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Autore: Mary Lennox    28/12/2012    6 recensioni
Il dolore aumenta. Devo stendermi. Pian piano piego le gambe fino a toccare col sedere per terra. Una fitta lancinante mi fa rotolare di fianco. Urlo. Urlo a pieni polmoni. Mio marito non si preoccuperà di venire a soccorrermi.
La vista si annebbia, trattengo a stenti un conato di vomito. Sento che sto per morire.
Poi quelle mani.
Due mani fresche, delicate, che infondono sollievo. Le sento appoggiarsi sulla mia spalla sinistra, poi salgono sulla fronte, sulle guance, sul collo. Si fermano sul cuore.
Poi delle voci. Sì, voci concitate.
-Portatela dentro, svelti! Non abbiamo molto tempo!-
Qualcuno mi solleva dalla terra umida, qualcun altro mi prende fra le braccia.
Apro gli occhi per un istante, ma la mia vista è velata.
Stringo i denti nel momento in cui sento un’ altra fitta lancinante colpirmi il fianco dall’interno.
-Alice, devi farcela. Devi. Tu puoi.-
Quella voce.
Sto per dire qualcosa ma di colpo mi sento precipitare. Giù, sempre più giù.
Poi le tenebre mi avvolgono.
Genere: Angst, Avventura, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dolore. Non ne ho mai provato uno così grande in vita mia.

Il parto è doloroso, ma è ancor più doloroso partorire e saper di dover dire addio al proprio bambino.

Allungo le braccia mentre me lo portano via. Lo avvolgono in un panno sporco, liso. Vorrei andarlo a prendere, consolarlo, farlo sentire al sicuro ma so che non mi lascieranno alzare da questo dannato, sudicio letto.

Dalla finestra entra una strana luce rossa, tutto è surreale, alieno. Nella stanza c’è un via vai di gente. Qualcuno urla di portare asciugamani e acqua tiepida, qualcun’ altro sbraita che servono delle forbici.

Mi contorco sul letto, in preda ad un dolore atroce. È come se il mio ventre fosse squarciato da mille coltelli. Ho appena dato alla luce il mio primo figlio, ma il male non passa.

C’è sangue ovunque. Il mio sangue. Il sangue del mio bambino.

Allungo le braccia verso una domestica, la imploro. Lei non mi sente, si avvia frettolosamente verso la porta con una bacinella d’acqua sporca fra le braccia.
-Per favore…per favore!-
Tutti mi guardano  senza vedermi, eseguono come automi gli ordini del Padrone di casa, non si curano della giovane donna che li prega di avere un po’ di pietà.

Mi si annebbia la vista, i dolori si attenuano, sento che sto per svenire. Puntello i gomiti sul sudicio letto imbrattato di sangue nel disperato tentativo di rimanere lucida  e  mi sporgo fino a toccare il grembiule della levatrice.
-Signora, per pietà, il mio bambino, fatemelo vedere. Solo per un attimo, vi prego.-

La donna mi guarda per un attimo con stupore, poi la sua grande bocca da clown si contrae in una smorfia che dev’essere un sorriso. Si passa una mano grassoccia sui capelli brizzolati raccolti in una retina e poi dice qualcosa che non sento ad una giovane cameriera. Quella si dilegua e torna subito dopo con un fagottino color crema.
Lo porge alla levatrice con occhi vitrei e poi mi lancia un’ occhiata carica di commozione prima di andarsene. Deve avere la mia età o poco più di vent’anni, è da poco che lavora a palazzo. L’ho sempre vista silenziosa e diligente e forse lì dentro è l’unica capace di provare un po’ di compassione.

Tendo le mani verso la donna che tiene stretto a sé  il mio piccolo. Mi guarda con aria di sfida.

La picchierei, se solo avessi le forze per farlo.

Si avvicina con il bambino fra le nude braccia sozze. Mentre ghigna scorgo due file di denti marci.
-Puttanella, vuoi tuo figlio, eh? Lo vuoi?-
Stringo le labbra. Vorrei urlare, ma so che peggiorerei la situazione.
Non rispondo, stringo semplicemente i denti e la fisso.

Lei scuote la testa, posa lo sguardo su di lui.
-Povero piccolo, chissà cosa ne sarà di te. Forse diventerai figlio del fornaio. Forse del farmacista. Forse, chissà, potresti diventare figlio del dottore. O forse, perché no, diventerai cibo per cani.-

Salto giù dal letto, ma sento le gambe cedermi. Cado per terra, la faccia sul pavimento sporco. Prendo i piedi di quella stupida vecchia, che però mi pesta le dita con cattiveria.

Urlo di dolore, lei indietreggia di qualche passo, assestandomi poi un forte calcio sul ventre.
-Razza di sgualdrina, guarda cosa hai fatto. Il Signore ti punirà per le tue malefatte. Così impari a tradire tuo marito.-
Mugolo di dolore, sento dei passi nel corridoio, si spalanca la porta. Delle domestiche mi tirano su dal pavimento e mi gettano senza tanti complimenti sul letto.
Urlo, mi dibatto mentre giungono delle altre serve a tenermi ferma.
Vedo la levatrice sparire, per poi tornare senza mio figlio tra le braccia.     

Vorrei gridare, ma di colpo la voce mi si spezza in gola. Alcune cameriere bisbigliano che “Il Signore è arrivato.” La levatrice cerca di ricomporsi, si passa una mano sui capelli unti, liscia le pieghe della gonna lurida. Le cameriere puliscono il sangue per terra, mi portano una vestaglia e delle lenzuola pulite.

In quel momento un uomo imponente, fisico prestante, capelli corvini, varca la soglia.
Dopo aver lanciato una rapida occhiata verso di me fa un cenno alla levatrice, che quasi si inginocchia ai suoi piedi.
-È .. fatta?- Sembra quasi preoccupato. Ma non per me. Oh, no. Paura per se stesso, per cosa potrebbe comportare la nascita di un poppante lagnoso.
-Sì signore, il bambino è nato, non ci sono stati problemi.- dice tutto d’un fiato la stupida donna. -È maschio, signore.-  precisa sorridendo.
“Cosa ridi?” vorrei urlare. “Pensi davvero che ti tratterà con un occhio di riguardo solo perche gli hai dato il lieto annuncio?” Voglio alzarmi, scappare via, lontano.

La levatrice poi mi guarda. Nei suoi occhi leggo cattiveria, invidia, sadismo. Mi indica e aggiunge frettolosamente: -Deve essere impazzita. Ha cercato di uccidere il piccolo, se non ci fossi stata io a fermarla non so come sarebbe andata a finire.- Le altre cameriere, come tanti soldatini, annuiscono convinte.

Chiudo gli occhi, le forze mi vengono meno. Sento che l’uomo, quello che dovrebbe essere il mio consorte, si avvicina, si ferma sulla sponda del letto.
-Bisognerà pensare al da farsi.- dice con aria assorta. Mi passa una mano fra i capelli. Un brivido mi percorre la schiena.
-Per il manicomio bisognerà parlarne con la madre, non penso accetterà la cosa così su due piedi. Oppure potremmo dire che la povera Alice Kingsley sia spirata per uno “sfortuito” caso durante il parto.-
A quelle parole apro gli occhi. Incontro i suoi. Freddi. Glaciali.

So che non posso più stare qui, mi uccideranno, anche subito, a sangue freddo. “Se vuole lo farà.”

Balzo giù dal letto e mi lancio verso l’uscita sotto lo sguardo allucinato di mio marito e dei presenti.
-Prendetela, non lasciatela scappare!-

Qualcuno tenta di afferrarmi, ma svelta chiudo la porta alle mie spalle e ostruisco l’uscita con una panca di legno.
Mi getto lungo il corridoio. La mia vestaglia è sporca di sangue ed il dolore è ricominciato, pulsante, potente più di prima. So solo che devo uscire dalla tenuta se no farò una brutta fine.

Sento alle mie spalle che i miei aguzzini si stanno liberando, così giro per un corridoio a destra. Scendo delle scale, passo una porta, due, mi ritrovo nelle cucine. L’unica via d’uscita è la finestra che ho davanti, che dà sul cortile sul retro. Senza pensarci due volte la apro, ma mentre sto per saltare giù mi blocco.

Una figura snella, minuta, quasi eterea sta in piedi sulla porta. È la cameriera che pochi minuti prima aveva catturato la mia attenzione.
Mi guarda con i suoi occhi grandi, scuri, profondi come un pozzo, muove qualche passo verso di me.
Indietreggio. No, NO! Non può finire così! Non può!
Mi inginocchio davanti a lei, strigo fra le mani la sua gonna logora ma pulita.
-No..ti PREGO…mi uccideranno..- dico in un sussurro. Le lacrime cominciano a sgorgare senza alcun freno, mi sento piccola, indifesa. Chissà come mi uccideranno. Soffrirò? E, soprattutto, cosa sarà del mio bambino?
Lei però mi poggia una mano sulla testa, poi mi prende le mani e mi guarda.
-Baderò a vostro figlio come fosse il mio. Vi prometto, lo giuro sulla mia testa, che non gli accadrà mai nulla di male.-
Rimango senza parole, spiazzata, sto per dire qualcosa, la vorrei ringraziare ma in quel momento ci voltiamo entrambe spaventate verso la porta chiusa.
Sentiamo dei passi furenti, urla scalpitanti, rumori di armi.

Dopo avermi guardato negli occhi per un ultima volta mi costringe a saltare giù dalla finestra.
Quando lo faccio sento che la chiude con forza proprio nel momento in cui si spalanca la porta.

Atterro sulla terra e il muschio umido, sento le caviglie piegarsi. Mi mordo il labbro per non urlare di dolore e mi appiattisco contro una parete mentre sento delle voci concitate provenire dalla cucina.

-Dov’è? DOV’È QUELLA PUTTANA?- Riconoscerei ovunque la profonda  voce di mio marito. Timbro scuro, suono potente. Rabbrividisco solo nel sentirla.
La finestra si spalanca e io mi schiaccio ancor più contro il muro.
Quel verme si sporge, guarda fuori con i suoi piccoli occhi grigi, la barba ispida, le spalle larghe.
Dice qualcosa e nel farlo sputacchia un po’ di saliva, che si va a depositare sulla mia camicia da notte.
Trattengo il respiro, lui è vicino, troppo vicino.

Poi però rientra. Lo sento uscire dalla cucina e chiamare i suoi scagnozzi. E a quel punto capisco di dover correre.

Punto la foresta, un groviglio di alberi dai rami nodosi che si staglia in una vasta pianura, ovviamente proprietà di mio marito.
Sento dei cani dietro di me.
Ha liberato i cani. Razza di animale, mi sta facendo inseguere da dei cani, come in un torneo di caccia alla volpe. Mi stupisco di non sentir gridare ‘Ehy ho!’.
Finalmente raggiungo la sommità del bosco, sono sicura che non mi seguiranno più in là. Mi faccio largo fra i rami, sento le spine dei rovi graffiarmi tutto il corpo. Preferisco sopportare un milione di torture pittosto di essere presa da lui.
 I cani si fermano, continuano ad abbaiare ma si fermano. Mio marito e i suoi scagnozzi, a cavallo, non possono passare tra i rami e so che non si avventureranno a piedi qui dentro.

Sento uno chiedere qualcosa, mio marito sbuffa.
-Non durerà più di 2 giorni lì dentro, possiamo già cosiderarla carne morta.-

Stanno facendo dietrofront. So che non è finita, che manderanno comqunque qualcuno a cercarmi, ma, mentre sentro esplodere il cuore dentro il petto, proseguo.

Imperterrita continuo a farmi spazio fra le braccia di quegli alberi dalle lunghe forme articolate finchè non sbuco in una piccola radura. Non c’è la luna in cielo, solo qualche stella.

Ho la gola seccca, i polmoni brucianti.
Col respiro affannoso mi appoggio ad un albero.
Una strana fitta mi costrnge ad apponggiarmi al tronco ruvido.

Una fitta da parto.

Respiro a fondo, uno, due, uno due.

No, il dolore aumenta. Devo stendermi. Pian piano piego le gambe fino a toccare col sedere per terra. Una fitta lancinante mi fa rotolare di fianco. Urlo. Urlo a pieni polmoni. Mio marito non si preoccuperà di venire a soccorrermi.

La vista si annebbia, trattengo a stenti un conato di vomito. Sento che sto per morire.

Poi quelle mani.
Due mani fresche, delicate, che infondono sollievo. Le sento appoggiarsi sulla mia spalla sinistra, poi salgono sulla fronte, sulle guance, sul collo. Si fermano sul cuore.

Poi delle voci. Sì, voci concitate.

-Portatela dentro, svelti! Non abbiamo molto tempo!-
Qualcuno mi solleva dalla terra umida, qualcun altro mi prende fra le braccia.

Apro gli occhi per un istante, ma la mia vista è velata.

Stringo i denti nel momento in cui sento un’ altra fitta lancinante colpirmi il fianco dall’interno.

-Alice, devi farcela. Devi. Tu puoi.-

Quella voce.

Sto per dire qualcosa ma di colpo mi sento precipitare. Giù, sempre più giù.

Poi le tenebre mi avvolgono.
  
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