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Autore: lisolachenonce    29/12/2012    0 recensioni
Ma il ragazzo non fece nessuna di quelle cose. Aprì il programma di scrittura e passò le mani sulla tastiera, delicatamente, guardando verso l’alto, come a cercare ispirazione. Caterina ne rimase come fulminata. Seriamente quel ragazzo scriveva? Aveva aperto una pagina bianca, e quello era sicuramente un indizio del fatto che voleva cominciare una storia da zero. Quale storia? Caterina, da buona lettrice, era troppo curiosa. Una scrittore. Accanto a lei. Su un aereo. Di più, un ragazzo, uno scrittore precoce! Caterina adorava gli scrittori precoci. Le sembrava che scrivessero meglio di quelli navigati, perché non avevano ancora del tutto perso la magia dell’essere bambini. C’era della magia nel ragazzo accanto a lei. Come avrebbe potuto non rivolgergli la parola?
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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A Caterina de' Medici e al Maestro di Camden Town.
A Caterina e basta, Buon Natale.


1

3000 metri sopra il mare


 

 
  Era stata una bella giornata. Il Sole entrava obliquo dai finestrini, colorando di rosso il signore che dormiva accanto a Caterina. Il mare, sotto, scintillante di luce, era spettacolare. Non avrebbe mai voluto smettere di guardarlo. Ma l’aereo fece una curva e si girò, e Caterina non capiva bene adesso da dove venisse la luce. Voleva di nuovo l’ovest. Sarebbe vissuta ad ovest. Se mai avesse avuto una casa sua, avrebbe voluto tutte le finestre ad ovest. O almeno quella della camera da letto. Un po’ di tramonto tutte le sere renderebbe sopportabile qualsiasi vita. Distolse lo sguardo dal cielo oltre i finestrino, facendolo vagare per lo squallido aereo, e soffermandosi sull’hostess grassoccia che sorrideva a una bambina due file avanti. Si era sempre chiesta che cosa spingesse una persona a fare un lavoro come l’hostess: salire su un aereo con destinazioni meravigliose e tornare indietro senza, spesso, nemmeno scendere. Non sentivano l’assurdità della situazione? Guardò il posto alla sua destra, che prima era vuoto, e adesso era occupato da un ragazzo moro. Doveva essere salito in ritardo, ma non se n’era accorta, troppo occupata ad osservare il paesaggio fuori dal finestrino e l’innata capacità del signore alla sua sinistra di addormentarsi istantaneamente appena toccato il sedile.
Quello non era il primo viaggio in aereo, per Caterina, anzi, era abituata a prenderlo. Sapeva, per esempio, che il modo migliore per occupare il tempo su quei trabiccoli non era leggere, né ascoltare la musica, né mangiare, ma semplicemente chiudere gli occhi e pensare. Lasciar vagare la mente, seguire il filo delle parole per poi all’improvviso fermarsi e ripercorrere tutti i pensieri fatti fino al primo. A volte i passaggi si rivelavano decisamente buffi, e pensava che i personaggi di alcuni libri che amava, che leggevano nel pensiero, sicuramente se fossero vissuti nel mondo reale sarebbero scoppiati a ridere all’apparenza senza motivo ogni qualche secondo, solo per la catena di pensieri che erano passati tra le orecchie della persona accanto.
Caterina si chiese che cosa stesse pensando in quel momento il ragazzo alla sua destra, se anche lui aveva letto quei libri, e se anche lui ripercorreva i suoi pensieri al contrario, ogni tanto. Se lo chiedeva, ma sapeva che c’erano grandi probabilità che non fosse così. Tuttavia gli lanciò un’occhiata e vide che si stava chinando verso la sua borsa, per tirarne fuori un piccolo computer. Rimase piuttosto perplessa, perché i congegni elettronici spesso danno noia all’apparecchiatura dell’aereo. Ma l’hostess grassoccia, che pure stava controllando che andasse tutto bene, non disse nulla.
Caterina chiuse di nuovo gli occhi. Evidentemente quel ragazzo avrebbe passato la seguente ora a giocare a un qualche stupido videogioco, magari con zombie da uccidere. Oppure era talmente stupido che avrebbe provato a connettersi a internet. In quel caso, il viaggio sarebbe stato comunque di gran lunga più sopportabile. O magari si sarebbe messo a mettere in ordine le foto. Non che ci fosse un particolare motivo per cui quel ragazzo avrebbe dovuto avere delle foto da riordinare, ma Caterina associava l’idea di aereo all’idea di vacanza, e in una vacanza si fanno le foto. Be’, sicuramente era più interessante sbirciare le sue foto che essere disturbata dal rumore di un videogioco.
Ma il ragazzo non fece nessuna di quelle cose. Aprì il programma di scrittura e passò le mani sulla tastiera, delicatamente, guardando verso l’alto, come a cercare ispirazione. Caterina ne rimase come fulminata. Seriamente quel ragazzo scriveva? Aveva aperto una pagina bianca, e quello era sicuramente un indizio del fatto che voleva cominciare una storia da zero. Quale storia? Caterina, da buona lettrice, era troppo curiosa. Una scrittore. Accanto a lei. Su un aereo. Di più, un ragazzo, uno scrittore precoce! Caterina adorava gli scrittori precoci. Le sembrava che scrivessero meglio di quelli navigati, perché non avevano ancora del tutto perso la magia dell’essere bambini. C’era della magia nel ragazzo accanto a lei. Come avrebbe potuto non rivolgergli la parola?
 
Erano anni che Leone voleva scrivere una storia. Gli era venuta la passione più o meno in terza liceo. Stava parlando con i suoi amici di cosa avrebbero voluto fare da grandi. Medici. Musicisti. Biologi. Calciatori. Poi era giunto il suo turno, e quasi per scherzo aveva detto: “Io farò lo scrittore.” Nessuno lo aveva preso sul serio, nessuno, nemmeno lui stesso. Ma poi l’idea si era depositata in lui, lentamente, come si deposita una briciola sul fondo di un bicchiere pieno. E alla fine Leone aveva avvertito il Fastidio. Si sentiva vuoto. Non riusciva a concentrarsi. Non riusciva a sentirsi a suo agio in nessun posto. Avvertiva un certo Fastidio alla pancia tutto il tempo. E poi aveva dovuto scrivere un tema. C’erano tracce di letteratura, di un sacco di cose che forse la professoressa aveva anche detto, mentre lui guardava fuori dalla finestra, e poi c’era una traccia salva-vita. In classe le chiamavano così quelle che non avevi bisogno di studiare per svolgere. Diceva:
“Racconta qualcosa che ti ha cambiato molto.”
Nient’altro.
Avrebbe potuto essere un tema delle medie. E Leone si era messo a scrivere, e più scriveva più gli veniva da scrivere, e meglio si sentiva. Non ne era venuto fuori qualcosa di particolarmente lungo, solo tre pagine, ma era arrivato alla fine, aveva messo un punto, e si era sentito bene. Il Fastidio se n’era andato. E così, un po’ per caso, un po’ per scherzo, si era accorto che quello che voleva fare era davvero scrivere. Quel tema era venuto meglio di tutti gli altri. La professoressa gli aveva dato otto e gli aveva fatto i complimenti. Ma a Leone della professoressa non importava niente, quello che era importante era che stava bene. E non aveva più fatto temi salva-vita, tanto adesso riusciva a concentrarsi. Riusciva a studiare. E ogni sera si metteva al computer e scriveva qualcosa. Faticosamente, con molti inciampi, tornando indietro più volte, scriveva qualcosa e lo salvava. Ma, salvo rare occasioni – una o due storie che erano arrivate fino in fondo – o meglio, non proprio storie, diciamo scene, piccoli squarci di vita – la sera dopo cancellava quello che aveva scritto e ricominciava da capo. Non faceva mai leggere quello che aveva scritto: si sentiva come se quelle storie non fossero del tutto sue, cioè, erano sue, ma nessuna era degna di essere letta e associata a lui. Non aveva ancora trovato la sua storia. Sono cose che chi scrive capisce.
Era sera quando era salito su quell’aereo, rischiando di perderlo, e si era seduto, per l’ennesima volta, dal lato del corridoio, accanto a una ragazza. Non riusciva mai a sedersi dal lato del finestrino. E dire che gli piaceva guardare fuori dalle finestre. Gli era sempre piaciuto. Ed era anche vero che gli dava noia che i finestrini fossero così piccoli. Ma avrebbe voluto guardare fuori, per una volta, da quegli squallidi piccoli aerei.
Era sera e l’hostess non aveva battuto ciglio vedendolo arrivare col fiatone, di corsa. Gli aveva semplicemente indicato un posto a metà dell’aereo, aveva aspettato che lui si sedesse e aveva risalito il corridoio, fermandosi per sorridere a una bambina, due file più avanti. C’era qualcosa di strano in quell’hostess.
Era sera e Leone aveva chiuso gli occhi e appoggiato la testa al sedile, cercando di riprendersi dalla corsa. Aveva fatto tardi perché si era fermato nella libreria dell’aeroporto. Le librerie mangiavano sempre il suo tempo come se si nutrissero solo di quello e fossero morte di fame. E forse era così. Fatto sta che ne era uscito appena in tempo per farsi una bella corsa e prendere l’aereo. Almeno era dimagrito. Rimase così per un tempo piuttosto lungo. Ad occhi chiusi, aspettò che l’aereo si muovesse, accellerasse, decollasse. Aspettò che le orecchie si tappassero, poi deglutì per farle stappare. Se sua madre fosse stata lì, avrebbe sicuramente avuto una caramella, così le orecchie non si sarebbero tappate proprio. Ma con sua madre non parlava da Natale.
Era sera e l’aereo continuò a inclinarsi e girare per un tempo infinito, finchè finalmente non si decise per un moto rettilineo, e la luce rossa che entrava dal finestrino non lo infastidì al punto da fargli aprire gli occhi. L’hostess che aveva sorriso alla bambina lo stava facendo di nuovo. D’un tratto Leone fu fulminato dalla consapevolezza – era sovrappeso. Quella donna rotonda faceva forse il mestiere più stereotipato del mondo, e invece di essere alta, magra, bionda, con ciglia lunghe e occhi grandi, era sovrappeso. A volte il mondo riserva di queste sorprese, spesso meravigliose.
Era sera e Leone si guardò un po’ intorno. La luce era sparita di nuovo dietro una curva. Una curva nell’aria. Forse qualche bambino, a terra, aveva guardato in alto e aveva visto la scia dell’aereo – le famose scie degli aerei: le adorava, da bambino – e gli aveva visto fare una curva per le immaginarie strade dell’aria. In realtà forse gli sarebbe piaciuto anche fare il pilota, da grande – se ancora a vent’anni poteva dire “da grande” – ma certo non si era mai sentito vuoto perchè non stava per aria. O forse in un certo senso stava sempre per aria, con la testa.
Era sera e la ragazza accanto a lui aveva gli occhi chiusi. Leone si prese qualche istante per guardarla, come si può guardare una persona sconosciuta, colta per un secondo mentre non può vederti. Non era particolarmente bella: non aveva niente di notevole nel viso, tranne forse una strana, indefinibile, armonia nei tratti, che le dava un’aria angelica. Leone si sentì un po’ strano a fissare così il viso di una persona senza poter vedere il colore dei suoi occhi. Oltre lei, accanto al finestrino, c’era un signore piuttosto anziano e piuttosto grasso, che dormiva beatamente. Leone si fermò ad osservare il colore del cielo di là dal vetro, che stava scolorando in un azzurro intenso, forse il colore più bello del mondo. Ricordava fosse il colore preferito di suo nonno, che d’estate verso le nove si metteva sempre fuori in terrazza a fissare il cielo, per cercare quel punto in cui era del colore più intenso di tutti.
Era sera e la ragazza aprì gli occhi, risvegliando improvvisamente Leone dalla sue riflessioni nostalgiche, perché lui se ne accorse subito e immediatamente distolse lo sguardo, tuffandosi sotto il sedile per cercare il computer. Se l’era portato, ovviamente, per scrivere, perché era sera e perché non avrebbe saputo come occupare il tempo altrimenti. La presenza di altre persone non gli dava granchè fastidio, purchè non lo conoscessero. E su quell’aereo non conosceva nessuno. Mentre lo accendeva cominciò a far vagare la mente, in cerca di un’idea. Si era già dimenticato della ragazza. Il bello è che sapeva perfettamente che l’idea che cercava, la sua storia, era già dentro di lui, solo che lui non era ancora capace di trovarla. Il perché, se lo chiedeva ogni sera, ma non arrivava mai ad una risposta soddisfacente. Forse, se avesse seguito un qualche corso di meditazione, o qualcosa del genere, sarebbe arrivato a conoscere ogni cassetto della propria mente e allora sarebbe stato facile mettere insieme gli elementi per la storia.
Aprì il programma di scrittura e passò le dita sulla tastiera, guardando in alto in cerca di ispirazione.
«Scrivi?»
A Leone prese un colpo. Si girò verso sinistra e vide la ragazza fissarlo. Era stata lei a parlare. In un lampo di stupore notò che aveva gli occhi marroni, che cancellavano del tutto l’aria angelica che aveva con gli occhi chiusi, riportandola tra i mortali. Questo gli infuse non poco – stupido – sollievo.
«Ci provo.» Optò di ripondere Leone, ancora leggermente sotto shock.
«Wow.» Si appoggiò allo schienale del sedile e continuò a fissarlo.
Leone, non sapendo cosa dire, fece altrettanto.
Lei sorrise, un po’ imbarazzata e disse: «Oh, ehm, scusa se ti ho disturbato, ma sai, a me piace tantissimo leggere, e quindi... be’...» Si fermò, arrossì... «Lascia perdere, non so neanche parlare.»
«Non preoccuparti.» disse lui, per non farla sentire a disagio.
Lei sorrise e distolse lo sguardo, prendendo a fissare il soffitto. Leone tornò a guardare il computer, sentendosi improvvisamente imbarazzato all’idea che quella ragazza avrebbe letto quello che scriveva, specialmente adesso che sapeva che non era per niente timida e non avrebbe avuto alcuna remora nel rivolgergli la parola a proposito di quello che scriveva. Però rimase ancora qualche secondo a fissare la pagina bianca. Poi si riscosse e chiuse tutto. Quella sera non avrebbe scritto un premio Strega, sperava che ne valesse la pena.
 
Caterina sapeva, ovviamente, da qualche parte nella sua testa, che c’erano abbondanti possibiltà che si sbagliasse, che lui non fosse uno scrittore, semplicemente, magari, stava scrivendo la testi di laurea, o un documento di qualche tipo, o comunque qualcosa di noioso. Tuttavia non era nella sua natura preoccuparsi di tali sciocchezze. Non era nella sua natura preoccuparsi di nulla, in effetti.
Si scambiarono qualche battuta, Caterina riuscì a impappinarsi alla terza frase, e la seconda non era nemmeno propriamente una frase. Imbarazzata, distolse lo sguardo, anche se sapeva che la conversazione non era finita. C’era quel senso d’attesa nell’aria, quello che tutti odiano. Tuttavia cercò semplicemente di abituarcisi fino a non sentirlo più, per non disturbarlo, e chiuse di nuovo gli occhi, cercando di calmarsi. Pensò ad altro. Guardò fuori dalla finestra, contò le pecore, e si distrasse in altri mille modi stupidi, finchè non dimenticò di voler evitare di guardarlo – e lo guardò. Aveva messo via il computer, stava mangiando un sacchetto di patatine. Lui si girò: «Vuoi?»
Lei ne prese una: «Grazie.»
La conversazione riprese piano, dopo quell’inizio un po’ traumatico, e continuò piano, a più riprese, finirono per parlare di libri, e di storie. A un certo punto le luci delle cinture si riaccesero, e i due si accorsero di non avere contatti – allora si scambiarono i nomi e i numeri di telefono. Caterina pensava che sarebbe stato fantastico poter parlare di libri in quel modo con una persona – e diverso. Diverso parlare con uno scrittore senza parole.
 
Leone la voleva rivedere.
  
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