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Autore: Katekat    30/12/2012    8 recensioni
"Invece tu sì che sei una Black, vero, Bellatrix? [...] E allora avanti, comportati da Black. Uccidimi, se ne hai il coraggio."
"[...] Verrà il momento in cui ti ucciderò, cugino. Ti prometto che lo farò. La mia faccia sarà l'ultima cosa che vedrai prima di finire all'Inferno, parola di Bellatrix Black."

Sei momenti in cui i due cugini Black si trovarono a confronto.
[No incest]
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Sirius Black
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Tu sei il mio inizio e la mia fine 


 
 
 
"E’ importante che sia mia cugina?” sbottò Sirius. “Per quanto mi riguarda, non è la mia famiglia. Lei di sicuro non fa parte della mia famiglia. Non la vedo da quando avevo la tua età, tranne che di sfuggita quando è arrivata ad Azkaban. Credi che sia orgoglioso di avere una parente come lei?”
 
Sirius Black, Harry Potter e l’Ordine della Fenice
 
 
 
 
 
 
1. He’s nothing Special. I am


 
 



Grimmauld Place nr. 12
Febbraio 1959
 
 


[Bellatrix]
 
 

«Bella, non vuoi vedere tuo cugino?»
No. Non ne ho la minima intenzione.
La bambina dai boccoli neri scoccò un’occhiata truce verso l’interno della sontuosa culla, ma non si avvicinò. Le sue pupille brillarono per un attimo alla luce delle candele, poi tornarono a nascondersi sotto le palpebre pesanti, mentre abbassava lo sguardo sul soffice tappeto di velluto verde che ricopriva il pavimento. Rimase ferma dove stava, in piedi al centro del grande salone al primo piano della casa dei suoi zii.
«Insomma, Bella!» la richiamò la voce stizzita di suo padre. «Possibile che tu debba sempre essere così scostante?»
«Cygnus, non fa niente, se non vuole…»
«No, Druella. Deve capire come ci si comporta, una buona volta. Vieni qui, Bellatrix.»
Il lampo di sfida che attraversò gli occhi della bimba scomparve, rapido com’era apparso, nel momento in cui capì che era meglio non discutere. Dopo un attimo di sofferta esitazione cedette e mosse i passi verso suo padre, che troneggiava vicino la culla.
L’odiosa culla attorno alla quale chiocciano tutti, come galline in un pollaio
Cygnus si spostò dietro di lei, afferrandole le spalle con fermezza – e una traccia di ammonimento. La guidò di fronte alla cosa che giaceva nella culla, avviluppata da seta lucente che catturava i riflessi delle candele e delle fiamme che sfrigolavano vivaci nel camino.
Cosa c’era di interessante da guardare? Cos’aveva di speciale, quello, perché tutti gli facessero le feste come cagnolini in calore? Non ricordava avessero accolto con tale gioia la nascita di Cissy o di Dromeda. Forse perché era un maschio? Per quello si eccitavano tanto? Lei non ci vedeva nulla di così esaltante.
Lo osservò con disprezzo. Era solo un marmocchio uguale a tanti altri. Aveva un viso rosso e rugoso e i pugni contratti al di sopra della copertina verde smeraldo che lo avvolgeva. Aveva già un bel po’ di capelli, neri neri. Ma a parte quello non c’era assolutamente nulla di straordinario…
«E’ un perfetto Black in miniatura!» Zia Lucretia, sorella di Orion, era china sulla culla al fianco di Bella. Il ghigno smisurato con cui scopriva i denti rovinati dal fumo le fece quasi venire da vomitare. Come le parole che pronunciò mentre si raddrizzava e si voltava verso suo fratello: «I miei complimenti, Orion.» Un colpetto di tosse inequivocabile risuonò da un angolo. «Oh, anche a te, Walburga, mia cara, ovviamente…»
Più falsa di una Tentacula Velenosa travestita da Cespuglio Farfallino...
Orion Black sorrise, stappando una bottiglia di Whisky Incendiario.
«Gradisci, Cygnus?»
«Un goccio, Orion, grazie. Ho già bevuto abbastanza stasera.»
«Beh, oggi era un giorno speciale» intervenne Druella, «si doveva festeggiare.»
«Eh, già. Finalmente il tanto sospirato erede dei Black è arrivato... Si è fatto attendere.»
Cygnus lasciò le spalle di Bella per prendere il bicchiere di liquore che il cognato gli porgeva, e la bambina poté finalmente rilassare la schiena, che fino a quel momento aveva mantenuto rigidamente impettita. 
Come si conviene a una Black
«Sì, si è fatto attendere molto» ripeté piano Cygnus, rigirando il liquore nel bicchiere, ma senza berlo, incupitosi d’un tratto. All’improvviso alzò la testa e guardò suo cognato dritto negli occhi, con una smorfia contratta che voleva essere un sorriso. «Sono molto felice per te e per Walburga, Orion. Ora che so che il nome dei Black non scomparirà nel nulla, mi sento molto più tranquillo.» Dopo una brevissima esitazione, aggiunse: «A me purtroppo non è stata concessa questa benedizione».
«Avanti, Cygnus, hai tre figlie bellissime…» disse scherzosamente Walburga, agitandosi un po’ a disagio sulla poltrona. «Te le invidiano tutti.»
Bella non ebbe bisogno di guardare in faccia suo padre per sapere quale sfumatura di contrariato disgusto fosse apparsa sul suo volto, mentre decideva di affogare temporaneamente nel bicchiere per non dover dire ciò che veramente pensava. Non che fosse un mistero. Non più, ormai.
«Non è come avere un maschio, lo so, Cygnus» commentò Orion. «Ma Dromeda è docile e obbediente, Narcissa ha tutta la grazia e la compostezza di sua madre e Bella… beh, Bella…» Suo zio si interruppe, come se solo in quel momento si fosse accorto che c’era anche lei nella stanza. Imitando suo cognato, sparì dietro il bicchiere di whisky, riempiendo lo spiacevole silenzio che era calato nell’ambiente.
Ribolliva. Una rabbia incandescente le dilagava dentro, silenziosa e letale come una colata di lava. Ardeva di rabbia. Ma la sua espressione era impassibile.
Parlano di me come se non ci fossi. E parlano di lui come se fosse già il principino che tutti si aspettano diventi.
«Bella, vai a chiamare le tue sorelle di sopra. Tra poco dobbiamo andare.»
Sapeva che quella di sua madre era una scusa per non farle sentire altro, un misero tentativo di proteggerla, ma non le importava. Odiava anche lei. Odiava tutti. Li avrebbe uccisi in quell’istante.
Girò sui tacchi. Mentre passava vicino al tavolino dove c’erano bicchieri e bottiglie di liquore per gli ospiti, si premurò di inciamparvi accidentalmente. 
Nel fracasso del vetro infranto che seguì e nelle urla di sdegno dei suoi familiari, corse fuori dalla stanza il più veloce possibile.
Non aveva detto nemmeno una parola. Sapeva che più tardi sarebbe stata punita duramente da suo padre per quell’ultima bravata. Era stato un gesto completamente inutile, lo sapeva, ma si era voluta togliere la soddisfazione. 
La colpa era tutta di quel mostriciattolo avvizzito. Perché l’avevano messo al mondo? Già lo odiava con tutta se stessa. Non poteva perdonargli di aver conquistato il cuore di suo padre, quando lei non c’era mai riuscita.


  
 
 
2. I’ll show him who’s in control
 
 
 



Residenza estiva dei Black 
Periferia di Londra
Luglio 1964
 
 


[Sirius]
 
 

La prima volta in assoluto che l’aveva vista – la prima di cui conservasse ricordo – aveva circa cinque anni. 
Era nella tenuta estiva di famiglia, in aperta campagna, e montava una scopa giocattolo della sua misura, sfrecciando su e giù lungo gli spazi verdeggianti tra filari di viti e alti alberi da frutto, il vento che gli agitava i capelli, facendoglieli stare ritti in testa come spighe di grano, e gli gonfiava le vesti. Quello era uno dei pochi ricordi felici che aveva serbato della sua infanzia. Felice… prima che arrivasse lei. 
Aveva sentito un’improvvisa resistenza, come se qualcosa bloccasse la sua scopa, e si era voltato indietro, cercando il colpevole. Ed eccola lì. Ci era rimasto di sasso nel trovare una ragazzina con una massa di arruffati capelli neri e una mano che gli teneva ferma la coda della scopa, impedendole di muoversi.
«Lasciala andare!» aveva strillato il piccolo Sirius, con vocetta acuta e arrabbiata. Non gli andava proprio giù che qualcuno gli rubasse quell’attimo così privato di spensierata, completa, elettrizzante libertà.
«Altrimenti?» Un sorrisetto beffardo era apparso sulle labbra della ragazza, che continuava a guardarlo, fissandolo in attesa della sua reazione.
«Lasciala! È la mia scopa!» aveva gridato Sirius. Nella meravigliosa logica dei bambini, credeva che bastasse affermare il suo possesso sulla scopa per poterla riavere indietro. Non conosceva chi aveva di fronte.
«Non è la tua scopa. Sei troppo piccolo per averne una. Sei solo un mocciosetto.»
Gli occhi del bambino si erano gonfiati di lacrime di rabbia e umiliazione. Era un’ingiustizia bella e buona: quella era veramente la sua scopa. Gliel’avevano regalata i suoi genitori per il suo compleanno. Ma come spiegarlo a quella pazza  sconosciuta?
«Cosa sarebbero quelle? Lacrime?» Il sorriso ora era scomparso, sostituito da un vero e proprio ghigno. «Lo vedi? Non ho ragione? Sei uno stupido, piagnucoloso moccioso.» Aveva calcato sull’ultima parola, nel momento stesso in cui aveva lasciato andare la scopa, di botto.
Sirius, colto alla sprovvista, non era riuscito a mantenere l’equilibrio ed era ruzzolato giù dalla scopa.
Erano solo venti centimetri, ma quando si era trovato con le mani e le ginocchia affondate nella terra, la terra fin sui capelli, la risata terribile della ragazza era esplosa dietro di lui e gli aveva riempito i timpani, riecheggiandogli nel cervello, gonfiandogli il cuore di nuove lacrime di sdegno e mortificazione.
Era stata la prima volta che aveva avvertito la vampa cocente della vergogna. Non osava quasi rimettersi in piedi, alzare la testa, perché questo significava dover incontrare gli occhi di lei e l’espressione di gioia sadica, malvagia, sul suo volto.
«Se ti piace così tanto rotolarti nella terra posso chiedere a zio Alphard di tenerti nel suo porcile… Lì troveresti tutta la terra che vuoi e soprattutto compagnie degne di te.» Era scoppiata di nuovo a ridere, una risata piena, compiaciuta, soddisfatta. 
Aveva abbassato la guardia per un attimo, e il bambino era scattato come una molla.
Era talmente sciocco e imprevisto il suo gesto che Bellatrix non aveva avuto modo di fermarlo. Le si era scagliato contro con tutta la furia che le sue gambette gli permettevano, facendola inciampare. Si erano ritrovati a lottare in un groviglio confuso di abiti e capelli e ciuffi d’erba, la ragazzina e il bambino. Lei gli aveva afferrato i polsi, bloccandolo, e lui si dibatteva forsennato come un’anguilla, tenendosi al contempo stretto stretto alla sua veste, con nessuna intenzione di mollare la presa. 
Mentre continuava quell’impari quanto strenua lotta, Sirius aveva sentito un suono squillante risuonargli nelle orecchie. Solo allora si era accorto che lei continuava a ridere. Non aveva mai smesso di ridere, da quando l’aveva attaccata. Continuava a farsi beffe di lui, dei suoi patetici tentativi di farle del male, quando non riusciva nemmeno ad avvicinarsi alla sua pelle. A un certo punto, però, qualcosa di duro e freddo si era puntato contro la gola di Sirius.
«Sai cos’è questa, piccolo?» aveva gorgogliato Bellatrix, soffocando una risatina nel profondo della gola. «Ne hai mai vista una?»
L’attenzione di Sirius era stata momentaneamente distolta. Certo che sapeva cos’era. Aveva già visto, e toccato, una bacchetta. Sapeva a cosa serviva. Sapeva che poteva sprizzare una vampata di scintille dalla punta, quella stessa punta che ora gli premeva più a fondo nel collo, provocandogli la sgradevole sensazione di un boccone troppo grosso che gli fosse rimasto incastrato da qualche parte lì intorno. Automaticamente, aveva smesso di agitarsi, immobilizzandosi.
Bellatrix aveva fatto una smorfia di approvazione. «Bravo, ragazzino. Non sei stupido come sembri, allora… Chissà, potresti persino essere un vero Black.»
«Io sono un Black. Mi chiamo Sirius Black» aveva ribadito con tono sicuro. Una delle poche certezze che aveva, nei suoi cinque anni di vita, era quella. Il suo nome. Gli veniva ripetuto fino alla nausea.
La ragazza aveva riso. Per un attimo Sirius si era perso nella visione dei suoi bianchissimi denti lucenti.
«Ma sentilo… So benissimo come ti chiami.» Un luccichio indefinibile le era vibrato in fondo alle pupille. «Anch’io sono una Black.»
Quella confessione aveva lasciato Sirius stupefatto e rigido come uno stoccafisso. I suoi genitori gli avevano insegnato che il nome dei Black era come una parola magica, una formula sacra. Tutto ciò che significava splendore, grandezza, dignità era intessuto in quel nome. E chiunque lo portasse era altrettanto degno di rispetto e venerazione. Ma se quella ragazza diceva la verità allora…
«Se ti chiami anche tu Black…» aveva esordito lentamente il bambino, aggrottando la fronte nello sforzo di pensare intensamente. «…allora noi… allora noi…»
«Siamo parenti, sì. Io sono tua cugina, Bellatrix. Vuoi ancora giocare con me, piccolo Black
Stavolta gli aveva premuto così forte la bacchetta contro  la pelle tenera della gola che Sirius si era sentito soffocare sul serio. Ma ciò che più l’aveva terrorizzato, in quel momento, non era stato il legno inanimato – così pericoloso, così vicino – della bacchetta, ma il bagliore che animava le pupille di lei. Due porte spalancate sull’inferno che risucchiavano verso profondità sconosciute, insondabili. Il suo viso era come trasfigurato da una diabolica gioia, eppure controllato, vigile, attento.
Erano rimasti così, immobili, ricambiandosi lo sguardo, per un secondo lungo tutta una vita. Sirius non sapeva cosa fare. Era una situazione completamente atipica per lui. Da una parte c’era la rabbia che provava per quella sconosciuta cugina, l’orgoglio offeso che urlava vendetta, dall’altra c’era la Regola Inviolabile dei suoi genitori: il nome dei Black è sacro, la Nobile e Antichissima Casata dei Black è intangibile. E poi c’era quella bacchetta piantata nella sua trachea. A farlo sentire vergognosamente indifeso…
Bellatrix all’improvviso lo aveva scostato bruscamente da sé, facendolo rotolare sul terreno. Si era rialzata scuotendosi la terra dalla veste, passandosi una mano nella chioma intricata. Gli aveva gettato appena uno sguardo al di sopra della spalla, mentre si allontanava. Un sogghigno compiaciuto le vibrava nella voce:
«E’ stato un piacere conoscerti, piccolo Black».

 
 


 
 
3. See you in Hell. Or maybe not?
 
 
 



Grimmauld Place, nr. 12
Ottobre 1972
 
 


[Sirius]
 
 

Negli anni a venire, Sirius aveva avuto poche occasioni di rincontrare la sua detestabile cugina maggiore. Ovviamente, non mancavano le cene ufficiali in occasione delle quali tutta la famiglia al completo si riuniva, intorno al lunghissimo tavolo di legno di noce, nell’oscuro salone al primo piano di Casa Black, al numero dodici di Grimmauld Place. 
Sirius odiava ferocemente quelle occasioni. Odiava essere costretto a prendervi parte. 
Quando poteva, sgattaiolava via, dileguandosi prima che qualcuno lo fermasse. Odiava starsene seduto tra i suoi orridi parenti ad ascoltarli sputare veleno e insulti su Babbani, Mezzosangue, traditori del proprio sangue. Sembrava non conoscessero passatempo migliore di quello. E lui era costretto a fare un enorme sforzo di volontà per dominare la collera che lo assaliva a tutto quel berciare. 
Se ne stava chino con la testa sul piatto, senza sollevare lo sguardo, gli occhi scintillanti di furia repressa, le dita che stringevano così forte le posate da sbiancare. Un tremito di rabbia lo percorreva, facendogli desiderare di spedire una maledizione su tutti loro: dovevano sparire tutti, voleva mandarli lontano, da dove non potessero più tornare, dove non potesse più udire le loro voci… Le loro insulse chiacchiere sulla purezza di sangue, sull’importanza che il potere magico venisse preservato e conservato attraverso matrimoni tra Purosangue, anche strettamente parenti, se necessario. Quello, a Sirius, suonava né più né meno che un abominio. Una mostruosità, quasi pari al progetto di schiacciare tutti i Babbani, ucciderne il maggior numero possibile e ridurre i rimanenti a schiavi dei maghi. 
Sirius aveva un sacco di amici a Hogwarts che erano Babbani di nascita o Mezzosangue. Il pensiero che facessero la fine orribile che i suoi parenti auspicavano gli faceva passare l’appetito.
Dall’altro lato del tavolo, sorprendeva a volte gli occhi di Bellatrix fissi su di lui. Lo fissava con una strana espressione: gli occhi socchiusi sotto le palpebre pesanti, scintillanti come gemme malevole. Lei sapeva che era arrabbiato e contrariato e che cercava disperatamente di controllarsi, e la consapevolezza del tormento cui era sottoposto, del suo conflitto interiore, le faceva sprizzare gioia maligna da tutti i pori. Lo guardava con quel sorrisetto soddisfatto, crudele, velenoso. 
E Sirius, ancora una volta, veniva assalito dal folle impulso di cancellarle quel ghigno dalla faccia con una bella Maledizione. Ma poi si ricordava che era troppo piccolo per fare Maledizioni e che comunque non era una cosa giusta. Ma era pronto a scommettere che sua cugina non si sarebbe fatta scrupoli di sorta a scagliargliene una addosso, magari anche alle spalle, per il puro piacere di coglierlo di sorpresa e fargli male e sentirsi in questo modo soddisfatta. Potente. Ciò che affascinava Bellatrix più di ogni altra cosa era il Potere. Quello con la maiuscola.
Era stato durante uno di quei pranzi interminabili e raccapriccianti, conditi da commenti sadici e sarcastici sul trattamento che sarebbe stato riservato ai Babbani quando Lord Voldemort fosse finalmente salito al potere, che era scoppiato.
«Meriterebbero di essere arsi vivi, come hanno fatto loro con noi fin dal Medioevo!» urlò sua zia Druella, battendo un pugno sul tavolo così forte che il vino schizzò dal calice d’argento che recava impresso lo stemma di famiglia, disegnando scie violacee sul ripiano lucido del tavolo.
«Sì, immagina la puzza…» Orion storse il naso, a metà tra il divertito e il disgustato.
«Io li metterei ai lavori forzati. Sono o non sono nostri schiavi?»
«Per quello abbiamo gli Elfi Domestici, Walburga. A proposito… dov’è quell’inutile feccia? Kreacher! Vieni qui!»
Con un sonoro crac, un Elfo Domestico dal brutto muso rincagnato che assomigliava terribilmente a un grugno di porco, apparve accanto al tavolo. Fece un inchino così profondo che andò a sbattere con la faccia sul pavimento. Nessuno gli disse di rialzarsi.
«Il Padrone ha chiamato Kreacher. Kreacher è venuto. Cosa desidera il Padrone?» chiese con voce untuosa,  senza sollevarsi da quella posizione.
«Portaci altro vino dalle cantine, Kreacher. Mi raccomando… il migliore che riesci a trovare. O farai i conti con me…»
«Come desidera il Padrone.» 
Kreacher scomparve con uno schiocco. Ritornò poco dopo, reggendo una pesante bottiglia che Orion si premurò di stappare e di mescere ai suoi convitati.
«Beh, la feccia ha la sua utilità.» Il sorriso di Cygnus lampeggiò minaccioso da sopra l’orlo del suo calice. Socchiuse gli occhi con espressione concentrata, mentre si bagnava le labbra del vino. «E’ ottimo, Orion. Che annata è?»
«1832. Imbottigliato da mio nonno. Ti ho tenuto da parte un paio di bottiglie.»
«Gentile da parte tua, cognato.»
Per un lungo minuto nessuno parlò. Tutti erano troppo occupati ad aggredire le splendide portate di cui il tavolo traboccava, schiacciato dal peso di enormi piatti e vassoi fumanti e succulenti.
Fu Walburga a rompere il silenzio, riportando la discussione sull’argomento che tanto li appassionava:
«Immagina tenere uno schiavo Babbano per casa… sarebbe uno spasso».
«O una croce. Ho sentito dire che sono molto stupidi e poco addomesticabili.»
«Oh, gliela farei vedere io a quelli là! Li piegherei in quattro e quattr’otto. Imparerebbero subito chi è che comanda e qual è il loro posto.»
«Potremmo usarli per far esercitare le ragazze con la Magia mentre sono a casa per le vacanze.» interloquì Druella. «Sarebbero ottimi come cavie.»
Sirius tremò sotto il tavolo e strinse ancora più forte forchetta e coltello, rifiutandosi ostinatamente di alzare lo sguardo. Sentiva che al minimo movimento sarebbe uscito dai gangheri e avrebbe infilzato sua zia come un pollo allo spiedo.
«Io ho un’idea migliore.» Era la voce di Bella. Fino a quel momento  non aveva preso parte alla conversazione, pur seguendola con vivo interesse. 
«E cosa faresti tu, sentiamo…» disse Orion, lanciando uno sguardo alla nipote mentre affondava il coltello nella grassa fetta di arrosto che aveva nel piatto.
«Li rinchiuderei tutti in delle riserve e darei il via libera alla Caccia. Allo scadere del tempo, chi è riuscito a ucciderne di più si porta a casa i sopravvissuti, come schiavi.»
Il silenzio calò per un attimo sulla tavola.
«Sai una cosa, Bellatrix? Non è affatto male come idea.» Orion la contemplò incuriosito, portando alle labbra il secondo calice di vino stagionato. «Tu sì che sei una Black, non c’è  dubbio.»
Sirius alzò lo sguardo per la prima volta. Non bisognava essere un genio per capire a chi fosse destinata la frecciatina di suo padre. Chi fosse la causa del suo scontento e della sua amarezza. La sua colossale delusione. Ma Orion non lo degnò di uno sguardo. Dopo aver ammiccato in segno di approvazione a Bella, abbassò gli occhi sul piatto e continuò a sezionare il suo arrosto con metodo, come se niente fosse. 
Schiumante di rabbia, Sirius spostò lo sguardo dall’altra parte del tavolo e inciampò negli occhi di Bella. Lo stava guardando. Gongolava. Anzi, era pura goduria quella che le illuminava da dentro i lineamenti. Si stava divertendo un mondo a provocarlo, a farlo sentire male, ci avrebbe messo la mano sul fuoco. La conosceva, ormai. E più la conosceva, più la odiava. L’aveva sempre odiata. Da quel lontano giorno in cui lei non si era fatto scrupolo di buttare giù dalla scopa un bambino di cinque anni e prendersi gioco di lui. Col tempo, sembrava aver raggiunto vette inimitabili di sadismo e perfidia. Era un concentrato di pura malvagità, sua cugina. Glielo leggeva negli occhi, puntati su di lui a trafiggerlo come spade avvelenate, godendo della sua rabbia, alimentando quella rabbia, come vento sul fuoco. No, se non se ne andava subito avrebbe fatto qualche sciocchezza.
Sirius si alzò di scatto, facendo stridere sgradevolmente la sedia sul pavimento. Forchetta e coltello caddero rumorosamente nel piatto. Gettò con rabbia il tovagliolo sul tavolo, allontanandosi senza voltarsi indietro, i pugni chiusi, le spalle contratte e tremanti d'ira.
«Ehi, tu! Dove credi di andare?» abbaiò sua madre, fissandolo con gli occhi sbarrati, incredula di fronte a cotanta mancanza di rispetto.
«Torna subito qui e comportati come si conviene a mio figlio! Te lo ordino!» sbraitò suo padre, alzandosi a sua volta.
Sirius non rispose e non si fermò. Sapeva che avrebbe pagato caro il suo gesto, ma al momento non gli importava. Dovette richiamare a sé ogni briciola di autocontrollo per trattenere le parole sarcastiche e velenose che gli si affollavano dentro. Quelle avrebbero sicuramente causato un danno ben peggiore.
«Orion, siediti. Lascialo perdere. La pagherà più tardi.» Walburga mise una mano sull’avambraccio del marito, ammonendolo con lo sguardo a non dare ulteriore spettacolo.
La tavola sembrava essersi raggelata di colpo. Mentre Orion si lasciava ricadere pesantemente sulla sedia, suo cognato Cygnus gli lanciò uno sguardo accigliato.
«Il ragazzo ha qualche problemino, a quanto vedo.»
«Intemperanze giovanili» minimizzò Druella. «Gli passeranno.»
«Oh, no. Io non credo» proseguì Cygnus, cupo. «Walburga, Orion, penso che dobbiate usare un po’ più le maniere forti col ragazzo. Raddrizzarlo finchè si è in tempo.»
«So perfettamente come educare mio figlio, Cygnus, ti ringrazio» commentò feroce Orion. Afferrò il calice di vino con tale violenza che se ne versò un bel po’ addosso, imprecando mentre una grossa chiazza purpurea si allargava sulla camicia di un bianco immacolato.
«Kreacher! Portami subito un panno pulito! Muoviti, inutile essere!»
«Ci penso io, zio Orion. Non c’è bisogno di scomodare quel mostriciattolo.»
Bella si alzò dal suo posto, facendo frusciare la lunga gonna nera dietro di sé. Voltò le spalle alla tavola e uscì dal salone senza far rumore. Ma non si diresse in cucina. Aveva sentito Sirius salire le scale e immaginò che si fosse diretto in camera sua. Fu lì che andò.
Sirius era sdraiato sul letto a pancia in aria, le braccia incrociate dietro la nuca, lo sguardo puntato al soffitto. La vista di Bella sulla soglia minacciò di fargli perdere anche l’ultima scintilla di autocontrollo che gli era rimasta.
«Che diavolo vuoi?» ringhiò, balzando a sedere e gettandole un’occhiata di fuoco. «Fuori dalla mia stanza!»
Bella ridacchiò. «Modera i toni, cuginetto. Questo tuo caratteraccio ti farà finire in qualche brutto guaio, prima o poi…» Si appoggiò con noncuranza allo stipite della porta, incrociò le braccia e lo guardò senza smettere di ghignare. «Che c’è? Il paladino dei diritti dei Babbani è stato offeso nella sua sensibilità?»
«Esci di qui» ringhiò Sirius a denti stretti, ricambiando il suo sguardo con furia. «Mi hai sentito.»
«Io non prendo ordini da nessuno!» Gli occhi di Bella lampeggiarono con ira. Si staccò dalla porta, facendo qualche passo avanti. «Tantomeno da un vile traditore del suo sangue come te!»
Sirius balzò in piedi come una molla. La rabbia era incisa su ogni tratto del suo viso. «Preferisco mille volte essere un traditore piuttosto che uno di voi. Il vostro sangue mi fa schifo!» sibilò, livido.
Il volto di Bella si indurì in una maschera di furia, a quelle parole. «Non osare insultare il sangue dei Black!» strillò, avvicinandosi minacciosa. «Tu… stupido piccolo ingrato, non capisci… Quei Babbanofili con cui te la fai ti hanno fatto il lavaggio del cervello… Oppure no? Sei sempre stato… anormale. Ho sempre saputo che non eri un vero Black. Tuo padre ha ragione, sei una vergogna per questa famiglia. Il disonore più grande che possa esistere.»
Gli voltò le spalle, con l’intenzione di piantarlo lì in asso. Ma Sirius non era così disposto a lasciarle l’ultima parola. L’afferrò per un gomito; dentro di lui ruggiva il desiderio di farle rimangiare tutto quello che aveva detto, di lavarle via dalla faccia quel ghigno soddisfatto… Si era dimenticato con chi aveva a che fare. Una frazione di secondo e si ritrovò la bacchetta di legno di noce di sua cugina puntata al cuore. Lei gli era così vicina da avvolgerlo con la sua nuvola di minacciosi capelli corvini. Aveva uno sguardo omicida.
«Cosa credi di fare?» gli sussurrò, con voce mortalmente bassa. «Se pensi che i tuoi modi da cavernicolo abbiano qualche effetto su di me ti sbagli di grosso. Sei solo un ragazzino spaccone che finge di essere un ribelle per attirare l’attenzione. Non è forse così, Sirius
Erano rarissime le volte in cui lo chiamava col suo nome. Lo pronunciò in un sibilo di scherno, sputandogli addosso una lettera dopo l’altra, intrise del più profondo disprezzo.
«Invece tu sì che sei una Black, vero, Bellatrix?» sogghignò a denti stretti Sirius, sostenendo il suo sguardo, a pochi centimetri di distanza, la bacchetta di lei ancora puntata sul suo cuore. «Ti dai tante arie, credi di essere migliore di tutti. E allora avanti, comportati da Black. Uccidimi, se ne hai il coraggio.»
Con sua sorpresa, un sorriso incurvò verso l’alto un angolo delle labbra di lei.
«Non sai quanto mi piacerebbe. Ma non ora. Verrà il momento in cui ti ucciderò, cugino. Ti prometto che lo farò. La mia faccia sarà l’ultima cosa che vedrai prima di finire all’Inferno, parola di Bellatrix Black.»
Quelle parole, pronunciate con tale odio, con tale ferocia, lo scossero. Per un attimo, scrutando nel profondo di quegli occhi nerissimi, Sirius si sentì sul punto di annegare. Sostenne il suo sguardo, cercando di individuare un barlume di luce nelle sue pupille, ma non c’era niente, assolutamente niente nel suo sguardo. Nessun lume di bontà. Solo pura malvagità. 
Si riscosse in fretta. Con un ghigno mascherò il profondo turbamento che provava dentro. Se c’era una cosa che aveva imparato, era mai mostrarsi deboli e impauriti con Bellatrix.
«Se andrò all’Inferno, ci vedremo lì, cara cugina. Sarò il tuo tormento per l’eternità.»
Le lasciò il braccio. Bella fece un passo indietro.
«Non credo che ci rivedremo lì. Anzi, sai una cosa? Non credo proprio che morirò.» C’era una luce strana nei suoi occhi mentre lo diceva. «La morte è solo una debolezza umana. Lui la sconfiggerà. E io sarò al suo fianco.»
Sirius la fissò accigliato e interdetto. «Che stai blaterando? Cosa vuoi dire?»
Un sorriso estatico aleggiava sul volto di Bella, trasfigurandola dall’interno. Sembrava che un fuoco le si fosse acceso dentro, facendo splendere ogni centimetro quadrato della sua pelle, mandando lampi attraverso gli occhi indemoniati. Indietreggiò lentamente, continuando a guardarlo con quell’aria di superiorità e scherno, poi girò sui tacchi e uscì dalla stanza, lasciandolo lì impalato, con un orrendo presentimento addosso che gli faceva accapponare la pelle.



 
 
 
 
4. The Black in White




 
Londra
Luglio 1975
 
 


[Sirius]
 
 

Sirius aveva quindici anni quando vide Bella per l’ultima volta, prima che si trovassero schierati uno contro l’altro, nemici giurati di una guerra aperta. Fu in occasione del matrimonio della cugina, pochi mesi prima che lui stesso tagliasse definitivamente i ponti con la sua famiglia e scappasse di casa. 
Il matrimonio, ovviamente, era stato combinato dalle rispettive famiglie: Black e Lestrange. Sirius non aveva mai avuto occasione, né voglia, di incontrare prima di allora il suo futuro cognato. Sapeva solo che era un rispettabilissimo Purosangue, che la sua famiglia apparteneva a una delle più ricche e antiche stirpi di sangue magico della Bretagna e che portava una nomea assai poco lusinghiera, sebbene non ci fossero prove concrete a supporto di quelle voci. Solo voci, appunto.
Avrebbe preferito fare qualsiasi cosa – anche ripulire cacche di drago con Hagrid, o andare a caccia nella Foresta Proibita – piuttosto che presenziare alla cerimonia. Ma, quando si era opposto, sua madre aveva avuto una vera e propria crisi di nervi che l’aveva lasciata tramortita e ansante come un mantice su una poltrona. Suo padre gli aveva sibilato che, se avesse fatto morire di crepacuore sua madre, l’avrebbe legato in cantina e scorticato vivo con le sue mani. Ma non erano state le minacce di suo padre o gli insulti di sua madre a farlo capitolare. Ormai non lo toccavano più. O quasi.

 


***

 

Stava seduto in camera sua a leggere un manuale Babbano sulla manutenzione delle motociclette, quando la porta si era aperta. Un rapido sguardo distratto aveva incorniciato Regulus sulla soglia ed era tornato alla carta con ostentata indifferenza.
«Che cosa c’è?» Non si era sforzato di mascherare l’aggressività nella voce.
Regulus non aveva risposto. Non era insolito, da parte sua. Si era limitato a guardarlo con espressione indecifrabile, con vaga aria di rimprovero e silenziosa accusa, prima di abbassare gli occhi.
«Se ti hanno mandato loro, puoi pure dirgli che non ho nessuna intenzione di farmi comandare a bacchetta. Non possono obbligarmi a fare ciò che non voglio. Se ci provano me ne andrò da questa casa per sempre.»
«Non sono qui per loro.» Regulus teneva le mani affondate nelle tasche, il mento basso. Gli lanciò una delle sue occhiate da sotto in su e tornò a fissarsi le scarpe.
«Ah, no? E per quale motivo, allora?» Sirius aveva chiuso con un colpo secco il libro, tenendolo in grembo mentre fissava cupo suo fratello.
Regulus aveva mosso qualche passo nella stanza. Si era avvicinato alla finestra e aveva guardato fuori, continuando a tacere. Sembrava improvvisamente molto interessato al paesaggio esterno, come dimentico della presenza del fratello e del motivo per cui era lì. Sirius notò che si teneva a debita distanza da lui e che evitava accuratamente di guardare, anche solo per sbaglio, le foto di ragazze in bikini che tappezzavano la stanza. Con somma  soddisfazione, si accorse di quanto stonasse suo fratello, piccolo, scuro, nervoso, silenzioso, in mezzo al tripudio allegro di oro e porpora degli striscioni di Grifondoro, che erano il suo vanto e la sua gioia. Si sentiva Grifondoro fino in fondo, a differenza di Regulus, che sembrava terribilmente un pesce fuor d’acqua in quell’ambiente a lui apertamente ostile.
«Allora? Hai intenzione di farmi perdere altro tempo o devo farti una fattura per scioglierti la lingua?»
Regulus sembrò riscuotersi. Finalmente distolse lo sguardo dalla finestra. Ma non lo puntò su di lui, bensì su un punto imprecisato del tappeto. Lì, almeno, non c’erano poster Babbani o spille rosso e oro.
«Devi venire al matrimonio di Bella.»
«Ah, sì? E come pensi di convincermi?» Sirius fece un sorriso storto, guardando suo fratello dall’alto in basso. «Con la forza?»
All’improvviso Regulus alzò gli occhi, fissando diritto nei suoi, con una determinazione che ben poche volte Sirius gli aveva visto e che lo lasciò per un attimo sconcertato e sorpreso.
«Tu vieni al matrimonio» ripetè lentamente Regulus, scandendo ogni sillaba. «Poi, potrai fare tutto quello che vuoi. Anche andartene di casa. Maledirci, se vuoi. Sarai libero. Nessuno ti fermerà.» 
Si diresse verso la porta, strascicando i piedi. Stava quasi per scomparire al di là della soglia quando la voce di Sirius lo fermò.
«Perché dovrei maledirvi?» C’era una sfumatura di curiosità nella sua voce.
Regulus si girò verso di lui, col solito sguardo indecifrabile, il volto ridotto a una maschera di imperturbabilità.
«Perché ci odi, no?»
Sparì, lasciandolo ammutolito. Per una volta.

 
***

 

E così Sirius c’era andato.
C’era stato qualcosa, nelle parole di suo fratello, che inspiegabilmente avevano ammansito la belva nel suo cuore. Anche se a malincuore, odiando se stesso e tutti coloro che lo circondavano, era andato al matrimonio della sua maledetta cugina. 
Lui e Regulus indossavano completi neri impeccabili, elegantissimi, che evidenziavano la somiglianza tra loro, a parte il fatto che Sirius aveva la mascella serrata e le narici dilatate, e sembrava un drago pronto a incenerire il primo che gli avesse rivolto la parola, mentre il fratello minore se ne stava immobile a crogiolarsi nell’abituale apatia, senza mostrare alcuna emozione particolare. 
Da quel giorno in cui era venuto in camera sua, Regulus non gli aveva più rivolto la parola. Niente di insolito, comunque. I due fratelli erano abituati a ignorarsi a vicenda.
Sirius aveva visto per la prima volta il promesso sposo di sua cugina. Rodolphus Lestrange era alto, con capelli e occhi neri che si accordavano perfettamente a quelli di un Black. Avrebbero quasi potuto scambiarlo per il loro fratello maggiore. Ma i suoi lineamenti, il suo portamento tradivano la sua origine esotica. Aveva la classe innata e la nonchalance tipicamente francesi. Quando lo sentì scambiare qualche parola con lo zio Cygnus, scoprì che parlava un inglese perfetto, senza alcun accento. A prima vista, non gli sembrò un individuo pericoloso. Era calmo. Composto. Quasi indifferente. Non gli fece alcuna impressione particolare. Ma, per aver accettato di sposare sua cugina, doveva non essere tanto a posto con la testa nemmeno lui. Uno che si legava per tutta la vita a Bellatrix Black non poteva essere sicuramente un santarellino o un mago con la coscienza pulita.
Come richiamata dai suoi pensieri, ecco che apparve sua cugina. Cygnus si era affrettato ad affiancarla, porgendole il braccio. La osservò cupo avanzare lungo la navata, la schiena perfettamente diritta, l’incedere altezzoso e freddo di una regina di ghiaccio. Peccato che Bella fosse sempre stata tutto fuorchè fredda. Chissà se il futuro marito sapeva a cosa andava incontro… Poverino, Sirius non lo invidiava certo. Quasi quasi cominciava a stargli simpatico, lo sventurato. 
Riportò lo sguardo su Bella. Tutti gli occhi erano fissi su di lei, come un gigantesco riflettore. Era lei la regina del palcoscenico. Tuttavia, guardandola in faccia, Sirius ebbe una spiacevole impressione: c’era la più totale indifferenza sul volto di solito così esageratamente vivo di sua cugina, la stessa indifferenza che aveva visto anche nello sguardo di Rodolphus. Sembravano due attori chiamati a recitare una parte che non li appassionava particolarmente, ma in cui si erano calati con cortese, educato distacco. 
Quando fu ai piedi dell’altare, il braccio di Rodolphus si sostituì a quello di Cygnus senza che né lui né Bella facessero una piega. Si voltarono entrambi verso l’officiante senza nemmeno guardarsi negli occhi. Sirius non potè non provare un senso di pena a quella vista. Come facevano quei due a ignorarsi in quel modo quando stavano per unire le loro vite per sempre? Sembravano due perfetti estranei. C’era talmente tanta freddezza tra loro che Sirius se ne sentiva gelato anche a distanza. 
Mentre li osservava giurò a se stesso che nessuno lo avrebbe costretto a sposarsi contro il suo volere. Piuttosto, avrebbe preferito morire. 
Ma Bella… non poteva credere che l’avessero costretta, che davvero non avesse avuto scelta. Possibile che quel Rodolphus non le piacesse neppure un po’?
Si riscosse improvvisamente da questi pensieri quando la musica partì. Si diede mentalmente dello stupido: ora si inteneriva nei confronti di sua cugina? Quella pazza sanguinaria che non aveva fatto mistero di volerlo uccidere, anni prima… 
La musica gli faceva venire il voltastomaco. Troppo dolciastra, nauseante, come un budino andato a male. 
Con un ghigno, vide che la stessa espressione schifata era apparsa sul volto di Bella. Doveva sentirsi come una tigre in gabbia, immaginava. Costretta in un abito che odiava. Era vaporoso, con un lungo velo e uno strascico ancor più lungo. Così candido, faceva un enorme contrasto con i capelli e gli occhi neri. E con le labbra, di un rosso acceso. Per il resto, il pallore della sua carnagione era tale da confondersi quasi con il colore dell’abito. Non poté trattenere un altro ghigno. Bella odiava il bianco e poteva solo vagamente immaginare quanto poco sopportasse di indossarlo. Per non parlare del bouquet di rose bianche che stringeva in mano, così forte come se volesse strangolare qualcuno. Bella odiava i fiori. Odiava il loro profumo zuccheroso. Odiava la musica. Odiava la felicità. Probabilmente, odiava l’uomo al suo fianco. Di sicuro, quello era il giorno più brutto della sua vita.
Ben le sta. Se lo merita. È perfida.
Ma, mentre lo pensava, si accorse di non pensarlo veramente. Era terribile, Bella, sì, ma non avrebbe augurato nemmeno a lei di dover condividere tutta la vita con uno sconosciuto per cui non provava nulla. Era una schiavitù simile a quella di un Elfo Domestico, quella imposta dalle leggi dei Purosangue. 
Per la seconda volta si ricordò mentalmente di buttarsi giù da una rupe, se qualcuno avesse tentato di fare lo stesso con lui.


La cerimonia sembrò non finire mai. Sirius cominciò a sentire caldo. La cravatta lo stringeva al collo. Il sangue gli pulsava nelle tempie. 
L’odore dei fiori era talmente forte e penetrante da soffocarlo. Avrebbe più di tutto voluto uscire, respirare un po’ d’aria fresca, ma l’occhiata che gli lanciò sua madre gli fece capire che non era il caso di causare una scenata in quel momento.
Beh, almeno avrebbe movimentato un po’ l’atmosfera, pensò maligno. Avrebbe rovinato il matrimonio di Bella. Non che le sarebbe dispiaciuto, immaginava.
Rimase al suo posto, insolitamente docile, aspettando che il rito terminasse, pensando nostalgico a del succo di zucca ghiacciato che avrebbe potuto alleviargli l’arsura alla gola. E finalmente, dopo quella che gli parve un’eternità - molto più di qualsiasi lezione di Storia della Magia, che era la materia più noiosa ed estenuante in assoluto - gli giunsero, attraverso la nebbia ovattata che gli foderava il cervello, le parole:
«Può baciare la sposa».
Si riscosse, come se qualcuno gli avesse dato un pizzicotto, giusto in tempo per vedere Rodolphus e Bella avvicinare i visi e le loro labbra congiungersi. Si era aspettato un formale sfiorarsi delle labbra, perciò fu oltremodo stupito quando invece la sposa afferrò per il bavero lo sposo e cominciò a divorargli la bocca davanti agli sguardi scandalizzati dei presenti. 
Sirius gettò un’occhiata di striscio agli zii e dovette soffocare un ghigno: Druella e Cygnus sembravano pietrificati. Avevano gli occhi sbarrati fissi sulla loro figlia e sul genero, talmente assorbiti nella loro “attività” da sembrare totalmente ignari dello scompiglio che stavano suscitando. 
Nonostante detestasse sua cugina, Sirius dovette riconoscere che, quando voleva, sapeva come mandare i Black fuori dai gangheri. Era sempre la solita. Provocatrice come sua abitudine. In quel momento non poteva non stimarla per l’ennesimo schiaffo morale che stava dando ai suoi genitori e a secoli di tradizione impeccabile.
Beh, forse non sarà proprio un matrimonio infelice, allora… ridacchiò  dentro di sé. Gli sposini avevano trovato qualcosa per ingannare il tempo, a quanto pareva… Sciamarono tutti fuori dalla chiesa. Per ultimi venivano gli sposi. 
Sirius si fece largo nella pioggia di riso e di congratulazioni urlate a gran voce, fino a trovarsi alle spalle di sua cugina. Si sporse a sussurrarle all’orecchio: «Auguri e figli maschi, signora Lestrange».
Con un sorriso sarcastico le voltò le spalle, fendendo la folla.
Gli occhi assassini di Bella lo seguirono mentre si allontanava.
 

 
 

 
5. Where no Hope’s left
 
 


 
Prigione di Azkaban
Mare del Nord
Dicembre 1981


 
 
[Sirius]
 
 

Quando ebbe occasione di rivedere Bella, molte cose erano cambiate. Tutto era cambiato. Sia lui che lei non erano gli stessi di prima. Le vite di entrambi erano rovinate, spezzate, perdute.
Sirius era da un mese ad Azkaban quando gli parve di udire una voce familiare. Pensò fosse impazzito. Pensò che i Dissennatori gli avessero tolto anche quel po’ di sanità mentale che gli rimaneva, e che ora sentiva voci nella sua testa. In particolare una voce. Gli suonava familiare, eppure non riusciva a collegarla a un nome, a un volto. Era una voce di donna. Gli causava una stretta alla viscere, senza potersene spiegare il perché.
Mosso dalla curiosità, strisciò fino alle sbarre della cella. Davano su uno dei lunghissimi, infiniti, angosciosi corridoi di Azkaban, fatti di pietra viva, nera e lucida perché stillante acqua, limacciosa, scavata nelle viscere stesse della terra. Su quei corridoi, che si intersecavano gli uni con gli altri in un labirinto da incubo da cui era difficile uscire, si affacciavano i rettangolini di migliaia e migliaia di celle, che ospitavano altrettanti corpi di dannati, come un alveare parecchio affollato.
Azkaban era un posto terribile… Il più terribile che mente umana potesse concepire. Il peggio del peggio. 
Era enorme, prima di tutto. Sufficientemente grande da contenere tutto il marciume del mondo magico, sepolto vivo su quell’isoletta sperduta nel gelido mare del Nord. Tutto lì era nero come giaietto, compresa la terra. Tutto era intriso del puzzo di decomposizione e morte. Tutto appassiva, sfioriva, imputridiva sotto il fiato agghiacciante dei Dissennatori. Pattugliavano l’esterno e l’interno della prigione. Passavano circa una decina di volte al giorno davanti a ogni cella, scivolando silenziosi e orripilanti lungo i corridoi, messaggeri di morte, fantasmi raggelanti. Il buio vacuo sotto i loro cappucci risucchiava direttamente nel cuore dell’inferno. 
Ogni tanto si fermavano davanti a una cella, sospesi a un passo dal pavimento, e infilavano tra le sbarre una ciotola di ferro, il cui tintinnio echeggiava sinistro. Pochi erano quelli che continuavano a nutrirsi volontariamente. 
Quando i Dissennatori si avvicinavano alle sbarre, il malcapitato ospite si ritraeva nell’angolo più lontano possibile da esse, gemendo e singhiozzando, raccogliendosi le ginocchia al petto, scosso dal tremito, finchè l’ombra non passava e il cappio di terrore non si allentava.
Ma era un incubo senza fine. Una tortura continua. Uno stillicidio che scandiva l’agonia. Una morte lenta ma inevitabile.
Azkaban echeggiava giorno e notte di urla. Urla disumane, atroci, da far rizzare i capelli sulla nuca, urla di gente torturata dai propri pensieri di infelicità e disperazione. E poi pianti continui, lamenti, nenie, si fondevano in un unico canto di scoramento e prostrazione, come l’uggiolio perpetuo di un cane bastonato a morte.
C’era dolore, c’era disperazione, c’era condanna. 
Molti si scagliavano con la testa contro le mura o le sbarre fino a fracassarsela, trovando in tal modo liberazione dalla realtà. 
Alcuni si lasciavano morire di fame e di sete. Altri si impiccavano con le stesse divise cenciose che indossavano. Quasi tutti recavano i segni di graffi e morsi. Se li procuravano da soli, quando non c’era altra via di uscita alla solitudine delle proprie teste che punire e flagellare il proprio corpo. Alcuni tentavano di cavarsi gli occhi e, non riuscendoci, si strappavano i capelli a ciocche. Tutti erano scheletri viventi, tenuti insieme da chissà quale miracolo divino che ingiungeva alle membra snervate di continuare a muoversi. Le divise a righe bianche e nere ballavano addosso a quelle orride marionette che, scalze, ognuna murata nella sua cella, condividevano la medesima dolorosa rassegnazione.
Azkaban era divisa in quattro ali: Nord, Sud, Est e Ovest. E poi c’era l’ala di massima sicurezza, destinata ai criminali più pericolosi, quelli che venivano tenuti sotto stretta sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro. Sirius si trovava in quest’ultima. Era il prigioniero numero 8371. Gliel’avevano tatuato sul braccio. La sua matricola era anche il numero della sua cella, che si trovava al secondo piano, corridoio numero 3. Per giaciglio aveva solo il nudo pavimento di pietra umida. Una minuscola feritoia si apriva in una parete: affacciava sul mare del Nord, nero e agitato, illuminato di tanto in tanto da scoppi di lampi. 
Pioveva sempre su Azkaban. 
Un temporale dopo l’altro, di quelli che scuotevano le fondamenta, con il vento che urlava e si gonfiava nella più piccola crepa dei muri, penetrando fin nelle ossa. La furia degli elementi si accaniva con particolare sadismo sulla prigione dei Maghi, al di sopra della quale il cielo era sempre ingombro di nubi e l’aria livida e opprimente. 
Le ore di luce erano scarsissime. La notte calava in fretta. Sembrava un susseguirsi ininterrotto di buio senza speranza.

 
Era appunto trascorso circa un mese – Sirius non ne era sicuro, perché contare al buio le tacche che aveva inciso sul muro, scheggiandosi le unghie, era alquanto difficile – quando sentì quella voce. E, per la prima volta da quando era entrato in quell’incubo, avvertì una sensazione diversa dentro di sé. Un brevissimo palpito di vita.
Sirius si era ormai abituato alle urla dei disperati che entravano per la prima volta ad Azkaban, spesso per non uscirne mai più se non da morti. Se solo avesse voluto, incollando il viso alle sbarre, avrebbe potuto guardare in faccia quegli sfortunati, quando venivano costretti a entrare nelle celle e lì venivano rinchiusi a doppia mandata. Non riusciva a provare pietà per loro. Non riusciva a provare nessun sentimento positivo. Azkaban gli risucchiava tutto, lasciandosi dietro solo pelle e ossa, apatia e disperazione,  e la fredda rassegnazione che precede la morte.
Ma quel giorno la curiosità fu più forte di lui. 
Avanzò carponi fino alle sbarre, trascinandosi sulle ginocchia lacerate. Appoggiò la fronte al ferro gelido e sbirciò il lungo corridoio, perlustrando a destra e a sinistra in cerca della proprietaria della voce che, curiosamente, sembrava aumentare e diminuire di volume, come se provenisse da una radio mal sintonizzata.
Era sicuro che fosse una donna. La donna urlava. Ma non di paura o di dolore. Era quello che aveva spinto Sirius a gettare un’occhiata, oltre al fatto che quella voce gli ricordava qualcuno, anche se non sapeva dire chi. Tutto il suo passato sembrava essere stato spazzato via,nel momento in cui lo avevano gettato in quel buco, a morire come un topo.
Si concentrò. 
E poi un suono che non aveva udito da molte vite, che mai, mai era stato udito prima di allora lì ad Azkaban, risuonò in quel covo di disperazione e di terrore. 
Ma no, era impossibile, se lo stava immaginando… 
Ma quel suono continuava ad echeggiare, rimbalzato ed amplificato contro le mura scivolose e umidicce, rompendosi in mille echi e rimbombi nei corridoi vuoti, sotto le volte abissali. 
Era una risata. Una risata che faceva gelare il sangue nelle vene. Perché poteva appartenere solo a un folle.
Una lenta consapevolezza si fece strada in lui. Forse sapeva di chi si trattava… Si afferrò stretto alle sbarre, facendo leva sulle braccia smagrite per sollevare di più il capo e guardò giù.
Non poteva vederli, ma in quel momento i cancelli spettrali di Azkaban si stavano chiudendo silenziosamente, come fauci assassine, dietro un gruppo di nuovi prigionieri. Questi vennero scortati difilato all’ala di massima sicurezza. Quando furono all’imbocco del corridoio numero 3, quello su cui aggettava la cella di Sirius, finalmente li vide. 
In mezzo ai Dissennatori che li scortavano, Sirius contò quattro persone incatenate le une alle altre. Erano a viso scoperto, perciò poteva vederli bene.
Il suo sguardo cadde su un piccoletto, un ragazzino, bianco come la morte, con un ciuffo di capelli color paglia. Tremava così violentemente che non riusciva a reggersi in piedi, tanto che due Dissennatori lo avevano afferrato sotto le braccia per sostenerlo. Ma la loro vicinanza sembrava terrorizzarlo ancora di più, soffocargli le parole in gola. Non riusciva a emettere suono, ma piangeva disperatamente e i suoi occhi erano sbarrati in incredulo terrore. Al suo fianco c’era un uomo dai capelli neri che a Sirius sembrava vagamente familiare. Quando spostò lo sguardo su quello immediatamente a destra ricordò dove l’avesse già visto. Uno era Rabastan e l’altro Rodolphus Lestrange. E accanto a Rodolphus c’era… 
Sì. Era lei. La risata proveniva dalla sua bocca.
Mentre avanzava diritta diritta tra le braccia della morte, Bellatrix rideva. Perfino nell’istante che sanciva il suo ingresso nel girone dei dannati, rifiutava il dolore.
La sua testa era ben eretta sul collo come Sirius l’aveva sempre vista, come al giorno del suo matrimonio. I suoi occhi sembravano smisurati e folli, più di quanto fossero mai stati.

 
Più tardi, sarebbe giunta notizia a Sirius del crimine che aveva portato i quattro in cella. Avevano torturato fino alla pazzia l’Auror Frank Paciock e sua moglie Alice. 
Provò un moto di autentico odio. Conosceva Frank e anche Alice. Erano stati suoi compagni a Grifondoro. Erano tra le persone più miti e gentili che avesse mai incontrato. Ricordando il viso tondo di Alice Paciock e gli occhi serenamente pensosi di suo marito, il cuore gli sprofondò. 
Se la immaginava, oh sì che se la immaginava Bella, troneggiare su di loro bacchetta in pugno, scagliare una Cruciatus dopo l’altra finchè non erano stati svuotati di ogni barlume di coscienza. Probabilmente avevano dovuto fermarla, trattenerla con la forza, per impedirle di annientare totalmente quei due poveretti. 
Era proprio il genere di cosa che avrebbe potuto fare. 
Una rabbia sorda lo travolse, facendolo sentire vivo per la prima volta da quando aveva messo piede lì dentro.

 
Quella notte sentì le urla del ragazzino con i capelli color paglia che era arrivato insieme a sua cugina. Le sue grida salivano come vapori invisibili, perdendosi verso i soffitti remoti della prigione. Sirius lo sentì invocare sua madre, a più riprese, ma la pietà che aveva provato per lui vedendolo entrare si era congelata quasi subito sotto il fiato di morte dei Dissennatori, lasciandolo nuovamente vuoto e torpido. 
Però aveva smesso presto di agitarsi. 
Straordinariamente presto.

 


 
 
6. You can do better. Really, Sirius?
 
 


 
Camera della Morte
Ufficio Misteri
Ministero della Magia
Giugno 1996
 


 
[Bellatrix]
 
 

No. Stavolta non ti permetterò di mettermi i bastoni tra le ruote, odioso cugino. Stavolta vincerò io. 
Sono a un passo dal prendere la Profezia. La porterò al mio Signore e lui mi ricompenserà oltre ogni immaginazione. Non sarete né tu né l’insignificante Potter a rovinarmi il momento che aspetto con ansia da così tanto tempo. Stavolta non fallirò, lo sento.
Non mi ci vuole molto per sbarazzarmi della Mezzosangue di mia nipote. Farò i conti con lei in un altro momento.
Ti vedo corrermi incontro e un ghigno mi si allarga sul viso.
Sì, bravo, vieni qui. Vieni a giocare. 
Proprio come quando eri un moccioso presuntuoso e ti buttai giù dalla scopa. Ma stavolta ti farò molto più male.
«Vuoi giocare, cugino?»
La mia bocca non smette di ridere. 
Salazar! quanto ho atteso questo momento. La resa dei conti. Io e te. Io e il maledetto che mi ha rovinato la vita con la sua nascita. 
Ma non preoccuparti, ci penserò io a rispedirti nell’inferno da dove sei venuto. Ho giurato di ucciderti tempo fa, te lo ricordi? E Bellatrix Black non viene mai meno alla parola data.
«Sei venuto a salvare la pelle al tuo figlioccio, cugino? Potevi benissimo risparmiartelo, non se la caverà stavolta il piccolo, piccolo Potter.» Rido mentre devio la Maledizione che mi ha scagliato con rabbia. «Piangerai quando il Signore Oscuro lo ucciderà come un verme?»
Un getto di luce scarlatta si infrange contro il Sortilegio Scudo che ho evocato appena in tempo per proteggermi. 
Bene, bene. Non c’è dubbio che si stia scaldando, il traditore. Le mie parole devono fargli più male di quanto lasci trasparire.
«Oh, aspetta…dimenticavo! Tu non assisterai allo spettacolo, cugino, perché ti uccido. Adesso.»
Mi scaglia un incantesimo dopo l’altro, costringendomi ad indietreggiare sulla piattaforma al centro della stanza, in direzione di un  arco con un velo nero che si muove come dotato di vita propria.
Intorno a noi la battaglia infuria più ruggente che mai, ma nessuno dei due ci fa caso. Siamo troppo presi l’uno dall’altra, troppo impegnati con ogni nostra energia a spedirci maledizioni e fatture, cercando di farci più male possibile. Ma siamo entrambi duellanti esperti: finora nessuno dei due si è lasciato cogliere alla sprovvista. 
Diciamo che fino a questo momento l’ho lasciato attaccare, limitando a difendermi, provocandolo con le parole e godendomi le sue reazioni violente. Mi sto divertendo un mondo, non c’è che dire. 
Ma ora è il momento di dargli una lezione. Di dimostrargli, ora come allora, chi è il vero Black tra noi due. Chi è veramentedegno. 
Con la coda dell’occhio scorgo un’alta figura vestita di grigio piombare dall’alto sulla battaglia, e i miei compagni più vicini urlare avvertimenti. Ma non m’importa. Non m’importa chi è, che cosa sia venuto a fare. L’unica cosa che vedo è il mio maledetto cugino, che ha i miei stessi occhi, i miei stessi capelli, persino il mio stesso ghigno stampato sulla faccia, schivare il fiotto di luce rossa della mia bacchetta e deridermi.
«Avanti, puoi fare di meglio!»
Se c’è una cosa che odio è essere presa in giro. Soprattutto da lui.
Gli sparo addosso, fulminea, un secondo getto. So che non farà a tempo a schivarlo, stavolta.
Il suo corpo si solleva e ricade al di là del velo.
Poi più niente.
"Vuoi ancora giocare con me, piccolo Black?"
Te l’ho promesso molti anni fa che il mio volto sarebbe stata l’ultima cosa che avresti visto, prima di finire all’Inferno. Bellatrix Black non tradisce mai le sue promesse.
L’urlo di trionfo echeggia nella vasta stanza. Proviene dalla mia bocca. 
Sono fuori di me dalla gioia.
Ora non ridi più, eh, cugino?


 


 
 
Fine

  
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