Sono passati quattro anni dall'ultima volta che ti ho vista; non eri niente per me, un amica, forse.
Scendo le scale come al solito, salto gli ultimi due scalini e percorro lento la via dove abito da anni. Non ho mai cambiato in casa, forse per conservare la speranza di ricevere di nuovo una tua chiamata che mi diceva di guardare giù dal balcone e vederti lì.
Supero la fermata della metro che uso per andare a lavoro e i tuoi ricordi mi assalgono.
Quante volte mi hai detto questa frase? «Io ci metto un attimo a venire a trovarvi a lavoro, devo solo fare il giro dell'isolato» lo dicevi sempre. Sempre con quel sorriso che
solo io sapevo essere falso. Sapevo quanto soffrivi, e anche se venivi a trovarci, in negozio, a me e agli altri, ridendo e scherzando con noi, facendo battutine su
qualunque cosa. Inventandoti scuse quando qualcuno degli altri notava le gocce di sangue fresco. Solo io sapevo perché quelle gocce erano lì, solo io sapevo perché
quei tagli erano stati incisi sulla tua pelle. Mi sentivo onorato quasi di conoscere così tanto di te.
Mi venivi a trovare a lavoro, rimanevi fino ad ore inimmaginabili solo per passare un po' il tempo. Tutti ci chiedevamo cosa fossero quelle quattro mura, quelle pareti
ricoperte di oggetti che mai si troveranno sulle mensole, quelle piccole amicizie nate in un negozietto per te. Cosa ti spingesse a venire ogni santo giorno a trovarci. Il tuo
pensiero si impossessa della mia mente quando passo una serata che sicuramente se tu fossi qui avremmo occupato con una chat.
L'attraversamento mi obbliga a guardarmi attorno. Una macchina si ferma al semaforo. I fanali come grandi occhi mi fissano con aria di rimprovero “Che potevo fare?
Fermarla?” rispondo allo sguardo severo della luce, “Credi non abbia smesso di cercarla in tutto questo tempo?” la luce sembrò annuirmi per darmi ragione, “Mi manca, lo
ammetto, ci tenevo a lei. Ma non tornerà”
Il clackson mi costrinse a smettere quel discorso che sapevo essere con me stesso, ma che mi rifiutavo di acettare.
Piccole goccioline mi solleticano la testa. Sorrido. Penso hai capelli che ho appena lavato che tu mi dicevi sempre di far crescere. Ora sono lunghi, almeno quanto i tuoi
l'ultima volta che ti ho vista.
La pioggia diventava più insistente pian piano che mi avvicinavo alla mia meta. L'insegna luminosa del bar mi dice che sono arrivato.
Gli anni d'oro del grande Real.
Gli anni di Happy days e di Ralph Malph.
Gli anni delle immense compagnie.
Gli anni in motorino sempre in due.
Gli anni di che belli erano i film.
Gli anni dei Roy Rogers come jeans.
Gli anni di qualsiasi cosa fai.
Gli anni del tranquillo siam qui noi.
Siamo qui noi.
Sì, il grande real. Quello che non ho mai seguito, gli happy days che non ho fatto, gli amici che ho ignorato e che tu non hai mai avuto, i film che non ho visto, le mode che
non seguivo e le regole che infrangevo.
Mi ricordavi me. Abbandonata a te stessa, pronta a cadere in quel circolo vizioso della depressione che ti porta alla follia. Chi era con te? Tuo padre non c'era, tuo fratello
ti ignorava e tua madre aveva problemi. Decisi di essere io la tua spalla. Decisi che tu avresti potuto contare su di me. Decisi che ero io quello che un giorno ti avrebbe
stretta tra le braccia con la paura di ucciderti se stringevo troppo da tanto mi sembravi fragile e sussurrati nell'orecchio: «Ci sono qui io.»