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Autore: Gli Occhi Di Louis    28/12/2012    3 recensioni
"Franci, ho bisogno d'aiuto."
"Spara!" rispose senza alzare la testa.
"Credo di essermi innamorato di una, anzi, ne sono sicuro, ma ormai è irrecuperabile."
"Niente è irrecuperabile" decretò, dando una leccata per sigillare la sigaretta. "Racconta!"
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Pazze di me
Capitolo 1


Se c’è una cosa che detesto sono i proverbi.
Quello che odio di più di tutti in particolare è: “C’è sempre una prima volta”.
Si, è vero, una prima volta c’è sempre, ma di solito non è un granché.
Sono molto più importanti le ultime volte.
In realtà, la vita è solo un’incredibile collezione di “ultime volte”.
L’ultima volta che ti cantano la ninna nanna, l’ultima volta che esci dal cancello della tua scuola, l’ultima volta che baci la persona che ami, l’ultima volta che ti addormenti senza il bisogno del Valium.
Ma non c’è mai nessuno ad avvertirti che quella che stai vivendo è l’ultima volta, anzi, di solito non te ne accorgi nemmeno,
Il fatto è che quando sei piccolo credi che tutto ti sia dovuto e che tutto rimanga esattamente come quando hai tre anni: i parenti che ti fanno le foto, mangi e caghi, ed è tutto un sorridere, battere le mani e fare facce stupide.
Poi, però, arriva un giorno in cui puoi essere morto soffocato nel tuo vomito e a nessuno importa più un fico secco, così ti trovi da solo a gridare: “Hei! C’è nessuno?” e allora capisci che, o ti fai andare bene tutto quello che arriva dopo, o puoi spararti un colpo in testa.
Cinico?
No, realista.
Ma forse è il caso che io cominci dall’inizio.
Era il 24 dicembre del 1990 e avevo cinque anni.
Si, la maggior parte di voi penserà che i miei ricordi siano deformati dai racconti degli altri e dalle foto, ma giuro che ce l’ho in mente come fosse oggi.
La verità è che aspettavo quello stronzo di Babbo Natale, o meglio, all’epoca non lo consideravo uno stronzo, ma solo un vecchio con un lavoro assurdo e sottopagato che, in una notte, riusciva a distribuire regali a due miliardi e mezzo di bambini.
Non è assurdo?
Due miliardi e mezzo di bambini calandosi da un camino.
Come se tutti avessero un camino!
Io non ce l’ho mai avuto e non ho mai conosciuto nessuno che ce l’avesse. Non a Roma almeno.
Dunque, me ne stavo li rannicchiato nel mio lettino, con gli occhi sbarrati nel buio aspettano Babbo Natale che veniva a portarmi i regali, quand’ecco che un rumore mi colse di sorpresa.
Un familiare rumore di passi.
Scesi dal mio lettino e, silenziosamente, raggiunsi il corridoio dove vidi un’enorme ombra scura, china davanti alla porta, con due grandi sacchi in mano.
Mi venne un colpo, giuro.
Babbo Natale era lì, a due metri da me, a cercare la scatola dell’Allegro Chirurgo in uno dei suoi sacchi e, sicuramente, là fuori, c’era la  slitta con le renne che lo aspettavano. I piedi mi si stavano congelando sulle mattonelle fredde e stringevo le gambe per trattenere la pipì, ma non mi sarei mosso per nulla al mondo, consapevole che quello fosse il momento più importante della mia vita.
Poi Babbo Natale si voltò a guardarmi e diede un colpo di tosse, poi due,poi tre. Mi guardò come se mi conoscesse, posò i sacchi e si avvicinò a me. La luce della luna che filtrava dalla finestra lo colpì dritto in faccia e fu li che lo riconobbi.
Non era Babbo Natale, era solo babbo. Il mio.
Ma, allora, che storia era? Era lui che mi portava i regali? Mi avevano ingannato o cosa? 
Mio padre si inginocchiò di fronte a me e mi accarezzò il viso, guardandomi intensamente negli occhi. 
-Piccolo mio…- disse, mettendomi una mano sulla spalla – da adesso…sono cazzi tuoi!-
Eccole. Queste furono le ultime parole che mi disse mio padre.
E da quel giorno mi sono stramaledetto per non aver avuto la prontezza di spirito di dirgli: Ehi pa’, dove cazzo te ne vai a quest’ora con ‘sto freddo?” o qualunque altra cosa lacrimevole del tipo: “Ti prego non mi lasciare” aggrappato alla sua gamba.
Ma forse è pretendere troppo da un bambino di cinque anni ed è una delle cose che Roberta, la mia ex (la psicologa), mi ripeteva di continuo: “Andrea, non devi  sentirti responsabile per quello che ha fatto tuo padre”.
“Cristo santo hai ragione, non ci avevo mai pensato! Dove l’ha letto, in un biscotto della fortuna?”
Roberta mi lasciò.
Ma non per quella frase.
Mi lasciò dopo che mia sorella Francesca portò il suo adorato dalmata a fare pipì e tornò con un cocker.
Dopo che Stanka, la badante di mia nonna, le fece “inavvertitamente” scivolare il computer con la tesi di laurea – non salvata – nella vasca da bagno.
E  dopo che mia madre le chiese, davanti a tutti, se le avessero rifatto il naso.
Ovviamente gliel’avevano rifatto  e  neanche tanto bene, e lei lo sapeva perfettamente.
Ho ancora nelle orecchie il rumore della porta che sbatte.
E quello fu solo il primo di una lunga serie di addii, ma non soltanto per colpa mia, del mip cinismo o della mia acredine, se vogliamo usare un eufemismo; tutte le mie ragazze mi lasciavano quando conoscevano loro.
Mia madre, mia nonna, e le mie tre sorelle.
Ho una teoria a proposito dei figli dei separati: ce n’è sempre uno che rimane ostaggio del genitore abbandonato e si sacrifica in favore del rilascio dei fratelli.
E resta lì a cazzeggiare per casa per sempre, fingendo di non trovare lavoro, così che il genitore possa continuare a mantenere il suo ruolo e sentirsi utile.
E, nel nostro caso, il figlio ostaggio ero io.
Ed  essendo l’unico maschio e, per giunta, il più piccolo, non si erano presi nemmeno la briga di tirare a sorte.
Il legnetto corto era toccato a me, di default.
E questo significava essere in reperibilità ventiquattr’ore su ventiquattro, neanche fossi stato un primario in un pronto soccorso. 
Ma un po’ sapevo si meritarlo, perché comunque, cara Roberta, mi sentivo responsabile per quello che aveva fatto mio padre e io non volevo abbandonarle.
Non potevo abbandonarle.
In fondo, ero l’uomo di casa.
 
Non era stato facile per mia madre ritrovarsi da sola con quattro figli piccoli e un mucchio di debiti da pagare da un giorno all’altro e, se non era impazzita, era solo perché non ne aveva avuto il tempo.
Lui se n’era andato senza lasciarle manco un biglietto e dopo aver preosciguato per bene il conto in banca cointestato.
E pensare che aveva promesso di portarci tutti al circo a Natale, per festeggiare la sua promozione a caporeparto.
Per questo ho sempre odiato i pagliacci. 
Ogni volta che ne vedo uno penso a mio padre. E non mi fa ridere. 
E anche mia madre dall’oggi al domani aveva smesso di ridere. 
Di ridere e di dormire.
Non si era mai perdonata di non essersi svegliata quella notte ed era sicura che, se se ne fosse accorta in tempo, sarebbe riuscita a convincerlo a rimanere.
Come se fosse possibile convincere un gatto  randagio a non scappare di casa.
E da lì in poi era diventata intransigente, dura e inflessibile, tanto che la chiamavamo affettuosamente “sergente Harman”.
Non ci aveva mai fatto mancare niente, né una vacanza, né un apparecchio per i denti o una torta di compleanno, però un po’ di tenerezza in più, quella in effetti c’era mancata.
Le mie tre sorelle, invece, avevano assorbito abbastanza bene il colpo.
Veronica, la più grande, era diventata una specie di Margaret Thatcher in miniatura.
Il messaggio che aveva recepito era semplice: gli uomini sono tutti delle merde, senza eccezioni, quindi facciamone a meno.
La sua idea di giocare con le bambole era di metterle  tutte sedute in fila, e camminare su e giù per la stanza, con un righello in mano e degli occhiali finti, dicendo cose che nessuno ha mai capito dove avesse sentito: “i maschi sono cattivi, stupidi e bugiardi. Vi promettono che vi porteranno allo zoo e vi compreranno il gelato, poi se ne dimenticano, si fanno preparare la pastasciutta come piace a loro, ma poi telefonano che no vengono a cena e, per farsi perdonare, vi regalano fiori. E un giorno li trovate che si baciano con Skipper e dovete  divorziare e loro si portano via pure il camper e il cavallo! Date retta a me! Non fatevi mai prendere in giro da un uomo e non fate mai le casalinghe: il cavallo dovete comprarvelo da sole!”
Col tempo era diventata una specie di guru per casalinghe disperate.
Scriveva libri, teneva convegni, e aveva una seguitissima trasmissione alla radio, intitolata “Uomini?... Ma anche no!”, in cui insegnava alle donne come farsi rispettare.
E aveva riscosso un successo assurdo, che non riuscivo a spiegarmi.
Ma perché donne intelligenti, autonome ed emancipate aveva bisogno di qualcuno che dicesse loro di mandare affanculo il tipo che le trattava male?
Ma non ci arrivano da sole?
Ed era solo una dei milioni di domande senza risposta che mi assillavano da sempre, come il successo di Lady Gaga, della Redbull e di Cristina Parodi.
Veronica mi tollerava appena e mi trattava come un lontano parente con cui bisogna conversare ogni tanto, per educazione.
A dire la verità trattava tutti così, eccetto le sue fedeli lettrici a cui dispensava consigli con lo stesso ardore esaltato di Evita Peròn.
Sospettavamo da sempre che fosse lesbica.
La mia seconda sorella, Beatrice, era invece la figlia ideale che ogni genitore avrebbe desiderato, per poterla sfoggiare con amici e parenti come un bel cne di razza, e l’incubo di ogni fratello.
Beatrice era sempre stata la prima della scuola, poi campionessa di tennis, di golf, di equitazione, e l’unica al mondo a essersi laureata con una tesi su se stessa.
La detestavo.
Si, lo so che è brutto dirlo, ma preferite che finga? Che vi dica che mi divertivo a farmi umiliare anche quando costruivo un cazzo di castello di sabbia? A sentirmi dire:” Ma non sei capace?”, “Sei impedito?”, “Scusatelo, ma mio fratello è mongoloide!”.
No, non era divertente, e per quanto possa capire che anche lei abbia reagito a modo suo alla fuga di quello là, non aveva  certo il diritto di prendersela con me.
Beatrice era la prima in tutto, io e lei non avevamo assolutamente niente in comune, anzi, mi domandavo se non fosse figlia di quel megalomane del sig. Tozzi, il lattaio, quello con le fiamme disegnate sulle fiancate dell’Ape Piaggio.
Ma no.
Bea non era figlia del sig. Tozzi, era  sputata suo padre, stessa aria sfacciata, stesso sguardo finto ingenuo, come a voler dire: “Chi, io?”, stessa facilità nel ferirti, e nella vita le era sempre andata bene.
E comunque… con una quinta naturale, chi può avere degli ostacoli?
E per ultima, ma non per importanza, c’era Francesca, la mia preferita.
France mi somigliava, era confusa, imbranata, sincera, ma a differenza di me era ribelle, testarda e senza il minimo freno inibitore.
Lei era l’unica che non aveva mia smesso di cercare nostro padre e, ogni tanto, mi chiamava nel cuore della notte per dirmi che era sicura di averlo visto.
Lei e mia madre litigavano da sempre e Francesca, quando poteva, se ne andava di casa s battendo platealmente la porta, per poi tornare appena  aveva finito i soldi dell’ultimo lavoro o quando si lasciava col fidanzato di turno.
Era un vero casino,ma io l’adoravo.
Avevamo diviso il letto a castello per anni, finché avevo coraggiosamente affrontato mia mamma pregandola di darmi una camera singola e lei, senza battere ciglio, aveva trasformato lo sgabuzzino in una cameretta.
Era grande quanto la cuccetta di un sottomarino, ma almeno ero solo.
L’ho detto, non sono mai stato un tipo esigente.
Ma il pezzo forte della mia collezione di donne era senza dubbio mia nonna Matilde che, all’epoca del disastro, insegnava fisica della materia condensata alla Normale di Pisa che, per fortuna, venne a vivere con noi impedendo a mia madre di impedendo a mia madre di impazzire completamente. 
Mia nonna era un genio.
Era Margherita Hack col corpo di Jane Fonda e il senso dell’umorismo di Monica Vitti, ed era la donna più intelligente del mondo che, infatti, non si era mai spostata. 
Mi aveva insegnato ad andare in bicicletta, mi aveva costruito il go-kart, mi portava a pescare e quando mi interrogavano in fisica facevo sempre un figurone. 
Alla fine era stata lei il mio vero padre e, di sicuro, il mio migliore amico, ma poi un giorno di qualche anno prima i carabinieri ce l’avevano riportata a casa dopo averla trovata a vagare nel parcheggio di un supermercato a trenta chilometri.
E le avevano diagnosticato l’Alzheimer.
Non mi sono mai piaciuti i tedeschi.
Questa era l’ennesima riprova che non sei immune alla sfiga anche se non rompi i coglioni, anzi, forse è proprio per questo che agli stronzi non succedeva mai niente. 
E adesso c’era e non c’era.
E quando non c’era ci pensava Stanka, la sua badante.
L’essere più vile e indolente che avessi mai conosciuto, di quanto sia difficile trovare qualcuno che si occupi di una donna di settantotto anni che da un momento all’altro ti scambia per il suo ginecologo?
Ecco perché non avevo una vita sociale, un lavoro stabile, una fidanzata fissa o degli amici.
Perché vivevo in un film di Almodòvar.
In una gabbia di matte fuori controllo che non mi sentivo di abbandonare.
E poi avevo degli obblighi nei loro confronti: ritirare le analisi di mia nonna, accompagnare Stanka alla chiesa ortodossa, prestare soldi a Francesca, annaffiare le piante a Veronica, far sentire Beatrice più intelligente  di me, ma, soprattutto, dovevo essere a portata di mano di mia madre.
Si, lo so, Roberta: a ventisette anni non si chiama abbandono, si chiama salvarsi la vita. 
 

Gli Occhi Di Louis
Ciao a tutti!
E' la prima storia che pubblico del genere romanitico e 
non ho la minima di idea di come sia.
Quindi se questo primo capitolo vi è piaciuto almeno un po',
vi invito a lasciare una piccolissima recensione,
solo per sapere il vostro pensiero.
Ora vi lascio in pace, al prossimo capitolo.
Un bacio. :) 
  
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