WISH
YOU WHERE HERE.
How I wish, how I wish you were here.
We’re just two lost souls swimming in a fish
bowl,
Year after year,
Running over the same old ground.
What have you found? The same old fears.
Wish you were here.
Sapete,
tra
me e lui era solo, tutto, un
vaffanculo. Non nel senso che litigavamo sempre, non credo avessimo mai
litigato seriamente – non ce n’erano i motivi, non
c’era l’occasione, non c’era
il carattere –, era tutto un vaffanculo perché non
c’era mai niente che andava
per il verso giusto, per il verso che volevo io.
I miei sentimenti, da quando
l’avevo
conosciuto, erano in subbuglio. Un casino, diciamolo. Gli volevo bene:
era
dolce, dolce come quelle caramelle che trovi in un vasetto nel salotto
dei
nonni, che ancora si illudono che tu abbia cinque anni, e non
diciassette; era
intelligente, un tipo da otto e settanta di media, o una cosa
così, che ti
prendeva in giro dicendoti che eri un capra quando sostenevi con tutta
te
stessa che ‘coscienza’ andava senza
‘i’; era bello, anche se lui diceva che non
era vero, ma io lo sapevo, sapevo!, che tutte la pensavano come me,
perché con
quel ciuffo che si ritrovava non la potevi pensare diversamente. Poi
tutto d’un
tratto non gli volevo più bene, lo odiavo: non mi capiva,
era stupido, era
piccolo, non gli interessavo, sbagliava le parole, non gli importava di
me, non
mi capiva, non mi capiva, non mi capiva. O mi capiva troppo? Mi capiva
troppo?
E qui boom.
Sì, proprio boom. Perché io non gli volevo
più bene e non lo odiavo più, io
provavo qualcos’altro.
È a questo
punto che i vaffanculo nella mia testa sono iniziati. Perché
avevo sbagliato
tutto. Perché lui aveva sbagliato tutto. Perché
non potevamo essere uno
sbaglio, non era giusto lo fossimo, non era vero, noi non eravamo uno
sbaglio!,
non lo eravamo, no, non siamo uno
sbaglio, noi non siamo…
noi non
eravamo un noi.
«Io te lo giuro»
Lo sai quanto odiavo quando mi giuravi
qualcosa? Mi sembrava tutto falso, posticcio. «Io te lo giuro
sulla mia D.» «Io
te lo giuro, te lo giuro, te lo giuro», dicevi. Ma non avevo
bisogno che tu
giurassi che io ero importante, non avevo bisogno che tu giurassi che
ero la
tua persona preferita in questo mondo, non avevo bisogno che mi
giurassi
niente, perché io lo sapevo già, quanto mi volevi
bene. Io sapevo, io vedevo.
Vedevo cosa provavi per me, per lei, vedevo il tuo sorriso, vedevo la
tua
faccia stanca che inevitabilmente scambiavo per la tua faccia triste, e
non
capivo, non capivo perché eri triste, e allora mi dicevi che
eri solo stanco,
una brutta giornata a scuola, una litigata con mamma, e io allora
sospiravo,
perché eri solo stanco, perché non eri triste.
«Tu sei sopra a qualsiasi ragazza,
perché
loro se ne vanno e tu no»
Lo sai quante volte ho pensato di andarmene,
di andarmene da te, da noi – anche da me stessa –
decidere di non scriverti
più, di non vederti più, di non piangere
più? E tutte le volte mi dicevo che
non potevo, perché sarei stata peggio senza di te, sarei
stata ancora più male.
Perché mi saresti mancato così tanto da starci
più male che vederti tutti i
giorni, che parlarti tutti i giorni, che sorriderti tutti i giorni, che
crollare tutti i giorni perché non ero tua.
Tua.
Noi umani
abbiamo questo bizzarro bisogno di sentire che apparteniamo a qualcosa,
a
qualcuno. Ci piace tanto fingere che da soli siamo invincibili, che il
silenzio
ci fa stare bene, che la pioggia sia un rumore delizioso da ascoltare
con il
sorriso, che un libro e una coperta sia tutto ciò di cui
abbiamo bisogno. Io
fingo un sacco di volte, dico sempre che sono un lupo solitario, che mi
piace
esserlo, che mi piace la pioggia, mi piacciono le docce calde, i libri,
che mi
piacciono le nuvole, che mi piacciono i sospiri. La verità
è che mi sento così
sola che ormai esserlo è diventata un’abitudine, e
dico che infondo sì, mi
piace stare da sola, che sì, io la pioggia
l’accolgo con un sorriso perché mi
rilassa. Ma no, no, non
è vero. Ogni
volta che il cielo è grigio a me bruciano gli occhi, e voi
direte che è solo il
riflesso del sole sotto le nuvole: può essere, ma a me viene
da piangere. E le
docce calde sono autolesionismo, perché sono bollenti,
ustionanti, che quando
esci la pelle ti fa male, come se tutte le cose che hai appena pensato
sotto il
getto si fossero incastrate nella carne come spilli; che quando esci la
pelle è
rossa, come il sangue che hai
sulle
labbra quando le mordi, e non lo fai a posta, non lo programmi,
è solo che hai
sentito un altro brandello di te staccarsi, e hai pensato che anche gli
altri
avrebbero dovuto vedere che ti stavi rompendo, che ti stavi
distruggendo,
divorando.
Perché è
così che mi sento: sento che sto crollando. E mi rialzo, mi
sono rialzata una,
due, dieci, mille volte, ma una volta non ce la farò
più da sola, le ginocchia
saranno troppo sbucciate, le gambe troppo stanche, e rimarrò
giù, ad aspettare
che qualcuno mi raccolga come si fa con un gatto randagio.
Perché non riusciamo
a salvarci da soli. Si diventa pazzi, dopo un po’, a salvarsi
da soli.
Ricordo quelle volte in cui piangevi, e io
pensavo che avresti dovuto essere tu l’uomo, che avresti
dovuto smettere perché
non sapevo che cosa fare. Ricordo che cominciavo a dirti tutte le cose
belle
che mi venivano in mente: che sarebbe andato tutto bene, che non eri
solo, che
c’ero io, che eri bello, una bella persona, che qualcuno
prima o poi ti avrebbe
amato, che
«non so scrivere poesie
ma il cielo
è blu
io sono io
e tu sei tu» ricordi?
Perché io ricordo, io ricordo
tutto. E a volte vorrei solo dimenticare tutto quanto. Ma poi mi
tornando in
mente le cose belle, quelle volte in cui io ridevo, o tu ridevi, quelle
volte
in cui cantavamo come matti guardandoci negli occhi – per
quanto possibile –
quelle volte in cui mi dicevi che il mio accento e la mia voce ti
suonavano
buffe, quelle volte in cui il tuo microfono non funzionava e io mi
perdevo
interi tuoi discorsi e tu scuotevi la testa e cominciavi a picchiare il
computer. Ti ricordi? Io ricordo che mi hai presentato il tuo gufo, e
diavolo,
mi sono sentita importante, perché lui era il tuo gufo!
Ti ricordi di tutte queste cose?
Ti ricordi di come eravamo all’inizio?
Io
voglio,
io voglio, io voglio,
io voglio
solo che tu sia qui con me. Che mi prendi la mano e porti a prendere un
gelato
con la panna sopra, che ti metti in posa e ti faccio delle
foto(“sorridi” “fai
una faccia buffa” “no, così fai
paura” “smettila di sorridere”
“stai fermo!”), che
mi canti una canzone nell’orecchio, anche se sei stonato,
anche se ho i
paraorecchi e non ti sento bene. Voglio che mi fai ridere, tanto, fino
ad avere
mal di pancia; che mi dici di smetterla di mangiarmi le unghie; che mi
parli,
di quello che vuoi (lo so che mi parleresti di sport, e lo so che lo
sai che di
sport non so niente), nel tono che vuoi; voglio che mi abbracci,
perché si sa
che le persone o le si abbraccia o le si
lascia in pace. E io non voglio che tu, fra tutti, mi lasci
in pace. Non
voglio che tu mi lasci andare via da te. L’hai promesso che
non ti saresti
fatto allontanare da me, l’hai promesso che non ti saresti
allontanato, che non
volevi. Voglio solo che tu voglia stringermi fra le tue braccia,
soffiarmi fra
i capelli e dirmi che tu ci sei, che non te ne vai, che dobbiamo
smetterla di
avere paura, dobbiamo smetterla di piangere, dobbiamo smetterla con
questi
vaffanculo. Devi dirmi che non ti piacciono i tramonti
perché ti mettono
malinconia, e che devo smetterla di parlare di Harry Potter, che non ce
la fai
più a sentirmi blaterare. Devi dirmi che in ogni caso ti
piace sempre quello
che dico, che non importa se ho le labbra screpolate, il raffreddore,
se odio
il calcio e i miei capelli sono un disastro. Devi dirmi, come quella
volta che
me l’hai cantato in faccia con gli occhi grandi grandi, che
noi siamo
invincibili. Che noi insieme siamo invincibili, che stiamo brillando.
Vorrei tanto mi dicessi che anche tu mi
vorresti lì con te.