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Autore: elizabethraccah    28/12/2012    2 recensioni
Sin è un pianeta perfetto, solitamente pacifico, in cui umani ed elfi convivono. Ci sono anche animali che riescono a comunicare con gli uomini e con gli elfi ma, soprattutto, a distinguere Sin dagli altri pianeti è la presenza di energia allo stato puro nell'aria.
Ultimamente però sta succedendo qualcosa di strano: soprattutto umani, ma anche elfi, spariscono in continuazione. Ryn è una dei pochi a sospettare dei Capi, un elfo ed un umano che amministrano il popolo di Sin. Le persone come Ryn sono chiamate Dunars: Ribelli. Ma cosa devono fare i Dunars? E dove vanno a finire le persone che spariscono? Ryn vuole scoprirlo e vuole anche fare qualcosa per bloccare le sparizioni, soprattutto ora che anche sua sorella Gryael è scomparsa. Ma dopotutto anche lei potrebbe venire risucchiata dallo spietato gioco dei Capi...
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Chi è?» chiesi quando sentii bussare alla porta. Senza aspettare una risposta, dissi: «È aperto», perché tanto sapevo già chi era.
Cadnek entrò piano, quasi cauto, guardando a terra. Il suo sguardo sfiorò il mio per un istante, poi tornò a fissare l’erba soffice davanti ai suoi piedi. «Ciao» sussurrò con la sua voce melodiosa.
«Ciao.» Risposi al saluto in tono quasi severo. Non sopportavo i suoi modi di fare: la lentezza, la prudenza con cui faceva ogni cosa. Ma dopotutto gli elfi sono così.
I suoi occhi arancioni finalmente trovarono il coraggio di guardarmi. Dopo un momento parlò. «C’è stata un’altra sparizione.»
Sbuffai irritata. L’ennesima sparizione.
Ultimamente a Sin c’era molto movimento. Umani ed elfi (a dir la verità più umani che elfi, e questo stava facendo scaturire non poche discussioni tra i Capi) sparivano ogni giorno, a volte da soli, a volte in gruppi. Per andare a finire chissà dove, poi. La cosa andava avanti da almeno un paio di settimane, ed i Capi degli umani e degli elfi erano molto preoccupati, soprattutto perché questi ultimi non riuscivano a capire la causa delle sparizioni (e solitamente gli elfi sanno ogni cosa). Sin, inoltre, era un pianeta molto piccolo rispetto agli altri, perciò era relativamente facile sapere tutto ciò che accadeva lì. Questo rendeva ancora più grave il fatto che nessuno ci riuscisse.
«Chi?» chiesi. A chi era toccato sparire, questa volta?
Cadnek sospirò e tornò a fissare per terra. Questo mi irritò non poco. «È questo il problema...»
«Vuoi dirmelo o no?» sbottai. Ecco una delle differenze base tra gli umani e gli elfi: i primi sono curiosi, impazienti, impulsivi; i secondi sono molto più rilassati, e si prendono sempre parecchio tempo per riflettere sulle cose.
Cadnek trasalì, poi si decise. Dopotutto lo sapeva che gli umani ― e quindi anche io ― odiano le attese. «Gryael» disse.
Spalancai gli occhi, presi il mio pugnale personale ― ognuno aveva il diritto di girare con un’arma nel caso di doversi proteggere dagli invasori che ogni giorno tentavano inutilmente di entrare nel nostro territorio ―, aprii con un pugno la porta della mia capanna e cominciai a correre senza una meta precisa. Prima di uscire, però, afferrai saldamente Cadnek per un polso e lo trascinai fuori con me.
«Dove?» chiesi mentre il magnifico paesaggio di Sin ci avvolgeva mano a mano che uscivamo dal villaggio.
Nessuna risposta.
«Dove?»
Cadnek teneva la bocca ostinatamente chiusa. Mi fermai di botto e lo presi per le spalle.
«Dimmelo. Adesso» ordinai. Probabilmente i miei occhi lanciavano fiamme, perché stavolta mi rispose.
«Alla Quercia» disse, spaventato dal mio comportamento.
Allentai la presa sulle sua spalle, poi le braccia mi ricaddero lungo i fianchi. «Cos’hai detto?» provai a sussurrare, ma mi uscì solo un suono indistinto. La Quercia era un luogo sacro, perché dava vita a tutta la vegetazione del pianeta. Era circondata da mura protettive, le uniche costruzioni che si potessero trovare in tutto Sin. Né elfi né tantomeno umani potevano andarci, se non una volta ogni cento anni, per offrirle energia, in un giorno che era stato prestabilito millenni prima. Ma cosa ci faceva Gryael, mia sorella, lì? Non avrebbe mai osato andarci. Mai. La conoscevo troppo bene per dubitarne.
Lo trascinai dietro un gruppetto di kyrne, degli alberi dal tronco alto e sottile, con le foglie di un blu intenso ― se fossimo rimasti sul sentiero qualcuno avrebbe potuto intromettersi o sentire di cosa stavamo parlando.
«Chi te l’ha detto?» gli chiesi sottovoce.
Cadnek sembrava molto a disagio. Ad un tratto mi accorsi che gli elfi non erano abituati ad avere a che fare con comportamenti così violenti, così gli lasciai il polso che gli stavo stringendo.
«Scusa» mormorai imbarazzata. «È solo che...»
«Va tutto bene» mi rassicurò. «So cosa stai provando.» Certo che lo sapeva, e anche meglio di me. A lui era sparita tutta la sua famiglia ― i genitori e suo fratello più piccolo ―, una settimana prima. Provò a sorridere, ma riuscì a fare solo una strana smorfia. «Senti, la verità è che...»
Si bloccò, e dovetti invitarlo a continuare, perché altrimenti non sarebbe andato avanti, lo sapevo. Lo conoscevo meglio di chiunque altro: era il mio migliore amico, dopotutto. «Sì?»
«La verità è che io ero con lei.» Aveva un’espressione affranta.
«Tu eri con... Cosa?» balbettai confusa. Non riuscivo a capire. A quanto ne sapevo, Gryael e Cadnek si conoscevano appena. Perché avrebbero dovuto essere insieme?
«Sì, be’, avevo notato che era un po’ strana e che teneva un oggetto in mano ― un oggetto che non avevo mai visto. Sembrava d’oro.»
«Impossibile» obiettai subito, la voce poco più di un sussurro. L’oro non esisteva a Sin. Nemmeno il colore dell’oro. Quella era roba per le menti corrotte degli umani terrestri, come il denaro, i diamanti, l’argento, e tutto il resto. Qui non volevamo problemi come quelli che avevano sulla Terra.
Lui sospirò. «È proprio quello che ho pensato io.»
Rimanemmo in silenzio per un po’, ognuno perso nei suoi ragionamenti.
«Dovremmo dirlo ai Capi» disse infine Cad.
«No» ribattei meccanicamente. «Pensaci. Cosa riuscirebbero a fare? Hanno già ordinato al popolo di non intromettersi, perché secondo loro quello che sta succedendo è una cosa pericolosa. Ma tu gli credi veramente?»
«Cosa? Certo che gli credo! Sono i Capi, dopotutto.» Restò in silenzio per un istante, poi mi guardò incredulo, intuendo i miei pensieri. «Credi che loro ci nascondano qualcosa?» Il suo tono di voce era ancora fortemente stupito, e dubbioso, come se volesse convincermi che le cose non stavano come credevo.
Ma io non mi lasciai persuadere. «Lo so che ti sembra una follia, ma... ci ho pensato. E dovresti pensarci anche tu.»
Mi guardò negli occhi per qualche istante, poi sospirò. È una sua caratteristica: sospira quando non riesce a capire qualcosa. «Torna a casa, Ryn.» Poi alzò la mano a aprì il palmo.
Sulla Terra le persone si salutano stringendosi la mano o semplicemente dicendo «ciao», a Sin l’equivalente è alzare la mano sinistra, aprire il palmo di essa e toccare quello della persona che si vuole salutare. A volte, se si è particolarmente amici, ci si può anche stringere la mano (sempre con la mano sinistra alzata), o, se i due sono legati da qualcosa di più di un’amicizia ― e non sto parlando di legami di sangue ―, si intrecciano le dita.
Anche io alzai la mano sinistra e strinsi quella di Cad, poi gli dissi: «Pensaci» e me ne andai. Ma non a casa.
Avevo bisogno di sfogarmi, di fare qualcosa. Non potevo semplicemente starmene nella mia capanna a riflettere. Quella è roba da elfi. Volevo andare in un posto dove nessuno avrebbe potuto disturbarmi: l’arena.
Ogni anno un gruppo di Esploratori, formato dagli elfi più intelligenti e dagli umani più coraggiosi, partivano per le regioni selvagge del nostro pianeta, chiedendo a strani esseri che venivano chiamati animali di seguirli per aiutarli nella guerra tra Sin e Derk, un pianeta abitato da bizzarri individui dagli arti sproporzionati, che noi chiamavamo derkani, o Portatori di Guerra. Ovviamente, se gli animali non volevano seguire gli Esploratori non importava, venivano lasciati in pace, ma nel caso accettassero, venivano portati nelle arene, presenti in ogni villaggio di Sin, ed allenati alla guerra per loro volontà.
Ma gli animali non erano gli unici ad allenarsi nelle arene: vi andavano anche umani ed elfi, anche se il numero degli umani era nettamente superiore a quello degli elfi (soprattutto perché gli elfi preferiscono i libri all’azione). Talvolta gli umani si esercitavano insieme agli animali, e facevano amicizia con loro.
Non ero mai andata all’arena del nostro villaggio, anche se sapevo dov’era. Di solito le donne non vi si recavano, ma non era proibito. E io avevo decisamente bisogno di scaricarmi.
D’un tratto ero là davanti. Vedevo solo il perimetro degli alberi violetti che la circondavano, ma bastava per capire che era un posto enorme.
Feci un respiro profondo, poi mi inoltrai nel boschetto. Dopo aver camminato per cinque minuti buoni, mi trovai di fronte ad un’enorme distesa di sabbia di un colore chiaro che non avevo mai visto in vita mia. A terra, dall’altra parte dell’arena, c’erano armi di ogni tipo: archi, frecce, spade, scimitarre, sciabole, pugnali, coltelli da lancio e kirnike, armi di fattura elfica un più grandi dei pugnali e più piccole delle spade, con l’elsa che racchiudeva la parte iniziale della lama.
Accanto a me, c’erano diversi bersagli ed alcune sagome modellate con la terra e tenute insieme con energia allo stato puro che replicavano le fattezze dei derkani, ma anche di elfi ed umani. A cosa servivano quelle che riproducevano le forme degli elfi e degli umani? Non eravamo in guerra tra di noi, no? Lasciai perdere quel pensiero quasi all’istante, perché non avevo voglia di pensare. Ero lì proprio per dimenticarmi le preoccupazioni.
Dato che non c’era nessuno a cui potessi chiedere, perché ero da sola nell’arena, mi diressi verso le armi, senza esitazione presi un kirnike e ne saggiai la presa. Andava piuttosto bene, ma decisi che la volta dopo avrei portato il mio. Ogni elfo, a Sin, aveva almeno un kirnike personale, e anche quasi tutti gli umani avevano il proprio, forgiato da un elfo di loro conoscenza.
Decisi che mi sarei allenata senza attaccare le sagome dei derkani, senza un motivo preciso. Forse semplicemente non mi andava a genio l’idea di attaccare qualcuno, che fosse fatto di terra o di carne ed ossa. Eppure non era la prima volta che combattevo.
Non so quanto restai lì, perché avevo totalmente perso la cognizione del tempo, ma capii che c’ero rimasta abbastanza quando mi ritrovai stanca (questo capita molto raramente) e sudata. Stavo per posare il kirnike ed andarmene, quando sentii un tonfo alle mie spalle e mi girai di scatto, la lama dell’arma puntata verso il punto in cui avevo sentito il rumore.
All’inizio non vidi niente, ma poi mi accorsi che davanti a me, nella sabbia, c’era uno strano oggetto cilindrico, tempestato di gemme e... dorato. Mi chinai e feci per prenderlo, quando una voce mi sorprese.
«Fossi in te non lo toccherei.»
Mi tirai su di scatto, subito sull’attenti. Ci misi un po’, ma alla fine riuscii a mettere a fuoco una bizzarra creatura con quattro zampe, il corpo allungato e scattante, coperto da striature nere appena visibili sulla pelle blu, la coda azzurra ed irsuta, il muso triangolare, le orecchie ritte e allungate, denti viola lunghi e affilati e gli occhi di un colore scintillante ― doveva essere quello dell’argento, che si trova solo nei libri. Non ne avevo mai visto uno dal vivo, ma quello doveva essere un animale.
Rimasi perfettamente immobile. Non avevo idea di cosa fare.
«Ehi, rilassati, non ti mangio mica.»
Rilassai le spalle, ma restai sull’attenti. «Chi sei?» mi uscì.
«Il mio nome è Kor» disse con la sua voce che altro non era se non un basso borbottio animale. «Ma che t’importa, dopotutto?»
Arrossi violentemente. «Oh, ehm...» Ma che razza di domanda era? Rimasi in silenzio, in imbarazzo, ma senza abbassare lo sguardo da quello di Kor.
«Cosa ci fai qui, umana?» chiese, e mi sforzai di cercare un che di minaccioso nella sua voce, ma non ci riuscii.
«Mi alleno.»
«Per cosa?» I suoi occhi d’argento parvero lampeggiare, ma non di rabbia o di qualsiasi altro sentimento negativo: di curiosità.
«Per la guerra contro i derkani» risposi incerta.
L’animale fece una strana smorfia, e dedussi che fosse un sorriso. «Sai cos’è quello?» disse, abbassando lo sguardo sull’oggetto cilindrico. Me ne ero completamente dimenticata.
Scossi la testa piano. «No.»
«E allora perché lo stavi per toccare?»
«Be’» risposi, «mi chiedevo cosa fosse e...»
Kor cominciò a muoversi verso di me, e io trattenni il respiro, attanagliata dalla paura. Più si avvicinava, più mi accorgevo di quanto fosse grosso e muscoloso. Provai ad impormi di restare calma, ma non ci riuscii.
All’improvviso il suo enorme testone era di fronte al mio viso, sentivo il suo respiro in faccia, e per continuare a sorreggere il suo sguardo ― perché no, non avrei mai mostrato di essere debole abbassandolo, con nessuno ― dovevo tenere la testa inclinata verso l’alto. Era davvero un animale gigantesco. Non mi mossi di un centimetro. Quando aprì la bocca, temetti che stesse per azzannarmi alla gola; invece, con mio grande sollievo, parlò. «Sei una strana umana.»
Mi sentii molto offesa da quelle parole. «Perché?» domandai risentita.
Kor si allontanò dandomi le spalle, poi girò il muso verso di me ed emise un basso mormorio che doveva essere il suo modo di ridere. «Non avevo intenzione di offenderti» si scusò. «A volte essere diversi è meglio.» Sospirò. «A volte anche pensare in modo diverso dagli altri è meglio. È un pregio.» All’inizio non capivo le sue parole, non capivo cosa intendeva. Poi mi balenò in mente il dialogo di quella mattina con Cadnek, e fui certa che Kor era stato lì ad ascoltarmi. O perlomeno sapeva ciò che ci eravamo detti.
«Tu sai...» cominciai, ma lui mi interruppe.
«Ssst. Non qui.» La sua coda scattò una sola volta, poi tornò alla consueta posizione. «Vieni, e non toccare quell’oggetto. Lascialo a terra.»
Forse non avevo intenzione di obbedirgli, o forse ero curiosa perché mi aveva fatto capire che sapeva molte più cose su di me di quante ne lasciasse intendere, ma comunque reagii meccanicamente. Mollai il kirnike e lo gettai tra le altre armi, ignorai l’oggetto dorato, anche se toccarlo era una grande tentazione, e seguii Kor tra gli alberi, fidandomi d’un tratto dell’animale.
Quando fummo fuori dal boschetto degli alberi che circondavano l’arena, Kor si fermò, e io lo imitai.
«Non sapevo che gli animali potessero restare nel villaggio» mormorai affiancandolo.
«Infatti non lo facciamo» rispose senza girarsi per guardarmi. «Ce ne andiamo nelle nostre terre per la notte e per mangiare. Quando vogliamo possiamo tornare.» Girò la testa e mi fissò dall’alto in basso con quei suoi occhi d’argento. «Devo parlarti. Lontano da tutti.»
«Perché proprio a me?»
«Non ha importanza. Ma devi capire che sei in pericolo. Tutto il tuo popolo è in pericolo, persino gli elfi.»
«C’entra qualcosa la guerra contro i derkani?»
«Sei sveglia» constatò.
Ci fu un breve silenzio.
«Andiamo.»
«Ehi, aspetta» esclamai, «come tornerò a casa?»
«Questo non è un problema. Ora però sali.»
«Cosa?! Dove?»
«Sul mio dorso, naturalmente.»
«Stai scherzando, spero.»
«Guarda che non è una bella prospettiva nemmeno per me.»
Non mi restava scelta. Con un salto acrobatico, mentre Kor si abbassava per permettermi di salire, mi issai sulla sua groppa. Trattenni il fiato: ero proprio in alto.
Poi l’animale si mise a correre, e questa è stata la parte migliore ― o peggiore, dipende dal punto di vista. Intorno a me tutto divenne un turbinio di colori ― il viola ed il blu degli alberi, l’arancione dell’erba, il rosa del cielo ― mentre mi sembrava di volare sulla groppa di Kor. Dovetti aggrapparmi al suo collo perché altrimenti sarei stata sbalzata via, ma questo non rese affatto le cose meno divertenti.
Era una sensazione meravigliosa: il vento che mi scompigliava i capelli, che mi entrava nei vestiti e direttamente nella pelle, dandomi l’impressione di essere veramente viva. L’unico problema era che tutte queste sensazioni positive, anche se stavano avendo la meglio sulle altre, facevano a pugni con quelle negative: mi sentivo davvero male fisicamente. Quando Kor si fermò di botto, per un secondo credetti di stare per vomitare, dato il groppo che sentivo alla bocca dello stomaco, ma per fortuna non successe.
Trattenni il respiro. Più delle sensazioni negative, a lasciarmi senza fiato era il paesaggio che ci circondava. Eravamo nel folto di una foresta dagli alberi dai tronchi spessi e verdi e dalle foglie di un blu cupo, simile a quello della pelle di Kor. Le foglie di alcuni alberi erano screziate di nero, e da certi rami pendevano strani oggetti verdi e sferici. Quando chiesi a Kor cosa fossero, lui mi disse che si chiamavano frutti e che si mangiavano. Rimasi molto colpita dalla sua spiegazione.
Scesi dal suo dorso e l’animale si accovacciò sull’erba arancione. Mi sedetti anche io, ma ero molto meno rilassata di Kor nel sapere che in quella foresta c’erano molte altre creature simili a lui, e forse ancora più terrificanti. Tenni il mio pugnale in mano.
«Cosa devi dirmi di così importante?» chiesi.
Kor andò dritto al punto. «Hai ragione a pensare che ci sia qualcosa che non va nei Capi del tuo popolo.» Sospirò, e avrei giurato che dalle narici gli uscisse uno sbuffo di fumo verde.
«A quanto pare sono l’unica.»
«No» mi contraddisse garbatamente Kor. «Ci sono altre persone come te. Le chiamiamo Dunars, nel nostro linguaggio.»
«E che cosa significa?»
Kor attese un momento prima di rispondere. «Significa “Ribelli”.»
Non sapevo perché, ma mi si gelò il sangue nelle vene. «E» chiesi con voce roca «che cosa devono fare i Dunars?»
Kor mi fissò con i suoi grandi occhi di argento liquido. «Devono capire cosa sta succedendo. Perché, l’avrai intuito, è colpa dei vostri Capi se a Sin sparisce sempre più gente.» Non avevo idea del perché, ma compresi che stava mentendo. Ne ero assolutamente certa.
«Sì» risposi. «Lo so.» Lo guardai con determinazione. «Cosa devo fare adesso?»

  
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