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Autore: Silvar tales    30/12/2012    5 recensioni
Attraversò New York cercando di evitare le giubbe rosse, non era nelle condizioni né fisiche né tantomeno psicologiche di combattere.
Camminò a testa bassa, tenendo il cappuccio abbassato sugli occhi.
La gente, la folla, i profili delle case, i rumori della città gli arrivavano alle orecchie e agli occhi come distanti e ovattati, come un unico e confuso rimbombare.
In quel paese devastato vedeva le laceranti ferite della guerra, interi quartieri rasi al suolo dai bombardamenti, gruppi di poveri ragazzini che tentavano di rubacchiare qualche mercante, e che spesso e volentieri si beccavano una fucilata in testa. Rivolte mozzate nel sangue, negli spari, nell'oppressione della Corona.
Connor strinse i denti.
Non poteva tollerare una tale ingiustizia, una tale offesa contro la natura.
Nessun animale sarebbe in grado di compiere simili crudeltà verso i propri simili.
Nessun animale tenterebbe di uccidere il proprio figlio.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Un Mondo in Pace



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La sua mano stringeva, stringeva senza alcuna pietà.
Quelle dita spinte tanto a fondo gli mozzavano il respiro, gli ostruivano la trachea.
Non aveva nemmeno le forze di divincolarsi, di provare un poco ad opporsi. Ma trovò il modo di liberare una mano, quella armata.
Per Haytham fu la fine.
La lama di Connor scattò, veloce e precisa, e affondò nel suo collo.
Non si rese immediatamente conto di quello che era successo, aveva agito secondo un primordiale istinto di sopravvivenza, un istinto primitivo instillato nella sua indole fin dal primo decennio di vita, in cui aveva dovuto imparare a difendersi dalla natura selvaggia.
Vide il proprio padre barcollare all’indietro, tenendosi una mano sul collo sanguinante.
E guardando il suo volto morente, ascoltando le sue ultime parole, sperò. Una folle e ottusa speranza gli attraversò la mente, la speranza che Haytham gli confessasse di averlo amato, di avergli voluto bene, almeno una volta nella sua vita.
La speranza di non aver trascorso l’adolescenza completamente orfano, ma di aver avuto un altro genitore oltre a Kaniehtì:io. Un genitore che non fosse soltanto biologico.
Era un pensiero infantile, ammise a se stesso. Achille l’avrebbe rimproverato fino alla morte.
«Addio, padre».

Attraversò New York cercando di evitare le giubbe rosse, non era nelle condizioni né fisiche né tantomeno psicologiche di combattere.
Camminò a testa bassa, tenendo il cappuccio abbassato sugli occhi.
La gente, la folla, i profili delle case, i rumori della città gli arrivavano alle orecchie e agli occhi come distanti e ovattati, come un unico e confuso rimbombare.
In quel paese devastato vedeva le laceranti ferite della guerra, interi quartieri rasi al suolo dai bombardamenti, gruppi di poveri ragazzini che tentavano di rubacchiare qualche mercante, e che spesso e volentieri si beccavano una fucilata in testa. Rivolte mozzate nel sangue, negli spari, nell’oppressione della Corona.
Connor strinse i denti.
Non poteva tollerare una tale ingiustizia, una tale offesa contro la natura.
Nessun animale sarebbe in grado di compiere simili crudeltà verso i propri simili.
Nessun animale tenterebbe di uccidere il proprio figlio.

Raggiunse la frontiera sul calar della notte.
Per il primo tratto, frequentato da interi branchi di lupi affamati, aveva ritenuto saggio rimanere in sella al cavallo che aveva preso sul limitare della foresta, ma poi l’aveva abbandonato lungo la via, deciso a lasciare il sentiero e ad inerpicarsi sui pendii montani.
Era balzato sul primo albero agibile, ed aveva percorso un ampio tratto tra i rami.
La luna brillava in un cielo spoglio di nuvole. I lupi ululavano, felici. La foresta sussurrava al suono del vento, s’inchinava docile al suo passaggio.
Connor si fermò su un nudo sperone di roccia che dominava la valle sottostante, respirando profondamente nel tentativo di riprendere fiato. Il petto gli doleva, era come se fosse allagato, come se stesse cercando di gonfiare i polmoni sott’acqua. Annaspava, più che respirare.
Aveva corso a più non posso, fermandosi di tanto in tanto solo per prevenire possibili aggressioni di puma, felini che prediligevano zone rocciose come quella.
Si tolse il cappuccio e cadde in ginocchio, chiudendosi le braccia attorno alla pancia e tossendo, cercando disperatamente di inghiottire le lacrime, di sputarle, di vomitarle piuttosto che di piangerle.
Ma una volta che un rivolo salato gli solcò la guancia, non ci fu modo di bloccare i seguenti.
Pianse come un bambino, piegato in ginocchio davanti al suo tomawahk che per la frustrazione aveva piantato nel terreno. Era ancora insanguinato. Sporco del sangue paterno, del suo stesso sangue.
Tremò da capo a piedi, la sua schiena e le sue spalle erano scosse da violenti singulti.
Tuttavia, quel pianto liberatorio si rivelò un’ottima valvola di sfogo, un’ancora nel mare gelido in cui era naufragato.
Achille, colui che oramai considerava il suo vero padre, l’aveva previsto. Aveva previsto la sua debolezza d’animo, la sua volontà vacillante di compiere un gesto così snaturato e sbagliato.
Ma Connor aveva sperato che ci fosse un’altra soluzione, un’altra via d’uscita. Aveva addirittura pensato di poter voler bene ad Haytham, e proprio quando le sue speranze stavano diventando convinzioni, Haytham aveva rivelato la sua vera natura, che fino a quel momento aveva nascosto dietro atteggiamenti ambigui nei suoi confronti. Aveva tentato seriamente di ucciderlo, senza risparmiarsi colpi.
Connor non aveva mai creduto che facesse sul serio, credeva di significare qualcosa per lui, fosse anche la più infima scintilla. Invece era sempre stato un essere del tutto insignificante ai suoi occhi, un essere che non era neppure degno di chiamarsi figlio, un selvaggio, un ibrido, uno sbaglio. Qualcosa di imprevisto nella fredda logica dei suoi piani.
Infine aveva sperato che sul punto di morte si facesse prendere dai rimpianti, che mostrasse affetto davanti al suo unico erede, benché avesse abbracciato un Credo opposto al suo.
Speranze che si rivelarono dolorosamente un miraggio.

Connor si passò una mano sul viso e, barcollando, si resse in piedi.
Il vento soffiava a suo favore, come se volesse incitarlo a seguire la strada della luna.
Assurdamente, si ritrovò a sorridere, con ancora le tracce secche delle lacrime che gli attraversavano le guance.
Ora per lui era finita un’epoca, e una nuova età stava per rivelarsi davanti al suo cammino.
Era tempo di scrollarsi di dosso i fatti passati, era tempo di cicatrizzare le ferite e rinchiuderle nei profondi meandri della memoria.
Era tempo di iniziare a perseguire la propria libertà.







*






«Papà!»
Connor scattò, ridendo. Scavalcò un masso, corse a semicerchio a braccia aperte e braccò il bambino che tentava inutilmente di scappargli.
«Sei lento, sei lento», rise scompigliandogli i capelli e bloccandolo a terra. Si rotolarono un po’ tra l’erba come cuccioli d’orsi.
Il bimbo lottava ancora per liberarsi dalla sua stretta, senza ovviamente riuscirci.
«Stai barando! Tu sei grande e grosso. Aspetta che cresca e… sarò io il più bravo!»
«Non vedo l’ora», disse Connor alzandosi in piedi e spazzandosi l’erba dai vestiti. Annusò l’aria e tese le orecchie, assicurandosi che nei dintorni non ci fossero pericoli.
Un sole rosso e morente illuminava le creste degli abeti, gli animali iniziavano a saltare fuori dalle loro tane in cerca di cibo, gli uccelli si bagnavano nelle pozzanghere, agitando contenti le ali.
La foresta era stridente di vita.
«Ora andiamo Nawkaw, abbiamo promesso al tuo fratellino di non rimanere troppo in giro».
Raccolse le armi che aveva abbandonato tra l’erba, l’arco, la faretra e il tomahawk, e prese il bimbo per mano. Scesero il pendio seguendo un sottile sentiero di caccia, diretti alla valle Mohawk.
Nawkaw sbuffò, trotterellando malvolentieri al fianco del padre. «Hahnee è troppo piccolo, cosa vuoi che capisca delle tue promesse».
Connor assottigliò gli occhi e strinse più forte la mano del figlio. Nawkaw sapeva che faceva così quando stava per arrabbiarsi. Allora abbassò la testa e gonfiò le guance, cercando di evitare guai.
Nawkaw era diventato parecchio impertinente da quando sua madre era morta dando alla luce Hahnee.
Connor poteva capirlo. Aveva vissuto i suoi sei anni di vita con la madre, e lui non aveva potuto vederlo crescere, impegnato in un incarico oltremare che gli aveva portato via interi lunghi anni.
Non l’aveva neppure visto nascere, e d’altronde all'epoca nemmeno sapeva che Cha'kwaina fosse incinta di suo figlio.
Quando era tornato al villaggio, ansioso di rincontrarla, aveva trovato un maschietto di tre anni ad aspettarlo.
Simile a lui in tutto e per tutto.
Aveva accolto la notizia con immane felicità, ma anche con grande dolore. Di lì a poco sarebbe dovuto partire nuovamente, costretto a lasciare il figlio un altro anno senza un padre.
Poi aveva cercato di essere più presente, aveva cercato di tornare nella valle almeno una volta al mese, e talune volte vi si era intrattenuto anche per delle settimane. Ma ormai, aveva notato con dolore, era diventato difficile stabilire un legame profondo con il figlio.
Così aveva deciso.
Aveva deciso che, per porre riparo ai suoi errori, gli avrebbe dato un fratello. Un fratello che stavolta avrebbe accudito fin dai suoi primi giorni di vita.
Connor e Cha'kwaina lo avevano cercato a lungo, e infine, nel periodo dei lunghi freddi, Cha'kwaina si era avvicinata al ragazzo e gli aveva fatto notare con gioia il lieve rigonfiamento del suo ventre.
L’Assassino, ormai scoraggiato, l'aveva sfiorato con mani incredule e tremanti, sentendo la pancia della donna calda sotto le sue dita. Incredibilmente calda, benché fossero immersi nel gelo invernale.
Quello fu uno dei momenti più felici della sua vita. E sentiva che anche Nawkaw, che aveva ormai compiuto i sei anni, era contento dell’arrivo di un fratello, o di una sorella.
Ma poi le cose non erano andate come previsto.
Cha'kwaina era morta tentando di dare alla luce il bambino, e Connor l'aveva guardata spirare con le mani sporche di sangue.
Tutto il villaggio aveva accolto l’accadimento con grande stupore e sofferenza, le morti di parto erano rare tra i Mohawk, sembrava che la natura fosse a tal punto benevola con loro da assecondare tutto ciò che accadeva in suo nome.
Ma non stavolta.

«Hai fame?» Domandò benevolo rivolto al figlio.
Nawkaw scosse la testa, tuttavia la sua pancia brontolava.
La paura di Connor era che Nawkaw diventasse malevolo nei confronti del fratello, che lo ritenesse la causa della morte di Cha'kwaina. Se c’era una responsabilità, quella era soltanto sua e del suo gesto egoista.
Arrivarono al villaggio sul calar della sera.
Connor entrò nella capanna dove una donna fidata si prendeva cura di Hahnee.
«Bentornato Ratonhaké:ton».
Il ragazzo ricambiò il saluto. «Lascia ora, me ne occupo io. Grazie».
Nawkaw sbuffò, sedendosi per terra e incrociando le braccia. Connor lo guardò di sottecchi.
«Lo so cosa stai pensando, ma io sono certo che non appena Hahnee crescerà e comincerete a giocare insieme, cambierai idea».
Passarono la serata attorno al fuoco cercando di essere allegri, cercando di ridere e scherzare su qualsiasi cosa. Più di tutti, Nawkaw rimaneva affascinato quando Connor gli raccontava le sue avventure, le sue storie, magari tralasciando i particolari più scabrosi. Era ancora troppo ingenuo per conoscerli.
Infine il bambino si addormentò, coricato accanto al fratello.
Connor li guardò con dolcezza, con un mezzo sorriso abbozzato sulle labbra.
Poi prese le sue armi, il tomahawk, l’arco e la lama celata, ed uscì dal perimetro del villaggio.
La  pace non era ancora stata conquistata del tutto.
Una nuova minaccia aleggiava su di loro, e le fiamme di vent’anni fa rimanevano ancora impresse nella pellicola della sua retina, indelebili.
Senza un silenzioso garante della pace, della libertà, sarebbero tornate. Ne era sicuro.
Scavalcò le rocce dell’altura che dominavano la valle Mohawk e si volse a guardare la culla dove viveva la sua gente.
Il suo villaggio, in cui dormivano sereni i suoi figli, sembrava così vulnerabile e fragile da lassù.
Un colpo di vento più forte degli altri l’avrebbe spazzato via senza pietà.
Sorrise.
Nonostante tutto, finché viveva, erano al sicuro.
Nonostante tutto, aveva trentadue anni ed aveva trovato la sua felicità.


   
 
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