un blu intenso screziato di grigio, si leggevano l’intelligenza e la sensibilità dell’animale che, tra tutti, era il più puro sulla faccia del pianeta.
Era accucciato a terra, accanto al corpo di un unicorno più grande a cui la morte aveva rubato ogni splendore. La folta criniera copriva come un sudario il muso elegante e gli occhi chiusi per sempre della femmina morta… Sul bianco del mantello, la luminosità del cucciolo si rifletteva creando, con un gioco di ombre, l’illusione che l’animale si muovesse ancora. Non c’è cosa più triste, più straziante della morte di una creatura così intrinsecamente buona, se non il dolore nello sguardo sperduto del suo cucciolo.
Il piccolino sollevò gli occhi per incontrare quelli di Ginny, colmi di compassione, ed emise un debole lamento; abbandonò il muso contro la mano che si tendeva piano verso di lui, strofinandosi come a cercare conforto. Ginny prese una bottiglia d’acqua dalla borsa che portava legata in cintura e ne versò un poco sulla mano per farlo bere.
“Chi sei?”
Il cavallo alle spalle di Ginny nitrì, ostile, e anche il musetto dell’unicorno tremò contro la sua mano. Ginny sollevò lo sguardo e si trovò davanti un anziano centauro, dai capelli rossi striati di bianco e l’aspetto possente, sebbene non aggressivo.
“Allora, chi sei, Gwenhwyfar?”
Gwenhwyfar… non un nome, ma un titolo: Fata Bianca. Il centauro non si era reso conto di averla chiamata con il suo nome di battesimo. Che poteva mai rispondere a chi mostrava di conoscere già la risposta?
“Io… sono dolore.” (*) disse, a voce sommessa.
Il centauro sembrò soppesare la risposta, poi chinò la testa, portandosi al petto i pugni chiusi in un curioso gesto di saluto.
“Ti aspettavamo, Gwenhwyfar. La tua venuta era scritta nelle stelle.”
“Immagino che sia vero…” sospirò Ginny rassegnata. A volte desiderava davvero che le stelle la smettessero di comportarsi nei suoi confronti come un branco di pettegole curiose. “E tu che sai leggere nelle stelle, puoi dirmi almeno il tuo nome?”
Il centauro sorrise, chinando di nuovo il capo.
“Sono Anfortas (**). Il mio branco ti da il benvenuto nel bosco sacro.”
“Ti ringrazio, Anfortas” concesse Ginny, riportando lo sguardo sul cucciolo di unicorno. Il pelo era serico e caldo, il musetto tremante si nascondeva, fiducioso, tra le sue dita.
“Hai la sua vita nelle tue mani, Gwenhwyfar. Questo non era previsto.”
“Che significa?”
“Un cucciolo di unicorno si lascia morire a sua volta, se la madre muore prima di averlo svezzato. Nessuno del mio branco è riuscito ad avvicinare Myosotis, nemmeno le femmine. Ma si è fidato di te.”
“Myosotis?”
Non ti scordar di me.
“L’abbiamo chiamato così, a causa del colore del suo mantello (***).”
Un nome che era quasi una preghiera.
Ginny annuì, accarezzando la groppa tremante del piccolo. Era stupefacente quanto quelle creature, simili a normali cavalli dotati di corno se guardate da lontano, fossero in realtà palesemente superiori in eleganza, finezza nell’aspetto ed intelligenza nello sguardo.
“Perché hai detto che questo non era previsto, Anfortas? Pensi che Myosotis fosse destinato alla morte, come sua madre?”
Anfortas sollevò il mento in un gesto rabbioso.
“Lyonnesse è stata uccisa dai bracconieri babbani, che la credevano un superbo cavallo selvatico. La sua morte è stata una tragedia per tutti noi… un unicorno che muore di morte violenta è un presagio di sventura e sofferenza. L’uccisione di una madre che allatta è un abominio indicibile, in quanto causa la morte anche del piccolo,” gli occhi del vecchio centauro mandavano scintille fredde di rabbia mentre parlava, scandendo le parole. “Il mio branco considera quest’eresia come un simbolo della malvagità che si sta diffondendo del mondo. Eppure… eppure ora riesco a vedere, ciò che non avevamo considerato. Il tuo arrivo, annunciato dalla stella che ha la forma del Drago che ti accompagna, darà un senso anche a quest’opera malvagia e violenta. Il sacrificio di Lyonnesse e di Myosotis non sarà vano.”
“Hai detto che la vita di Myosotis è nelle mie mani. Come puoi pensare che lo lascerò morire?”
Anfortas scosse la testa.
“Possiedi il potere di salvare molte vite Gwenhwyfar, e la compassione che ti guiderà nel farlo. Ma il destino di alcune creature è al di fuori della tua portata.”
“Se tu potessi anche soltanto immaginare quanto io sia stanca di sentirmi dire ciò che è scritto o non è scritto nel mio futuro… ho obbedito a tutte le dannate premonizioni e visioni che mi riguardavano, ho lasciato la mia terra, ho perso colui che sarebbe l’amore della mia vita… forse. Se potessi ancora guardarlo in viso” la voce si ruppe in un singhiozzo, “ma non lascerò morire una creatura che posso salvare soltanto perché qualcuno continua a leggere tra le stelle la parola morte. È scritta in una lingua che io non posso capire!”
Anfortas tese una mano rugosa verso di lei; lo sguardo era gentile, sebbene non riuscisse a perdere completamente la scintilla di orgoglio e superiorità che tutti i centauri provano nei confronti degli esseri umani.
“Non provare rabbia nei miei confronti, piccola amica umana. Non mi aspettavo certo meno dolcezza e compassione da una donna il cui destino è ripetuto da secoli nel grande circolo che disegnano gli astri del cielo. Ma io devo seguire la mia conoscenza” spiegò con voce paziente. “Vieni, con il tuo nuovo piccolo amico. Nessuno vi farà del male. Il mio branco ha cibo e acqua… anche per il nostro fratello che non ha il dono della consapevolezza” terminò indicando il cavallo.

“You have been the chosen one,
so welcome to this place.”
“Sign of the Cross” from “Avantasia, The Metal Opera – part I” (2001)

La radura si apriva per un piccolo spazio pianeggiante, circondata da alberi secolari e attraversata ai margini da un ruscello di acqua cristallina. Con tronchi morti e fasci di rami secchi, i centauri avevano costruito un riparo, ai margini del prato, dove stivare scorte di cibo e bevande. Uno spicchio di cielo nero si apriva al di sopra delle chiome degli alberi, mostrando alcune delle stelle che i centauri amavano così tanto osservare. Ma quella notte ogni astro impallidiva di fianco alla cometa che era arrivata al culmine del suo splendore: una fiammeggiante chioma argentea circondava il nucleo luminoso curvandosi poi in una virgola finale, mentre due sbuffi di vapore azzurrognolo ed iridescente di allargavano ai lati come le ali di un drago in volo.
Un giovane centauro le porse un grezzo bicchiere scavato nel legno, e Ginny ringraziò con un sorriso, senza tuttavia riuscire a distogliere gli occhi dalla cometa. La bevanda era calda e dolce, ed aveva il profumo pungente della resina bruciata.
“La cometa del Pendragon” sussurrò Anfortas al suo fianco, seguendo la direzione del suo sguardo. “è meravigliosa stanotte” commentò Ginny, rapita.
“Si, le stelle viaggiatrici sono sempre uno spettacolo sorprendente. Secondo le leggende di noi centauri più sono luminose, più hanno da raccontare.”
“E questa ti racconta qualcosa?”
Anfortas sospirò.
“Questa cometa,” esordì, quasi con orgoglio, “ha da raccontare più di tutte le pietre che calpestiamo, più dei granelli di sabbia che hanno conosciuto centinaia di maree… è la cometa che ha visto il Pendragon, che da lei ha preso il nome, combattere e vincere i demoni sassoni. Sotto la sua luce un mago potente ha rubato a quest’isola di smeraldo le pietre che sono le fondamenta del vostro mondo e della vostra cultura. Le pietre del Tempio del Sole.(****)”
Un’enorme ombra alata passò appena sopra le cime degli alberi, oscurando la luce delle stelle per qualche istante; i centauri chinarono la testa, i pugni chiusi al petto, in quel curioso gesto di saluto che Anfortas aveva usato poco prima per Ginny.
“Mi stai raccontando di avvenimenti così antichi da essere ormai quasi leggenda…”
“Stanotte questa stella racconta di te, Gwenhwyfar. Forse anche tu, un giorno sarai soltanto una leggenda: in fondo è nella natura degli umani inventare favole… chissà, forse ne scriveranno una su di te. Nel tuo destino c’è qualcosa di grande.”
“Perché ho l’impressione che non sarà una grande felicità?”
“Perché non sei in grado di guardare le cose da lontano. Per vedere ciò che le stelle raccontano… dovresti essere lassù. Con il Drago che viaggia con te.”
“Il mio cuore è con lui.”
“Allora seguilo. È quella la tua strada” concluse Anfortas, abbassando lo sguardo dalla grande cometa alata all’unicorno nascosto tra le gonne di Ginny. “E adesso devi metterti in viaggio: è tempo per te di ritornare alla tua terra. Il tuo nuovo piccolo amico ti seguirà, e la strada sarà lunga, non potendo volare.”

“Nel primo sole usciva dalla nebbia una terra verde di prati e bianca di scogliere, azzurra di cielo e di mare, cinta da spume ribollenti, accarezzata dal vento, salutata dalle grida di milioni di uccelli. La Britannia!”
Valerio Massimo Manfredi
“L’ultima legione”

Trecentonovantacinque giorni. Ne mancava soltanto uno allo scadere della profezia di Calì.
Io, che non avevo mai creduto nella divinazione, avevo spuntato quei giorni su un quaderno, contando il numero esatto di minuti che mi separavano da Ginny. Avevo passato quasi un anno consultando mappe, leggendo libri, facendo calcoli, nel tentativo di risolvere l’enigma della profezia che riguardava la mia amica.
E alla fine avevo capito. Mi ci era voluto più tempo di quanto non avessi mai creduto necessario per risolvere un semplice indovinello . Un duro colpo per la mia autostima… e la soluzione era lì, a portata di mano, un’intera sezione della biblioteca di Hogwarts, con il suo cartellino strappato e scolorito che recitava “Astronomia”.
Un’eclisse.
Esattamente trecentonovantasei giorni dalla notte in cui Ginny e Draco erano partiti, la luna si sarebbe frapposta tra la terra e il sole, oscurandolo completamente. L’eclisse, lassù in Scozia, sarebbe stata totale.
Un’anomalia nel ciclo naturale delle cose: la luce avrebbe ceduto il suo legittimo dominio sulla terra all’oscurità.
Una notte senza il giorno.
Un’eclissi, durante la quale i due sfortunati amanti avrebbero potuto, forse, trovarsi entrambi in forma umana.
Merlino, come diavolo avevo fatto ad essere così
lenta?!?

Avevo trovato il barlume della speranza tra la polvere della biblioteca, un luogo che raramente mi aveva tradito, in tutta la mia giovane vita. Ma tra gli archivi storici che testimoniavano il costante muoversi degli astri nel cielo, avevo scoperto anche un’inquietante, amara verità: durante le eclissi gli incantesimi si comportavano in modo strano. Sempre. Tutto era ben documentato, e c’erano stati maghi che avevano studiato il fenomeno, raccogliendo testimonianze e racconti, per tutta la loro vita. Con le mani tra i capelli e lo sguardo fisso sulle pergamene fitte di appunti, quella notte mi ero resa conto che, con ogni probabilità, nessun circolo di copertura, nessun incanto fidelius, nessun incantesimo trappola, nessuna protezione magica avrebbe continuato a funzionare durante quell’evento eccezionale . Eravamo abbandonati a noi stessi.
Se anche il nostro nemico possedeva quella conoscenza (e a quel punto ero quasi certa che un particolare del genere non fosse sfuggito a Lord Voldemort) avremmo dovuto aspettarci un attacco proprio nelle ore in cui il sole si sarebbe oscurato.
Ero sola nella biblioteca, quella notte d’estate; la luce irreale della cometa a forma di Drago, penetrava dai vetri macchiati delle finestre. Era la terza estate senza Ronald, l’estate seguente a quella in cui Ginny aveva conosciuto e amato Draco Malfoy. Theseus mi aveva detto che una cometa così splendente non poteva essere portatrice di tragedia… ma io sapevo che ogni medaglia ha due facce ben diverse tra loro, e che anche la vittoria ha il suo lato in ombra: quale sarebbe stato il prezzo, nel caso fossimo finalmente riusciti a vincere la battaglia che si preparava?

Ma quell’estate volgeva al termine e già i colori dell’autunno indoravano le cime degli alberi della foresta proibita. Era la trecentonovantacinquesima mattina quando, uscendo nella nebbia perlacea delle prime ore del giorno, mi trovai davanti un cavaliere, dal mantello nero come la notte, nero come il cavallo che montava. Bionde ciocche di capelli scendevano a dare la sola luce a quella figura che sembrava interamente fatta d’ombra.
“Malfoy…” sussurrai, senza accorgermi di avere gli occhi pieni di lacrime.
Malfoy sollevò un braccio, e sul momento pensai che fosse un gesto di saluto, ma all’improvviso una splendida fenice planò dal cielo e si posò sul suo polso. I raggi del sole nascente si riflettevano sulle piume dell’uccello, accendendole di mille bagliori rossi. Davanti a quello spettacolo di struggente bellezza non potei fare a meno di impedire alla speranza di insinuarsi nel mio cuore. Istintivamente cercai lo sguardo di Draco, ma nei suoi occhi grigi c’era soltanto una rassegnata tristezza, il dolore accumulato in quasi quattrocento giorni tristemente identici a quello… l’ennesima alba di un giorno senza Ginny.

“Waiting for tomorrow just to see your smile again
Take away my sorrow from a blistered heart of mine”
“Anywhere” from “Avantasia, The Metal Opera – part II” (2002)

********

(*) Dal film LadyHawke. È la risposta di Isabeau, quando Philippe le chiede chi è.
(**) E qui torniamo ai miti arturiani: Anfortas è il nome del Re Pescatore, uno dei custodi del Santo Graal, nel “Parzival” di Wolfram von Eschenbach.
(***) Dalle mie reminescenze di botanica, Myosotis dovrebbe essere il nome latino del Non-ti-scordar-di-me, il famoso fiorellino azzurro. Sapevate che anche in inglese è chiamato Forget-me-not? È da li che ho preso il titolo del capitolo. Lyonnesse, il nome che ho usato per la madre, è una delle “terre perdute” in un cataclisma marino, come Atlantide e molte altre isole leggendarie.
(****) La faccenda della cometa a forma di drago, da cui Uther Pendragon avrebbe preso ispirazione per il proprio soprannome e per lo stendardo che gli apparteneva, è una leggenda abbastanza rinomata. La frase seguente riguarda invece una leggenda meno famosa, secondo la quale le pietre di Stonhenge sarebbero state portate in Britannia dall’Irlanda, da Merlino stesso… ovviamente Stonhenge è molto più antico di Merlino, ma l’idea mi è sembrata romantica. Dire che Stonhenge costituisca il fondamento della cultura celtica forse è un po’ pretenzioso da parte mia, ma i cerchi monolitici di certo ne hanno fatto parte ed è un richiamo alla profezia di Calì e a qualcosa che succederà in seguito. Quindi perdonate le mie licenze poetiche.

Grazie davvero a tutte! A Thaiassa, Seiryu, Aurora, GIU, Saty (il litigio tra Draco ed Harry non ci sarà, anche nel capitolo scorso Draco fa chiaramente capire che gliene frega niente di litigare con Harry… e poi sinceramente, ma vuoi davvero sentire Potter che strilla?!? Comunque grazie darling, sempre cariissima!), Curiosity (mi sa che dovrai contendere il titolo a chi lo detiene da tempo! Comunque grazie!), Euridice (vedi commento inizio capitolo. E comunque non ho il più il fisico per scrivere scene come quella del tappeto….), Nefele, Minako83 (Ginny-fenice ha un suo perché nella trama, non è soltanto una questione di colori e simbologia Gryffindor… ma dovrai aspettare la prossima puntata).

   
 
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