Videogiochi > Final Fantasy VII
Ricorda la storia  |      
Autore: Keylovy    18/07/2007    9 recensioni
Ecco, questa è la realtà. Qui, Aeris, non puoi arrivare.
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife, Tifa Lockheart
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Imaginaria

 

 

 

 

 

 

Act.1 _Wake Up

 

La prima cosa che voglio sentire svegliandomi sono le tue labbra.

 

Il tocco delicato della tua bocca che si apre a sfiorare il mio collo, perché solo lì puoi baciarmi, dato che dormo sempre girata dall’altra parte, con la schiena premuta contro il tuo petto, stringendomi a te la sera e aspettando la tua dolce sveglia la mattina. Il brivido del solletico che si riflette nella mia risata lieve, e la tua che risponde come un eco lontano, ed io ancora mi stupisco perché tutto avrei pensato fuorché la gioia di sentirti ridere di mattina, quando le serrande alle finestre sono ancora abbassate, e creano l’illusione di una notte filtrata tra i raggi che sbirciano nei buchi. Posso vedere solo la tua ombra, piegando la testa perché non ho voglia di girarmi completamente, ancora incatenata nell’incastro formato dalle lenzuola e dal tuo corpo, non mi va di distruggere questo attimo dedicato assolutamente a noi due, anzi, vorrei tornare indietro con le ore fino a sera e passare di nuovo con te tutta la serata, come sempre ormai, e non mi basta sapere che fra non molto più di dodici ore si ripeterà tutto di nuovo, la notte è sempre troppo corta e il giorno troppo lungo.

 

E pensare che mi svegliavo per prima, e dire che ero io quella che ti buttava giù dal letto. Ora sei tu, invece, quello che tra un bacio, un buongiorno, un mugolio e qualche spintarella, mi tira fuori da sotto le coperte ancora persa di sonno, e sono io quella che protesta diventando languida e spregiudicata pur di averti accanto un altro minuto, per conquistare anche solo un carezza che ti costringa a farti rimanere sdraiato accanto a me per poi tentare di nuovo di svegliarmi del tutto. Mi prendi per le braccia e mi tiri su, convincendomi che è tardi e che il bar deve essere aperto, ma è freddo, fuori è coperto di neve, sotto il piumone invece fa caldo, e di quel caldo tiepido e semplice che circonda come un mare d’ovatta. Lo farebbe ancora più se ti infilassi sotto anche tu invece di continuare a strattonarmi come se fossi un bambolotto, e so che devo riuscire a fartelo capire, è così importante cominciare la giornata quando la mia, anzi, la nostra intera vita può racchiudersi nel semplice svegliarsi?

 

Mi struscio un po’ addosso a te, perché tanto fino a che io non mi alzo nemmeno tu lo fai, ti bacio e mi gusto la vittoria quando sento tra le tue labbra il sapore della resa, e ti lasci cadere su di me, lentamente per non pesarmi addosso, intanto io cerco di tirarci le coperte sopra, tentando allo stesso tempo di non lasciarti distrarre dal fatto che è tardi, terribilmente tardi; ma tanto anche tu sembri più attratto dal fatto che qui c’è un letto caldo e la tua donna innamorata che pretende attenzioni piuttosto che dalla strada scivolosamente gelata che tenterà in tutti i modi di fare lo sgambetto alla tua moto.

 

Rimani, dai. Rimaniamo tutti e due qui sotto alle coperte, a giocare, a fare l’amore, a coccolarci, a scoprire ancora quel poco che ci rimane nascosto, perché nonostante ormai quasi tutto ciò che ti riguarda è quasi abitudine, riesco ancora a stupirmi del suono della tua voce, rimango di stucco alla palese nota di felicità in cui essa sfuma quando ti sto accanto, mi imbarazzo ancora se mi baci in pubblico e sobbalzo di sorpresa ogni volta che vedo i tuoi occhi brillare come fiamme nel riflesso dei miei.

 

Non è stupendo?

 

Fuori il cielo è niveo di batuffoli bianchi, ormai è quasi Natale, la nostra casa e la nostra camera sono riscaldate dal soffio di un vulcano invisibile, fra poco so che il telefono comincerà a squillare perché i miei clienti si chiedono dove diavolo sono finita e pretenderanno che vada ad accontentarli, allora alla fine ci alzeremo e tu mi accompagnerai al bar con la moto, e io ti chiederò di andare piano perché l’aria è tagliente come lame, e ti lamenterai delle mie labbra secche e spaccate, ma intanto rimaniamo qui a giocare con il nostro amore, nemmeno fosse il primo, ma per me lo è veramente.

 

E tu, mia nuvola, resta, rimani qui a coprirmi.

 

 

 

Act.2_Starry Flowers

 

Le luci sulle vetrine fanno uno strano effetto nel momento in cui colpiscono la neve. Da bianca immacolata, diventa cangiante di colori vivaci e caldi che non si addicono alla temperatura, luminescente di piccole stelle di vetro che irradiano della loro luce pungente gli occhi delle persone che camminano lasciando scie in questo manto bianco. Cerco con lo sguardo un punto in cui i non si tinga di troppe sfumature, ricercando il candore caratteristico e naturale.

 

Bianco.

 

L’ho promesso a Cloud, metterò un vestito bianco, anche se questo colore non mi piace un granché.

 

Non accelero il passo nonostante con la sera cominci ad arrivare il freddo pungente, vado piano apposta, respirandomi l’aria invernale in tutto il suo incanto, dalle luci colorate nelle vetrine alle strade piene di persone che prima non avevo mai notato. E insieme all’odore della città mi sembra anche di sentire già quello di casa mia, l’aroma pungente del legno che scoppietta nel camino e la cena che si cuoce lentamente in cucina; nelle orecchie la fremente attesa del rombo della moto che si avvicina come un fulmine frenando poi di botto e facendomi correre brividi d’angoscia su per tutta la schiena.

 

Adoro tutto questo.

 

Gli odori, i sapori, i tocchi che ho sempre desiderato che ora fanno parte della mia quotidianità, con una semplicità così assoluta e naturale che mi da alla testa come troppo vino. Mi piace passeggiare la sera dopo il lavoro anche se avrei migliaia di cose da fare, arrivare in una casa che non è più solo mia e godermi questa vita in due. Rallento di fronte ad una vetrina che conosco ormai alla perfezione, davanti alla quale passo ogni giorno e mi fermo ad osservare. Il negozio non è grande, ma molto vivace e pieno fino all’impossibile, vedo oltre il vetro filanti d’oro e d’argento decorarne il soffitto, che cadono come piccole stelle comete brillando nel riflesso delle luci artificiali. Guardo la vetrina, stringendomi nella giacca fino a coprirmi la bocca con la stoffa, forse anche solo per nascondere il vago sorriso che mi spunta sulle labbra.

 

Stelle di Natale.

 

E’ pieno, in questi giorni, di questi grandi fiori rossi e accoglienti; la maggior parte di essi reca sempre un fiocco decorativo intorno al vaso o attaccato a qualche foglia più grande, o anche un bigliettino appeso ad un lato, così se si vuol farne un regalo, si può lasciare una dedica. La proprietaria del negozio ne afferra una e se la porta via, afferrando qua e là fogli di ruvida carta ornamentale in cui avvolgerla, mentre una cliente rotondetta e ben coperta dal suo capace giaccone, le da indicazioni. Qualche mese fa in vetrina erano esposti mazzi di rose sbocciate e fresche, e prima ancora di crisantemi, di azalee e di gerani.

 

E io ci penso.

 

Qualche volta che ormai è diventata sempre, forse anche troppo, guardo la vetrina e parlo da sola, con la gente che mi passa intorno e mi lancia sguardi curiosi, allora chiudo gli occhi, continuando a vedere quelle stelle di Natale davanti a me, oltre il buio delle mie palpebre. E potrebbe sembrare anche che il mio dialogo si rivolga alla neve o al cielo, agli alberi spogli ogni tanto, o con le gocce d’acqua che cadono dal lavandino. Ma non parlo da sola, magari penso e basta, faccio domande più rivolte a me stessa che ad altri, a cui qualche volta vorrei sentire risposta, o forse è solo per sentirmi in pace.

 

Sai, Aeris, a primavera mi sposo.

 

Non arrabbiarti, ma con quello che avrebbe dovuto essere il tuo ragazzo. Ti da fastidio? No, no che non te lo da, sono sicura. Metterò un vestito bianco come la neve, quando non è sporca e quando non è piena di colori, s’intende. Gliel’ho promesso, e visto che lui mantiene la parola data lo faccio anch’io. Comincerà un nuovo anno, e comincerà anche un nuovo stile di vita, forse non tanto diverso, più nella nostra mente che nella realtà. Se sta bene? Oh, sì, sta benissimo, credimi. Ride, lo sai? E scherza, addirittura. Sì, ti pensa ancora, anch’io come puoi ben vedere, ma l’ha capita, che il mondo gira e il tempo scorre. Tutti ti pensiamo Aeris, io ti penso. Che fai, ridi? Non ti vedo, ma lo so che stai ridendo, tu ridi sempre. Ridi di me, eh? Fai, fai, ride bene chi ride ultimo. Lo so, per te dobbiamo essere tutti molto divertenti, con il nostro affannarci, con il nostro correre dalla mattina alla sera, con le preoccupazioni e tutto il resto. E, sì, so anche che molto probabilmente non t’importa nulla di quello che ti dico, che peso deve avere per te adesso se mi sposo e con chi? Ma davvero, va bene anche se fai finta di starmi a sentire, perché lo sai che ho bisogno di essere ascoltata da qualcun altro che non sia il mio ragazzo, ogni tanto. Discorsi fra donne, o cose di questo genere. Ecco, solo mi va di parlare con la mia migliore amica. Non ti dispiace, vero? Non pretendo risposte come ne hai date a Cloud, non voglio vederti e sentirti, basta il solo convincermi che mi senti. Come sto io? Bene, Ae, come devo stare? Anzi, sto con Cloud, punto. Penso che non serva altro per spiegare come mi sento, no?

 

E allora perché parlo con te, dici?

 

Lo so, parlo da sola. A volte mi chiedo veramente se, a forza di occuparmi di lui, tutto quello che c’era in Cloud non sia passato a me.

 

 

 

Act.3_Don’t Look

 

Mattina di Natale.

 

Odore di biscotti e canditi, placido languore della prima colazione da consumare quasi all’ora di pranzo, con lo sfrigolio del fuoco acceso che guizza nel camino e la neve che cade ininterrottamente ormai da ore. Guardo fuori, non scende affatto con calma come nelle favole, è una bufera in piena regola, ma il contrasto tra l’esterno, dove si svolge, e l’interno, dove io mi trovo, è delizioso. Mi appoggio alla finestra, fissando il turbinio bianco che imperversa oltre il vetro, e mi sembra quasi di vedere gli alberi fuori guardarmi con ostili occhiate cariche d’invidia per il mio aspetto soddisfatto e il mio pigiama caldo.

 

Oggi è veramente un giorno speciale. Sarà perché è Natale, o sarà l’aroma del caffè che sale proveniente dalla cucina, ma credo che oggi ci sia qualcosa di differente, e a farmelo pensare è soprattutto il fatto che mi sono svegliata per prima. E ora, dopo aver preparato la colazione come non facevo da un bel pò, sarò io a svegliarlo, come ai vecchi tempi, ma fino ad un certo punto, senza urli e strattoni. Aspetto che il caffè sia pronto per metterlo nelle tazzine, con la velocità dovuta all’abitudine della professione, poi lascio tutto pronto in tavola e mi dirigo con passo felpato in camera da letto. E nel buio quasi completo, mimetizzandomi con le ombre, arrivo a tentoni fino al letto, dove riesco a sentire la presenza di lui, raggomitolato come un gatto e avvolto nelle coperte. Facendo più piano possibile sollevo di poco il piumone, trattenendo il respiro, con i muscoli tesi di concentrazione, e mi infilo sotto, chiudendo gli occhi per il piacere della sensazione calda del letto e dell’accogliente morbidezza del cuscino, e rimango un po’ ferma, a godermi il tepore sprigionato dal suo corpo vicino al mio e il lieve suono del suo respiro calmo e regolare. 

 

Devo proprio svegliarlo?

 

Qui si sta veramente bene, potrei riaddormentarmi io stessa, poi ci desteremmo insieme… ma questo è il mio giorno speciale, in cucina la colazione si sta freddando, e dopo non mi sveglierei di nuovo per prima e perderei il lusso che mi sono conquistata stamattina. Mi volto su un fianco e striscio piano fino a lui, avvicinandomi abbastanza per poterlo vedere nell’ombra senza disturbarlo. Devo strizzare gli occhi per scorgere i lineamenti e accorciare un po’ la distanza, poi il mio sguardo si abitua lentamente al buio e finalmente riesco a vederlo quasi del tutto. I tratti delicati e il naso diritto, l’espressione rilassata e beata nonostante la sua bocca non accenni affatto ad un sorriso; devo reprimere un brivido di desiderio lungo la schiena, trattenermi dall’abbracciarlo violentemente all’improvviso, stringerlo talmente forte da non permettere a nessuno dei due di respirare. Ed ecco, guardo lui come incantata e non posso fare a meno di pensarci di nuovo, è una voce dentro di me che non riesco a sopprimere.

 

Mi hai portato via tanto tempo, Aeris.

 

Anni e anni che avrei potuto vivere in questo modo, con lui al mio fianco. Prima solo due, ventiquattro mesi di tragedia, di vita spenta dal lutto e della sua presenza a balzi di mesi. Due, Ae, ma sono stati lunghissimi. Non c’era mai, non rispondeva alle chiamate e non parlava, spariva per così tanto tempo che andavo a pensare terrorizzata che avesse fatto una finaccia con la moto. E la rabbia, ogni volta che sapevo di poterlo trovare in quella chiesa abbandonata invece che a casa a badare alla sua presunta famiglia, l’orrore che avevo di me stessa perché non riuscivo a fare nulla se non aspettare che tornasse ogni tanto. Alla fine, è tornato veramente. Distrutto, fatto a pezzi e logorato, tutto da ricostruire. Sono diventata un’esperta, per forza di cose. L’ho rimesso in piedi, traballante e insicuro, reggendolo passo per passo, e ci sono voluti altri tre anni, nei quali, lento come un vascello in un mare senza vento, il nostro rapporto si è consolidato e arricchito di tanti particolari e momenti che ci hanno portati dove siamo ora. Lui non si è accorto di me, né io mi sono fatta avanti, semplicemente, da amici, da fratelli che eravamo ci siamo stretti sempre di più come una morsa fino a che la necessità l’uno dell’altra era diventata innegabile. In tutto fanno cinque, Ae. Cosa sono, nemmeno un ventesimo della presunta durata della vita? Alla fine sono così pochi che non ti accorgi nemmeno quando sono passati. Ma ora che il mio canone di vita si è abituato a questo, e un po’ li rimpiango, devo ammetterlo, non sarebbe stato affatto male aver già passato cinque anni così; altri cinque Natali accoccolata nel letto accanto a lui con l’odore del caffè che arriva come un venticello e l’emozione che mi scuote da capo a piedi quando penso che tra poco sarà primavera, e potrò indossare il mio vestito bianco. 

 

Mi avvicino ancora di più a lui, sento il suo braccio disteso sul letto sfiorare la mia spalla, il respiro caldo mi tocca le guance e io mi allungo appena a sfiorargli le labbra. Lo senti Cloud? L’ho pronunciato appena, io stessa non l’ho udito; ti amo, te l’ho sussurrato vicino alla bocca, perché appena ti sveglierai sono sicura che queste parole mi torneranno indietro immediatamente, e mi viene da sorridere. Non basta questo a scuoterlo dal sonno, naturalmente, allora gli traccio un sentiero di baci calmi dal mento alla guancia, fino alle labbra, poi giù, su un lato del collo. E sento la regolarità del suo respiro interrompersi e un lieve fruscio di lenzuola, qualche movimento e le sue braccia mi sono intorno, un buongiorno mormorato e il mio ti amo che torna come un boomerang. Mi sento sollevare dal materasso e mi ritrovo distesa su di lui, a baciarlo, ad accarezzarlo, a ridere mentre stavolta è lui a fare resistenza mentre gli dico che è ora di alzarsi. E mi rendo conto troppo tardi che sono debole, che la mia forza non è lontanamente al pari della sua e non riesco a resistere come ci riesce lui ogni mattina; le sue mani ormai sono già sotto il pigiama e non ho intenzione di toglierle.

 

Solo quando piego un po’ la testa da un lato per lasciargli baciare il collo, me ne accorgo. Sbatto un po’ le palpebre con forza, incredula, rimanendo a bocca aperta quando vedo che questa allucinazione non se ne va.

 

Ciao, Aeris.

 

Sta in piedi, immobile al lato del letto, le dita intrecciate in grembo. Ehilà, vorrei dire, quanto tempo. Oppure, ti trovo bene, non sei cambiata, ma sarebbe una cosa stupida, perché mai dovrebbe essere cambiata, è morta. Già, morta. Cosa fai qui, Aeris? Non è questo il tuo posto, temo. Sono felice di vederti, ma proprio adesso? Stai lì a fissare me e Cloud in atteggiamenti affettuosi? No, non guardi me. Tu guardi Cloud. Che strano cerchio, io vedo te e tu non vedi me, Cloud vede me e non vede te. Lo chiamo, e gli dico di guardarti, ma è proprio vero, lui non vede nulla, mi chiede cosa ci sia di strano. E a me non va di dirgli che ci sei tu, spesso non mi va nemmeno di pronunciare il tuo nome in sua presenza.

 

Mi accorgo che mi da fastidio, il modo in cui lo guardi, il modo in cui ignori me e fissi lui come se fosse completamente solo ad abbracciare l’aria. Perché lo guardi così? Così tristemente, così dolorosamente. Non è da te. Non te ne vai, eh? Ma questa situazione per me è imbarazzante, nonostante so che tu non esista, che probabilmente sei solo il frutto della mia fantasia, non voglio fare l’amore con lui sotto i tuoi occhi che non mi vedono.

 

“Dai, Cloud, vieni,  facciamo colazione”

 

E stavolta ci alziamo veramente, io sorda alle sue proteste, evitando di guardarmi indietro per vedere se ci sei ancora.

 

Il caffè si sarà freddato, ormai.

 

 

 

Act.4_Walking In Mirrors

 

La neve se ne è andata.

 

La vedo dappertutto sciogliersi in rivoli freschi come ruscelli, i pupazzi prendono forme irriconoscibili e le loro sobrie decorazioni cadono a terra, bagnate. Il sole è tiepido, ma abbastanza caldo per cancellare il gelo dalle strade che rimangono sorprese e umide, private inaspettatamente della coperta bianca che le avvolgeva; passando per strada sotto una grondaia sporgente mi sono ritrovata fradicia di neve ormai liquida che mi è finita in testa. Ancora troppo presto per i fiori, per l’erbetta fresca, troppo tardi per l’inverno. Ma eccola, la sento, la primavera si avvicina, passo dopo passo, lentamente nel momento in cui la penso e veloce come un treno in corsa quando mi volto a ragionare su altro. I vestiti sono ancora quelli pesanti, il cappotto e la sciarpa sempre gli stessi, ma non danno più l’impressione fastidiosa di non essere buoni a nulla perché il freddo e il vento ti stanno entrando nelle ossa, ora il vento è calmo, l’aria è umida e carica di ghiaccio in partenza, e qualche volta mi ritrovo ad aver caldo con tutta quella roba addosso.     

 

D’ora in poi, per questi prossimi mesi, il bar aprirà tardi e chiuderà presto. Posso permettermelo? No, forse no, ma devo. Ci sono migliaia di cose da organizzare, da preparare, la lista di quello che devo fare sembra lievitare mentre quella delle cose finite pare inesistente; mi ritrovo con fogli, inviti, biglietti, appunti, fiori e assaggini in mano e mi passano attimi di scoraggiamento, ma non arrivo a pensare che vorrei cambiare idea, questo mai.

 

Tifa, stai attenta lì, ti sono caduti tutti gli inviti, no aspetta, questo non va bene, ma cosa, non si intona affatto, no, qui ci andrebbe il rosa, ma che combini con quel velo? Oddio, scusa, ti ho punta con la spilla? Stai ferma però… qui devo stringere, ti cade, e qui sopra invece ti va piccolo. Guarda, ha telefonato quella tua amica, voleva sapere se… ha chiamato anche il gioielliere, rispondi; hai parlato con Yuffie? Ricordati di dire a Cloud di venire domani, sì, quello te lo aggiusto io, no, devi passare lì per l’ordinazione, sicura che ce la fai a fare tutto? 

 

Probabilmente no, ma non sono preoccupata. E’ tutto un tran tran confuso, un rompicapo dalle mille facce, ma alla fine, il risultato sarà ottimo, anche se pieno di sbagli, andrà bene lo stesso. Poi, come in ogni periodo impegnato e pieno che si rispetti, ci sono quei piccoli momenti che rimettono al mondo, come un bicchiere d’acqua fresca dopo una lunga corsa. Non dovremmo stare qui a camminare svogliatamente, ci sarebbero così tante cose per impiegare questo momento, ma lo sento già riempito al massimo, so che non potrei fare altro che andare in giro pigramente con Cloud appena pranzato, non esisterebbe nulla di meglio.

 

Lui dice che stiamo “vagabondeggiando”, e io rido, convinta della stessa cosa; non abbiamo una meta precisa, né vogliamo sceglierla, ci basta implicitamente camminare fianco a fianco con i piedi bagnati dalle pozzanghere di neve sciolta. E vedo di tanto in tanto il nostro riflesso nelle vetrine, lui che cammina diritto e con lo sguardo basso perso nel vuoto, io, attaccata al suo braccio con la scusa che poco prima sono inciampata, intenta a parlare. Parlo, parlo, parlo e lui ascolta, un po’ in silenzio, un po’ rispondendo, un po’ ridendo. Mi ritrovo a pensare che dobbiamo sembrare una normale coppietta a passeggio, e mi dico che sono un stupida, perché in effetti lo siamo veramente, ma mi chiedo, cosa abbiamo di normale noi? Siamo due semplici fidanzati? Probabilmente anche noi pensiamo lo stesso di tutti gli altri, ma ci sentiamo speciali, forse perché non siamo solo amanti, ma amici, fratelli, punti di riferimento l’uno per l’altra; e le altre coppie penseranno di essere speciali a loro volta perché avranno qualcosa loro soltanto che noi non vediamo.

 

E noi? Cos’è che abbiamo noi due esclusivamente?

 

I nostri ricordi, probabilmente, belli e brutti. Un lupo d’argento con un cerchietto tra le fauci, un anello per me e una spilla per lui. E’ veramente solo questo, l’essere speciale? Cosa c’è, oltre gli oggetti, i pensieri, la fiducia e l’amore?

 

Non lo vedi Cloud, cosa abbiamo che gli altri non hanno?

 

Guarda, è lì, davanti a te. No, non dentro la vetrina che stiamo osservando, proprio lì, sul vetro. Vedi? Nel riflesso. Tu guardi me e te a braccetto che chiacchieriamo, io vedo te e me fare lo stesso, ma c’è qualcosa che io ho notato e tu no. Eccola, è dietro di te, all’altro tuo fianco. Con quel suo vestitino rosa –ma non avrà freddo?- e il suo fiocco rosso in testa. Ti sta così vicina, eppure tu non la senti. Osservo nelle nostre immagini specchiate il mio sguardo che fissa il suo, e il suo rivolto verso di te. Non li scorgi proprio, quegli occhioni verdi che ti fissano, Cloud? Forse è anche meglio così. Per noi due, per te. Ma allora perché la vedo io e non tu? Ecco, ora ti ha sfiorato il braccio libero con una mano. Cos’è, ti chiama, o vuole solo toccarti?

 

No, Aeris, lascia stare, non ti sente. Lascia stare gli faresti male, ci faresti male. Ormai è passato, sì, ma io sono pessimista, penso che possa sempre tornare. E io non sono come te, sono gelosa.

 

Dai, Ae, lasciamelo.

 

Torna al tuo posto, nei fiori, nell’aria, nell’acqua, nel pianeta. Abbandonaci al nostro vivere, al nostro amarci, al nostro ricordarti finalmente in pace, senza voltare le spalle a nascondere la lacrime, senza scappare. Magari un giorno riusciremo a parlare di te normalmente, sempre con una nota di tristezza e nostalgia, certo, ma prima o poi ti racconteremo ai nostri figli, sarai la loro eroina delle favole, quella che ha salvato il mondo e ha permesso loro di nascere.

 

Altrimenti non saremmo qui, giusto?

 

Su, distogli quello sguardo.

 

Cloud mi tira un po’ il braccio e lo assecondo nel voler continuare la passeggiata, lancio un ultimo sguardo alla vetrina, e vedo la tua immagine che riprende a camminare accanto a noi.

 

 

 

Act.5_ Real Spring

 

Com’è bello il mio vestito bianco.

 

Per tutta la giornata, incredibilmente, è stato questo il mio pensiero ricorrente. Mentre ero seduta, ne osservavo le pieghe, simili a onde sulla superficie della stoffa, poi la sensazione delicata del fruscio intorno alle gambe quando camminavo, i lievissimi brividi di freddo sulle spalle scoperte ed esposte alle leggere correnti. Ho seguito con le dita il ricamo delle perline sulla gonna fino a farlo diventare un gesto istintivo e quasi nervoso, imparandone a memoria ogni curva e ogni abbellimento, dai complicati intrecci alle spirali decorative, ho notato che ogni tre perline bianche se ne alterna una leggermente più rosa, di una sfumatura molto pallida. E le curve formate dai ripieghi che sfiorano quasi terra, io passo e ripasso con le mani sulla stoffa come a lisciarle, ma solamente per il piacere di vederle tornare posto, il tessuto che scivola su se  stesso in eleganti curvature.

 

Solo in un momento ho alzato gli occhi verso la realtà che mi circondava, staccandoli a fatica dai sentieri di ricami. Nell’unico attimo in cui mi si chiedeva di confermare la mia scelta, di prenderla e accettarla come sinonimo di futuro, pronunciare il consenso alla promessa che d’ora in poi condividerò con l’uomo che solo per un istante sono riuscita a fissare, un solo unico sguardo in cui ho visto il suo finalmente accendersi, così differente da come era in passato, e ho sentito il fiato che mi si bloccava nel petto, l’aria non entrava più nei polmoni e per un momento ho creduto che non sarei stata capace di affermare la mia risposta. L’ho detto in un soffio, il mio sì, guardandolo negli occhi con le gambe che tremavano e rischiavano di cedere, per poi abbassare nuovamente l’attenzione sulle perline, nella sicurezza di quella piccola ossessione che mi ha restituito la calma necessaria per reggermi in piedi, fino a che alle mie orecchie non è arrivato il suo sì, pieno di sicurezza e determinazione, e la vista dei miei ricami si offuscava di lacrime finché non riuscivo ad osservare altro che l’immagine sfocata delle mie dita tremolanti.

 

La giornata ormai è finita, comincia a fare buio e questa aria sta diventando tenue di freddo, timida primavera che si nasconde al calar del sole. Potrei alzare gli occhi, ora. Mi bruciano, a forza di tenere l’attenzione concentrata su questi piccoli particolari, ma faccio comunque fatica a distoglierli. Ho paura. Paura che se guardo avanti vedrò cose troppo nuove e troppo sconosciute, o anche paura che sia tutto un bel sogno, ho timore di non essere una persona abbastanza forte da reggere tutto questo. Il peso è così schiacciante, e allo stesso tempo così piacevole. Liscio nuovamente la gonna con le mani, saggiandone la morbidezza e la fluidità, e un nuovo particolare porta via la mia attenzione dai ricami. L’anello che circonda il mio dito, così freddo e così bruciante alla stesso momento. Il mio guinzaglio, la mia gabbia, d’ora in poi. Anello, freno della mia libertà e delle mie azioni, promemoria della parola data da rispettare da qui per sempre, passando sopra ad ogni altra cosa, persino a me stessa.

 

Dio, questo modo di perdere la libertà è terribilmente bello.

 

Sento la sua presenza vicino alla mia, il suo braccio intorno alle spalle che mi stringe, e finalmente riesco ad alzare gli occhi per guardarlo. Pensavo di vederlo cambiato, credevo che d’ora in poi, il fatto di poterlo chiamare “marito”, avrebbe rivoltato qualcosa, che avrei visto nei suoi occhi un uomo nuovo ancora tutto da conoscere, e ho preferito guardarmi il vestito tutto il giorno piuttosto che dargli una sbirciata per vedere se la mia supposizione era esatta. Ero troppo spaventata, e non potevo accertarmene. Quanto mi sbagliavo. 

 

Cloud è sempre Cloud.

 

Ora, semplicemente con un aggettivo in più davanti al nome. Mio. Il mio Cloud. D’ora in avanti, solo e soltanto mio, niente e nessuno potrà togliermelo dalle braccia e se dovessero provarci difenderò il mio possesso con le unghie e con i denti. Ed io sono sua solamente, forse il mio nome è cambiato un po’ di più rispetto a quello di lui, ormai Lockheart dovrà essere solo un ricordo, sarò una Strife, con tutto quello che l’appellativo comporta. E pensandolo, sento che comunque, qualcosa dentro di me, continua a ridermi addosso. Voce, voce sconosciuta di un’altra Tifa, che poi sono sempre io, la mia paura, la mia pazzia.

 

E’ tuo. Ne sei proprio sicura?

 

Certo che ne sono sicura, mi basta abbracciarlo, mi basta lasciarmi abbracciare. Non sta cingendo me? Non gliel’ho infilato io, l’anello che ora porta al dito? Non sono rivolti a me, tutti questi mormorii, questi baci che ora mi sta regalando? Sì, lo sono. E lui è mio. Però, non avrò mai l’esclusiva della sua vista, non ci sarò solo e sempre io a guardarlo.

 

E’ così semplice, così irritante. Abbraccia me, e io, con la testa appoggiata sulla sua spalla, posso vedere quello che lui non vede, la ferma consapevolezza solo a me conosciuta che non sarò mai la sola al suo fianco.

 

Perché, perché un vestito nero? Questa giornata non è di lutto, non è di tristezza. Perché indossi un abito così scuro, così sobrio? Non vedi il mio, come è candido, come riluce sotto i raggi della luna che sta sorgendo? Dovresti essere abbigliata in modo molto più allegro, oggi per noi è un giorno felice, dovresti esserlo anche tu con noi. Sei stata la nostra silenziosa e invisibile testimone, è davanti ai tuoi occhi e al tuo permesso che siamo sposati. Non sai che i vestiti dei testimoni dovrebbero circondare quello della sposa come petali intorno al bocciolo di un fiore? Invece i nostri sono così divergenti e opposti, ora. Una volta tanto io in completo chiaro e tu in scuro.

 

Sei vestita come una vedova, Aeris.

 

E’ normale, hai perso il tuo uomo. Vorrei dirti che non è mica morto, ma so che se lo fosse tu saresti quella in bianco ed io quella in nero. I vivi stanno con i vivi, Ae. Lui ha scelto la vita, non l’attesa della fine. Mi piacerebbe anche dire che ha scelto me, ma sarebbe una stupidaggine, c’era poco da scegliere, ero l’unica presente, ero l’unica in carne ed ossa. Non ci si sposa con un fantasma, non si possono avere figli da un fantasma. In questo, io sono sicuramente più adatta di te. 

 

Sei bellissima, sai?

 

Il nero ti dona, ti fa sembrare ancora più snella di quanto tu non lo sia, e i tuoi occhi verdi spiccano come smeraldi. Però, davvero, non è il tuo colore. Dovrebbe essere il mio, come ora mio è Cloud. Smettila, Aeris, smettila di tentare di portarmi via ciò che mi appartiene di diritto, smettila di fissarlo e di seguirlo, lui si è perdonato, perdonati di averlo lasciato tu stessa, e falla finita una buona volta.

 

Chiudo gli occhi. I miei ricami sono stupendi, Cloud mi abbraccia e mi bacia dopo essere diventato mio marito. Ecco, questa è la realtà.

 

Qui, Aeris, non puoi arrivare.

 

 

 

Act.6_Hot Embrace

 

Sto impazzendo.

 

Cloud ancora non se ne accorge, io me ne sono resa conto da poco. Sento la follia avvolgere i suoi robusti tentacoli attorno alla mia lucidità, i miei sogni e la mia vita si mischiano e non riesco più a distinguere il reale dall’immaginario, vedo ciò che nessun altro vede e non capisco se quella matta sono io o lo sono tutti gli altri che mi circondano.

 

“Cloud, lì nell’angolo non c’è nulla?”

 

Mi stringo contro di lui, strizzando gli occhi, per vedere meglio nell’ombra di quell’angolo, arrampicandomi sul divano per avvicinarmi, e poggio la testa sulla sua spalla.

 

“No, amore. Perché?”

 

Alza gli occhi dal giornale che sta leggendo, fissa il punto di cui gli ho parlato e guarda me, preoccupato. Leggo facilmente nei suoi occhi lo stupore e la curiosità, perché lui, quell’angolo lo vede vuoto.

 

“Niente, niente. Sarà stata un’ombra”

 

E scorgo anche tra le sue iridi una nota di ilarità, da quando in qua ho paura delle ombre? Ed io non ci faccio caso, mi attacco ancora più forte al suo braccio, quando lui torna al suo giornale il mio sguardo lo scavalca e scivola di nuovo verso quel punto. Un’ombra, già. Lì, stagliata sul muro, l’ombra di una donna. La vedo solo io Cloud, sono pazza. La vedo muoversi lentamente sui muri, scura e densa, la treccia che ondeggia sulla schiena e il vestito che fruscia tra le gambe. Non ho paura delle ombre, non ho paura di lei. Ma aspetto, ormai è un’infinità di tempo che lo faccio, sto ferma accanto a mio marito attendendo il momento in cui la vedrò uscire dalla parete e tentare di afferrarlo. E sarò pronta, sarò la silenziosa guardia del corpo che lo protegge dal quella mano invisibile. Farò la guardia, giorno e notte, ormai ho imparato ad avere il sonno leggero per controllare; le braccia intorno al corpo di Cloud, per sentire i suoi movimenti. E continuo a sussurrare pianissimo quanto lui sia mio, e che deve rimanere tale, sobbalzo ad ogni rumore e starnutisco per il costante odore di fiori che sembra riempire la casa anche se non ce ne è nemmeno uno.

 

Così passano i miei giorni, avvolti nella continua, impalpabile angoscia, il tempo al bar lontano da lui che mi sembra interminabile, la rabbia al pensiero di quella mano che si tende oltre la parete della realtà e il terrore che lui decida di afferrarla; sarebbe per me un tradimento impronunciabile. Ora è buio, il giornale giace in salotto, abbandonato nel momento in cui io ho cominciato ad essere troppo vicina per passare indifferente, così, mezzi nudi per il caldo afoso dell’estate ormai esplosa, rimaniamo immobili. Lui già dorme, calmo come un bimbo, con la testa appoggiata sulla mia, ed io, con gli occhi semiaperti, poggio un braccio sul suo petto e con l’altro gli circondo il collo. Sento nel silenzio il ticchettio regolare dell’orologio, e il respiro ritmico e sereno di Cloud che mi sfiora l’orecchio.

 

Fa un caldo terribile. Troppo per stare così abbracciati. Ma non mi smuoverò, per la semplice idea suggeritami dalla mia pazzia ormai dilagante. Non potrebbe essere lei, ad indurre il Pianeta a scaldarsi così tanto, per farmi muovere, per distrarre la mia costante vigilanza? Che pensiero idiota, ma così infimo, così viscido che si insinua dentro di me come un batterio, fino a farmici credere veramente. E quel dannato orologio che mi da il nervoso, sembra una fastidiosa ninna nanna per farmi assopire, ed io ho così tanto sonno da avere la nausea.

 

Tic-tac. Tic-tac.

 

Il mio respiro, contrariamente a quello di Cloud, è corto e affannato, non riesco a prendere aria per l’atmosfera grondante di caldissima umidità, sento la pelle sciogliersi in sudore, le lenzuola mi si attaccano addosso. Il desiderio di voltarmi e cercare un punto del letto più fresco, di scollarmi di dosso anche il calore del corpo di Cloud è fortissimo, in questo momento odio a morte i miei capelli lunghissimi che mi coprono la schiena come una coperta pesante. Vorrei spostarli, ma dovrei sollevare una mano da Cloud, e non se ne parla. Lo so, lo so, basterebbe un attimo di distrazione, voltare lo sguardo per un momento per poi tornare a guardare e non trovarlo più. Sposto solo di poco il mento, e apro gli occhi completamente, tentando di non far abbassare le palpebre, fisso la parete davanti a me.

 

Vieni, vieni pure avanti.

 

Io sono qui, sono sveglia e sono pronta. E tu sei una vigliacca, te ne stai ferma nelle ombre, ti vedo camminare avanti e indietro, i tuoi passi hanno lo stesso suono delle lancette dell’orologio, sento il profumo di fiori crescere fino quasi a diventare insopportabile. Sto altrettanto immobile, come un predatore notturno nella foresta, a fissarti nell’oscurità, pazientemente.

 

Tic-tac. Tic-tac.

 

Silenzio. Lancette. Il respiro mio, corto ed affrettato, e quello di Cloud, calmo e profondo. E tu? Tu non respiri. Devo reprimere un sorrisetto di superiorità, per questo; superiorità a cosa, poi, non lo so, ma il fatto che non si sente alcun suono provenire da te è un punto a mio favore, almeno credo. E’ lapalissiano, eppure. Io respiro, Cloud respira. Tu no. Dovrei convincermi di questo, tu non esisti, ma la tua ombra sul muro è precisa nei tuoi tratti inconfondibili, i tuoi movimenti sono così realistici. Sono io, quella pazza che ti vede, è Cloud quello pazzo che non lo fa, o sei tu, quella pazza che non accetta di non respirare?

 

Chiunque di noi sia il visionario, però, il fatto rimane uno.

 

Lui è mio.

 

E’ mio, Aeris.

 

Tic-tac. Tic-tac.

 

Anche se il caldo sta diventando insopportabile, e sento il suo corpo umido e incandescente, anche lui rimane immobile, a bruciare nel mio abbraccio.

 

 

 

Act.7_Cure

 

Tutto questo è insopportabile.

 

La sento, giuro che la sento. Ma quando mi volto non la vedo più. E’ assurdo, impossibile. Potrei giurare di aver appena sentito la sua voce, eppure…Siamo soli, io e Cloud. Questa casa all’improvviso mi sembra troppo grande e troppo vuota, è così piena di echi senza voci reali, e così silenziosa al tempo stesso. L’ho sentita, lo assicuro. E istintivamente mi avvicino in modo impercettibile a Cloud, mentre affetto una zucchina, sento quasi di avere un sesto senso che mi permette di vedere oltre la schiena.

 

“Vuoi che ti aiuti?”

 

“No…” rispondo in modo assente.

 

Dio, lui mi ama così tanto e io… io sono terrorizzata che possa ricordare di come era prima l’amore per lui, e che possa trovarlo migliore di questo, che possa sentire questa voce melodiosa che si espande come un eco e seguirla incantato. Trattengo un sospiro che lo farebbe sicuramente preoccupare, e continuo a tagliare la verdura, lentamente. Potrebbe sembrare tutto così calmo, tutto così perfetto. No, Cloud? Hai una brava mogliettina che ti prepara la cena, tenendo sempre conto di quello che ti piace mangiare, che non ti da troppo fastidio e sa come consolarti quando sei giù. Hai una mogliettina che ti adora da morire, che per te farebbe qualsiasi cosa. E ti ama talmente tanto che non riesce a staccarti gli occhi di dosso, che impazzisce al pensiero che qualcun'altra possa guardarti o sfiorarti.

 

Sono gelosa, Cloud.

 

E non capisco se sia questo che mi da alla testa, o se quel che vedo non è solo frutto della mia fantasia furiosa e maniacale. Ma penso solo che, oltre alla mia ossessività, ci sia anche la paura di vederti di nuovo distrutto e ferito, di crollare insieme a te in quell’abisso di silenzi e lacrime nascoste da cui siamo usciti da poco tenendoci per mano. Se la lasci ora, Cloud, ti perderai, io mi perderò. Siamo la bussola l’una per l’altro, non valiamo nulla divisi. Forse però per te la tentazione di affogare di nuovo sarebbe troppo grande, troppo irresistibile, e io non sarei che una inutile catena a sbarrare la strada, che tu non faresti fatica a togliere. Non voglio essere sola, non voglio essere accantonata per una visione, per un senso di colpa, per il ricordo di un amore che non troverai in nessun altra.

 

Mi volto e gli lancio uno sguardo, rimango pietrificata.

 

Presa.

 

Sento il calore della vita e l’energia scivolare via dal mio corpo, come liquido impalpabile, il sudore provocato dal caldo diventa ghiacciato e la mia pelle si ricopre di brividi. Quella voce, quella dannatissima voce che cresce fino a perforarmi i timpani e l’odore dei fiori così forte e dolciastro da essere nauseabondo. Ora sì che la vedo, e i colori dei suoi vestiti, dei suoi capelli, della pelle delle sue mani così candide, sono accecanti e incandescenti, emanano una luce strana, per nulla chiara, ma forte e decisa, che mi da fastidio agli occhi. Vorrei avanzare, correrle addosso, urlare, ma riesco solo a rimanere immobile, folgorata, a riparami gli occhi con una mano da quel bagliore.

 

Non lo toccare.

 

Devo farcela, devo urlarlo, lei non mi sente, gli è già addosso, gli ha posato le mani sulle spalle, e gli parla nell’orecchio, canta una nenia come fosse un incantesimo per addormentarlo e rapirlo nei suoi sogni, e sono sicura che fra poco lo vedrò alzarsi e seguirla stupito, dimenticando me e tutto ciò che mi riguarda. Sono bloccata da freni invisibili e inamovibili, ma è troppo forte il dolore, troppo forte l’amore che ho per lui, troppa la gelosia, per lasciarlo andare. Con le braccia e le gambe che mi sembrano infilzate da mille pugnali, riesco a scattare in avanti, urlando come assatanata, per quei pochi passi che mi distanziano da lei. Vorrei spingerla, così forte da farla volare via fino all’altro mondo dove dovrebbe essere, ma lei non esiste –Dio, come ho fatto ad essere così stupida a pensare di poterla toccare?- e le mie mani non afferrano che il vuoto assoluto, poi il pavimento freddo. Tento di rialzarmi, non ci riesco, continuo ad essere bloccata, le mani di qualcuno che non vedo mi tengono le braccia, e io urlo, urlo, urlo, me lo sta portando via, lui è mio, non può farlo, non potete farmi questo, lascialo andare, lascialo vivere, non prenderlo, è mio, mio, mio, solo mio…

 

Grido il suo nome, Aeris, veleno tra le mie labbra, le dico di non farlo, ma lei non ascolta, è sorda alla mia voce, ceca alla mia patetica vista. Più forte, urlo, più forte; deve sentirmi, non posso perdere così, non voglio perderlo, e lei, finalmente si volta verso di me. Non vedo più nulla, solo lei.

 

Dio, come è bella.

 

Dio come sono piccola, inutile e brutta davanti al suo cospetto.

 

Chi sono io per combattere qualcosa del genere?

 

Riderei di me stessa, se potessi. E invece riesco solo a rimanere sconvolta e accecata, lei che mi fissa, finalmente si accorge anche di me, senza sfumature nello sguardo, fredda e perfetta; ha un unico difetto, e quando lo noto mi gira la testa per la nausea e rischio di svenire. Nella sua pancia, a rompere il perfetto equilibrio, vedo il taglio della spada ancora fitto di sangue, talmente preciso che riesco a vedere uno scorcio di quello che c’è oltre di lei, la sfocata parete bianca attraverso quel foro che diventa rossa del suo sangue. Si china, mi sfiora con una mano e si rialza lentamente, voltandosi con calma. Torna a prenderlo. E io continuo ad urlare, ma ormai non mi ascolta più, porto una mano sulla spalla, nel punto in cui mi ha toccata, e la sento umida, così la guardo e la vedo piena di sangue, del suo sangue che mi ha lasciato addosso. Le mie grida si spengono, non ho più voce, non ho più forza, non ho più nulla, ho perso.

 

L’ho perso.

 

Me l’ha portato via, non vedo più niente, è scomparso tutto.

 

“TIFA!”

 

Come un’improvvisa boccata d’aria, torno di nuovo in vita, vedo la cucina sfocata diventare sempre più chiara e poco a poco i tratti del viso di Cloud si precisano davanti ai miei occhi. Mi stinge, fortissimo, io sono a terra, sento ancora la mano bagnata di sangue, e mi fa un male cane, sto piangendo e non so nemmeno quando ho iniziato a farlo.

 

“Che ti prende?” mormora lui, con voce roca “Che cos’hai, Tifa?”

 

Come che cos’ho? C’è da chiederlo? Eccola, è ancora lì, ci guarda da lontano, è tornata nella parete, i suoi colori sfavillanti si scuriscono tornando ad essere ombra, i suoi lineamenti si confondono con la parete, ma riesco ancora a sentire i suoi movimenti e a vedere il suo viso. E Cloud è ancora qui, allenta un po’ la presa e mi guarda, scostandomi i capelli dal volto, io non ce la faccio ad alzarmi.

 

“Che cos’hai?” ripete nuovamente.

 

“Aeris…” confesso tra i singhiozzi, nascondendo il volto contro il suo petto, dopo aver accennato al muro.

 

“Cosa…?”

 

Si volta verso il muro, poi si gira di nuovo e mi fissa. Lo ha preso ormai, anche se non può vederla. Io non l’ ho protetto, non sono stata capace di difenderlo, ora la sua mente e il suo cuore andranno lentamente all’indietro, tornando a lei, lo so. Non riesco a smettere di piangere, mi fa tutto male, sono a pezzi, e mi stringo contro di lui, tenta di allontanarmi ma non glielo permetto. Rimarrai fino all’ultimo Cloud, ti tratterrò fin che posso. E ci riesce dopo un pò, non ce la faccio ad oppormi ancora, mi stacca da lui e mi guarda negli occhi.

 

“Tifa… non è possibile. Aeris è morta” dice con calma.

 

E io sussulto, spalanco gli occhi, smetto di respirare.

 

Allora è vero, sei guarito, Cloud.  

 

Tutto quanto all’improvviso cessa di essere sfocato, lentamente, sposto lo sguardo verso la parete. L’odore di fiori è scomparso, e sento il silenzio assoluto regnare in casa. Non c’è più. Mi guardo la mano, è piena di sangue, al centro del palmo c’è un lungo taglio orizzontale che mi brucia come fuoco, e a terra, vicino a me, il coltello con cui stavo preparando da mangiare.

 

Respiro.

 

………

 

Morta.

 

E noi, noi siamo guariti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

So che è un’idea assurda, ma è nata con la premessa di essere una Cloti dedicata ad Aeris. Forse perché poi alla fine non la odio così tanto, e perché comunque credo che rimarrà sempre nella nostra immaginazione. Forse Tifa ha fatto la figura della pazza scatenata… mi scuso se i personaggi sono un po’ OOC e spiego che l’AU serve sostanzialmente a spiegare la scomparsa di Denzel e Marlene.

Grazie infinite a tutti quelli che hanno letto, a chi verrà voglia di commentare e a Lennie, la mia fidata beta.

 

 

 

 

  
Leggi le 9 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Final Fantasy VII / Vai alla pagina dell'autore: Keylovy