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Autore: EvgeniaPsyche Rox    01/01/2013    9 recensioni
Roxas ha sedici anni, ma è un ragazzo estremamente ingenuo e non conosce quasi nulla del mondo che lo circonda; sogna comunque posti a lui sconosciuti ed è pronto a tutto pur di esplorarli, forse addirttura intraprendere un viaggio che lo aiuterà a maturare davvero.
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Roxas si guardò fugacemente attorno e si avvicinò maggiormente all'uomo, quasi avesse voluto sussurrargli un segreto di massima importanza. «Ieri sera ho visto una luce provenire da quella parte», e indicò un punto perso dietro di sé, «mi saprebbe dire che cos'era?»
Il panettiere assunse un'espressione stralunata; sbatté ripetutamente le palpebre, incredulo di fronte alle parole del ragazzo. Certo, giravano parecchie voci su di lui, ma possibile che fosse arrivato a simili livelli?
«Mi stai prendendo per il culo, ragazzino?»
Roxas sussultò appena a quel tono così aspro e a quel linguaggio che faticò a comprendere. «No signore, non mi permetterei mai.»
L'uomo sospirò pesantemente e si mise entrambi i sacchi sulle spalle, iniziando ad incamminarsi verso casa. «Perché non vai a controllare tu stesso? Quella luce la troverai sempre lì, di sera.»
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Roxas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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La realtà attraverso gli occhi dell'immaginazione -
Riding the light.

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Come puoi amare il mare?
Esso non è che un'ombra effimera, un'illusione.
Si prende gioco di te.
Come puoi amarlo?


«Ma è così bello. Luccica sotto il sole e custodisce gelosamente le lacrime del cielo.»


Ecco, hai visto?
Anche tu hai trovato la risposta.
Il cielo.

«Cosa?»


Il mare è lo specchio del cielo. Non è che un riflesso. Un riflesso che ti confonde.
Come puoi amare un semplice riflesso?
Ama il cielo, ragazzo. Non il mare.
Loda il cielo, non il mare.
Il mare si prende gioco di te. E' un mago che imbroglia e prende lodi che nemmeno merita.
E' il cielo che si tinge di colori incantevoli.
E' il cielo che piange.
E' il cielo che ride.
E' il cielo che è triste.
Non il mare. Il mare lo copia e basta. Ombra, riflesso. Tutti copioni, sono.
Vuoi amare una copia, ragazzo? Davvero vuoi essere così stupido?

«No, certo che no, signore.»


E allora va' ad ammirare il cielo, ragazzo.
Corri via.


«Ma signore, è notte.
Non riesco a distinguere il mare dal cielo. Dov'è l'orizzonte?
Me lo dica lei, che io non lo vedo.»



Ecco, hai visto?
E' troppo tardi.
Il mare ha divorato il cielo, si sono uniti.
Hai visto, ragazzino?
Non è mica cosa giusta lodare il mare.
Ormai è tardi.
E' diventata la copia migliore di tutte.
Non distinguiamo più l'essere dal riflesso. La luce dall'ombra.
E non si può far più nulla per rimediare, se non aspettare un nuovo giorno.



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1. Tower



Allungò la mano, sfiorando così qualcosa di soffice e vellutato: prese un profondo respiro e vi immerse completamente il braccio, lasciandosi sfuggire una smorfia a causa del brivido che gli percorse la schiena.
Neve.
La neve era fredda, morbida, soffice, candida, soave e azzurra.
La neve era azzurra. Un azzurro chiaro, una delizia per gli occhi, un azzurro che aveva una sottile fragranza; il suo azzurro era in grado di profumare e lui ne era più che sicuro.
Azzurro. Proprio come lo era il cielo.
Volteggiò ripetutamente prima di inginocchiarsi a terra, afferrando una manciata di neve per poterla lanciare in aria, divertendosi poi ad osservarla cadere lentamente.
Chissà se era commestibile, si chiese nel frattempo.
Allora aprì la bocca, in attesa di ricevere una risposta alla propria domanda; tirò fuori la lingua e sentì una sorta di pizzicore. Era la neve. La neve pizzicava. La neve pizzicava e sapeva di menta. O magari di fragola, pensò poi. A lui piacevano così tanto le fragole. Cioè, pensava che gli piacessero, anche se non le aveva mai assaggiate.
Appoggiò un piede in avanti e inciampò goffamente, ritrovandosi di punto in bianco con il mento dolorante sull'asse di legno del pavimento della sua piccola stanza.
La neve non era poi così morbida. Non era nemmeno riuscita ad alleviargli la caduta.
«Stupida neve.», borbottò tra sé e sé mentre tentava impacciatamente di alzarsi, sforzandosi in ogni modo di ignorare il dolore al sedere.
E, mentre era impegnato a maledire mentalmente quella dannatissima asse di legno che lo faceva spesso cadere, un fascio di luce venne proiettato di scatto sui suoi occhi; Roxas chiuse immediatamente le palpebre per lo spavento, nonostante la luce non fosse così intensa da impedirgli di vedere.
Trattenne il fiato e rimase in attesa per un tempo che sembrò interminabile, sforzandosi in ogni modo di non tremare; il buio dei suoi occhi era divenuto da tempo per lui l'angolo migliore in cui rifugiarsi dalla realtà e dalle sue insidie.

Aspettò.
Aspettò e contò prima i secondi, dopo i minuti.
Aspettò e poi, lentamente, riprese a respirare, prima piano, infine più forte, il suo respiro ritornò ad essere percettibile, il petto si alzava e si abbassava in maniera più tranquilla.
Fu sul punto di sollevare le palpebre, quando si accorse nuovamente dell'indesiderata presenza della luce; richiuse così di scatto gli occhi, mettendo anche le mani sopra di essi nella speranza di sentirsi maggiormente al sicuro.
Perché quella maledetta luce continuava a torturarlo? Perché non voleva andarsene? Perché non lo lasciava in pace?
Strinse maggiormente le mani al volto e si ritrovò nuovamente a pensare alla neve; prese un profondo respiro e tentò di tuffarsi in essa, nella neve soffice e vellutata che sapeva di menta (O di fragola, dipendeva dai casi). Tentò di tingere di azzurro il nero in cui nascondeva, ma non ci riuscì.
La luce continuò a bussare alle sue palpebre e lui continuò a udire il suo toc-toc incontrollato.
Perché la luce si era recata proprio da lui? E se aveva qualcosa di importante da dirgli?
Quel pensierò sembrò in qualche modo rincuorarlo; o, semplicemente, il fatto che non fosse ancora successo nulla di catastrofico simboleggiava che forse la luce non era nulla di pericoloso.
E se invece si aspettava proprio che abbassase la guardia? Magari stava per attaccarlo proprio in quel momento e...
Ma Roxas si tolse comunque le mani dal volto e aprì le palpebre, anche se con estrema lentezza e riluttanza.
La luce era ancora lì, ad illuminare a tratti il pavimento, poi gli oggetti della stanza, il comodino, la scrivania, il letto, e infine lui; poi fuggiva via, fuori dalla finestra, e, dopo qualche secondo, tornava a fargli compagnia, girovagava nella piccola camera, lanciava una fugace occhiata al ragazzo e scappava di nuovo.
La luce girava, girava e girava. Non illuminava mai tutto contemporaneamente, e questo incuriosì particolarmente Roxas.
Perché la luce non si fermava mai? Perché continuava a girovagare a vuoto? Che cosa stava cercando?

«Forse si è persa.», rifletté ad alta voce il giovane, continuando a scrutare i movimenti della strana luce.
«Ehi, luce», chiamò poi, porgendo un poco il volto in avanti. «Ti sei per caso persa? Hai bisogno di aiuto?»
Ma la luce svanì nel nulla, lasciando Roxas solo nel centro della stanza.





Di notte erano venute a trovarlo strane figure che parevano ombre di persone che non aveva mai incontrato; vi erano ombre basse, altre più alte, altre ancora muscolose, altre invece magroline.
E lui era l'unico essere umano intorno a loro. Solo che non doveva toccarle. Nessuno gliel'aveva detto, ma lui lo sapeva fin troppo bene. Sapeva che non doveva avvicinarsi ad esse perché altrimenti lo avrebbero risucchiato via e anche lui si sarebbe trasformato in un'ombra, in un riflesso.
E allora avrebbe cessato di esistere.
Roxas aveva sempre detestato dormire. Lo spaventavano a morte i suoi incubi, le sue insidie che bussavano nella sua mente e riuscivano sempre ad entrare, chissà come.
Pensò che doveva sicuramente esserci un guardiano che vegliava il sonno di ogni essere umano; era una persona vestita di nero e rosso, con un buffo cappello in testa e un'arma (Non sapeva esattamente quale, perché non aveva mai visto un'arma in vita sua), potentissima in grado di neutralizzare gli incubi.
Il problema era che il suo guardiano, probabilmente, era troppo pigro. O forse i suoi incubi erano più potenti degli altri. O forse l'arma del guardiano non funzionava a dovere. Doveva comprare un'altra arma nella fabbrica del generale di tutti i guardiani. Ma dove si trovava quella fabbrica? Roxas non lo sapeva proprio. Se lo avesse saputo, sarebbe corso immediatamente in quella fabbrica per chiedere al generale un'arma nuova e più potente. Gli avrebbe spiegato con cura la situazione; gli avrebbe raccontato dei mostri maligni che distruggevano il suo sonno e lui avrebbe annuito. Lo avrebbe capito e gli avrebbe donato una nuova arma. Poi Roxas l'avrebbe consegnata al suo guardiano, anche se non sapeva come fare. Come avrebbe fatto ad entrare nel proprio cervello per incontrare il guardiano? Era difficile, forse impossibile.
Roxas alzò improvvisamente gli occhi, notando a pochi metri da lui la presenza di un uomo calvo e robusto, intento a chiudere il negozio con un paio di sacchetti in mano.
Era il panettiere, una delle poche persone che Roxas conosceva in città; anzi, a dirla tutta, era una delle poche persone con cui poteva parlare senza essere sgridato troppo dalla madre.
Aveva compiuto i suoi sedici anni da poco e per il suo compleanno aveva chiesto di poter uscire da solo, almeno per andare e tornare da scuola. Sua madre, a quella richiesta, si era arrabbiata moltissimo, ma dopo una lunga discussione, aveva finalmente ceduto, rendendo felice il figlio.
Il fatto era che Roxas si era accorto da tempo di essere l'unico ragazzo della sua scuola ad essere accompagnato da un genitore; quando aveva chiesto spiegazioni alla madre, lei gli aveva risposto dicendo che i genitori altrui non provavano abbastanza affetto per i loro figli.
E Roxas in quel momento si era sentito speciale, importante. Era l'unico figlio della città che riceveva il dovuto affetto: era una cosa stupefacente, qualcosa di cui essere fieri e orgogliosi.
Ma perché allora quando sua madre lo accompagnava gli altri ragazzi non lo guardavano con invidia? Perché si allontavano tutti da lui? Perché non gli parlava nessuno? Perché quando provava ad avvicinarsi, gli altri indietreggiavano e iniziavano a sussurrare cose tra di loro?
Era quella l'invidia? No.
Quella era la paura. Paura del diverso. Perché era considerato diverso dagli altri? Perché non poteva somigliare ai suoi coetanei?
Perché tutti parlavano con tutti e lui invece no? Perché sua madre gli imponeva quelle dannatissime regole?
Perché nessuno rispondeva mai alle sue domande?
Roxas prese un profondo respiro e si avvicinò all'uomo, il quale si voltò di scatto, riconoscendo immediatamente il giovane dai capelli disordinati color cenere. «Ragazzo, io ormai ho chiuso. La prossima volta di' a tua madre di mandarti prima.»
Il biondo storse leggermente le labbra e scosse la testa, stringendo nel frattempo la cartella sulle spalle. «Io non sono venuto qui per il pane.»
L'uomo inarcò automaticamente un soppraciglio. «E allora che c'è?»
«Volevo farle una domanda. Magari lei saprà rispondermi.»
«Muoviti però, che ho la moglie e i figli a casa che mi aspettano.»
Roxas si guardò fugacemente attorno e si avvicinò maggiormente all'uomo, quasi avesse voluto sussurrargli un segreto di massima importanza. «Ieri sera ho visto una luce provenire da quella parte», e indicò un punto perso dietro di sé, «mi saprebbe dire che cos'era?»
Il panettiere assunse un'espressione stralunata; sbatté ripetutamente le palpebre, incredulo di fronte alle parole del ragazzo. Certo, giravano parecchie voci su di lui, ma possibile che fosse arrivato a simili livelli?
«Mi stai prendendo per il culo, ragazzino?»
Roxas sussultò appena a quel tono così aspro e a quel linguaggio che faticò a comprendere. «No signore, non mi permetterei mai.»
L'uomo sospirò pesantemente e si mise entrambi i sacchi sulle spalle, iniziando ad incamminarsi verso casa. «Perché non vai a controllare tu stesso? Quella luce la troverai sempre lì, di sera.», e, dopo aver detto ciò, svanì dietro l'angolo, lasciando il giovane solo con i propri dubbi.





Nonostante corse il più velocemente possibile verso casa, la madre notò il suo ritardo e lo rimproverò per tutto il resto della serata.
«Dove sei stato?», gli aveva chiesto almeno una decina di volte durante l'ora di cena mentre Roxas si rigirava i pollici, indeciso se dire la verità o meno.
Insomma, non aveva fatto nulla di male. Aveva soltanto chiesto al panettiere informazioni su quella strana luce che era entrata in camera sua. Eppure, al tempo stesso, era sicuro che per sua madre sarebbe stato comunque qualcosa di sbagliato, in un modo o nell'altro.
«Il professore ci ha trattenuti di più in classe», mormorò piano alla fine del pasto, quasi sussurrando, scandendo però bene le parole. «perché un mio compagno si è comportato male.»
La donna sollevò istintivamente un soppraciglio, poco convinta. «Ne sei sicuro?»
«Sì.», annuì il giovane, stringendosi nervosamente la maglietta sotto il tavolo. «Sì, è andata proprio così, mamma.»
Quest'ultima parve più tranquilla; i lineamenti del suo volto stanco si distesero e lei sorrise appena, consapevole del fatto che suo figlio, per nessuna ragione al mondo, le avrebbe mentito.
«Va bene Roxas, ti puoi alzare.», annunciò infine, iniziando a sistemare i piatti nel lavandino.
Il biondo si illuminò e fece come gli era stato detto, avvicinandosi poi al volto della donna che si chinò immediatamente, ricevendo il solito bacio del dopo cena. «Buona notte, mamma.»
«Buona notte. E ricordati di fare la preghiera, prima di andare a letto.»
Roxas annuì e si voltò, salendo le scale più velocemente del solito, raggiungendo così il secondo piano in pochi secondi; attraversò il piccolo corridoio semibuio e arrivò di fronte alla porta di legno della propria stanza.
Rimase immobile per una manciata di secondi, scrutando con estrema attenzione la serratura della porta che conteneva una piccola chiave dorata; sapeva bene che sua madre non voleva assolutamente che lui si chiudesse nella sua stanza a chiave, ma in quel momento ebbe il forte impulso di farlo.
Non se ne sarebbe accorta, pensò poi. In fondo il momento tra la fine della cena e il coricarsi a letto era il suo preferito proprio perché sua madre non entrava a controllarlo. Era il suo momento. Lo spazio era tutto suo. Era padrone del suo regno; poteva esplorare la neve azzurra, i mari e tutti gli altri mondi.
Spalancò la porta e la richiuse dietro di sé, facendo scattare la serratura con la chiave il più silenziosamente possibile.
Successivamente si inginocchiò sul pavimento e strisciò fino al letto, infilando così la chiave sotto di esso; in quel modo era abbastanza sicuro che nessuno, nemmeno la strana luce che era venuta a trovarlo la sera precedente, sarebbe riuscito a prenderla, magari neanche i riflessi cattivi dei suoi incubi.
Poi si rialzò e chiuse lentamente gli occhi, facendo calare il buio intorno a sé.
Eccolo. Ecco il momento perfetto della giornata. L'unico vero momento in cui si sentiva vivo: l'attimo in cui iniziava a tingere il nero nel modo in cui più desiderava. L'attimo in cui iniziava ad esplorare mondi a lui sconosciuti.
Questa volta vide un prato. Un prato verde che odorava di pane. Il pane caldo, quello che usciva ogni mattina dai forni del panettiere calvo. Era il suo odore preferito. Era uno dei pochi odori che conosceva davvero. E il cielo era azzurro, azzurrissimo; un azzurro che più azzurro di così non si può.
Riempì i polmoni di quell'intenso e piacevole profumo, poi alzò gli occhi verso il cielo azzurro. Desiderò verdere anche un'arcobalena; ne aveva sentito parlare a lungo da un suo compagno di classe. Diceva che l'arcobalena era un miscuglio di colori nel cielo. C'era il rosso, il giallo, il blu e anche il viola, qualche volta.
Ma Roxas non sapeva com'erano disposti. Avrebbe voluto chiederglielo, ma nessuno gli rivolgeva mai la parola.
Potevano essere delle linee parallele. Oppure dei piccoli cerchi che galleggiavano nel cielo. O dei quadrati, chissà. L'arcobalena doveva essere proprio uno spettacolo magnifico.
Giocò per un po' sul prato, sotto il cielo azzurro costellato da tante arcobalene, finché poi, improvvisamente, il suo mondo si offuscò appena, come un disegno fresco su cui qualcuno vi aveva appoggiato l'indice.

«Perché non vai a controllare tu stesso? Quella luce la troverai sempre lì, di sera.»

Roxas, a malincuore, riaprì le palpebre; sapeva perfettamente che quando qualcosa disturbava i suoi viaggi non poteva più tornavi, almeno non nella sera stessa. Ormai i posti erano fuggiti via, lontano dalle sue mani e, soprattutto, dai suoi occhi. Non riusciva più a riafferrarli, doveva sempre attendere la sera successiva.
E quell'attesa era una vera e propria tortura.
Comunque la luce era davvero lì, proprio come aveva detto il calvo panettiere.
Il ragazzo la osservò in perfetto silenzio, seguendo nel frattempo con lo sguardo i suoi strani giri; non seppe esattamente quanto tempo passò, ma di sicuro abbastanza per permettergli di avere un lampo di genio.
Un'idea. O meglio, una consapevolezza chiara e limpida.
La luce era entrata proprio nella sua stanza. Era venuta per lui e Roxas ora aveva compreso il motivo della sua presenza.
Era la luce della fabbrica; sì, ne era più che sicuro. Il generale lo stava chiamando, lo stava incitando ad andare da lui in modo che gli avrebbe potuto consegnare la nuova arma per scacciare le ombre notturne. E magari, chissà, gli avrebbe anche spiegato in che modo incontrare il suo guardiano per potergli donare finalmente l'arma.
Tutto aveva un senso. Era così, senza alcun dubbio.
Doveva assolutamente raggiungere la fabbrica per poter parlare con il generale.
Si avviò verso il proprio armadio e indossò un paio di jeans, una maglietta e una felpa abbastanza pesante da coprirlo dal freddo della notte.
O almeno, così lui pensava. Era da tanto, tantissimo tempo che non usciva al buio, tra le tenebre dense e appicicose.
Ma doveva farlo. Era essenziale per lui e per il suo sonno.
E sua madre? Di certo lei non avrebbe compreso l'importanza della situazione; in fondo non sapeva neanche delle ombre che lo torturavano ogni notte.
Lei non doveva sapere. Sua madre non doveva scoprire nulla.
Andò così alla finestra e la spalancò del tutto, osservando poi con estrema riluttanza l'enorme distanza che lo separava dalla terra.
In realtà non è che dovesse proprio saltare, assolutamente no; viveva su una sorta di piccola altura, uno dei punti più alti della città, e di conseguenza aveva parecchi posti su cui reggersi.
Ma era lo stesso terrorizzato a morte.
Prese un profondo respiro, com'era ormai di sua consuetudine fare, e appoggiò le ginocchia sul davanzale, stando ben attento a non scivolare né in avanti né all'indietro.
La fabbrica. Il generale. Doveva pensare a loro, mentre la luce continuava a girare, girare e girare.
Con un balzo riuscì a raggiungere una piccola sporgenza non molto distante e da lì la strada non fu poi così difficoltosa come aveva temuto.
Nonostante la sua estrema lentezza, riuscì finalmente ad appoggiare i piedi per terra e per lui fu un enorme sollievo: sollievo, però, che duro ben poco.
Questo perché fino a quel momento Roxas aveva perso la percezione della realtà; si era limitato a seguire l'istinto, cosa che ormai faceva molto di rado, pensando esclusivamente alla fabbrica che lo attendeva.
Eppure, nello stesso istante in cui i suoi piedi toccarono terra, un fulmine parve colpirgli la testa; si accorse infatti, di punto in bianco, di aver commesso una sciocchezza, una di quelle sciocchezze che mai e poi mai avrebbe pensato di fare.
Era appena fuggito da casa sua attraverso la finestra. In piena notte. Nel freddo. Era fuori, solo. Non sapeva che cosa fare. Non sapeva come comportarsi.
Ebbe l'impulso di gridare o di chiamare aiuto, ma sapeva che sarebbe stata una stupidaggine. Non poteva nemmeno bussare alla propria porta perché sua madre sarebbe sicuramente uscita di testa.
Risalire l'altura pareva un'impresa impossibile.
E allora fece l'unica cosa che forse avrebbe dovuto evitare: iniziò a camminare, addentrandosi tra i viali bui della città, piangendo silenziosamente.
Gli sembrò di aver perso la memoria; non riconosceva le strade, erano diverse, non vedeva nulla, niente di niente. L'oscurità aveva divorato tutto, proprio come facevano le ombre quando lo toccavano nei suoi incubi. Forse quelle dannate ombre erano gli scagnozzi dell'oscurità. Sì, doveva essere sicuramente così, pensò il giovane con fare sconsolato.
Questo significava che lui combatteva ogni notte contro le tenebre. Forse questa battagliava la svolgeva solo lui; allora era davvero una persona speciale? Era il prescelto? Era diverso dagli altri?
Sì, probabilmente sì.
E adesso il generale lo aveva messo alla prova. Per giungere alla fabbrica doveva affrontare le tenebre, quelle vere, gli unici sovrani della notte.
E lui voleva forse deludere il generale? No, certo che no.
Fu allora che il passo di Roxas si sveltì, trasformandosi in pochi secondi in una vera e propria corsa; stava correndo, più veloce della luce, più veloce di qualsiasi altra cosa. Doveva correre, era il prescelto, doveva sconfiggere le tenebre, e la luce lo avrebbe guidato verso la fabbrica.
Corse fino ad avere il fiato corto e le gambe pesanti; forse perché non era abituato, o forse perché passò davvero molto tempo, ma questo, in fondo, non fu così importante.
Roxas riuscì ad arrivare a destinazione; riuscì davvero a scoprire da dove provenisse quella luce.
Il problema è che, quando giunse di fronte al mare, non vide alcuna fabbrica.




La luce in realtà proveniva da una torre e questo, in un primo momento, stupì parecchio Roxas.
Ma ciò che lo sorprese davvero fu la presenza del mare; chilometri e chilometri di acqua salata si ergevano di fronte ai suoi occhi blu cobalto, e Roxas per un attimo temette seriamente di avere le allucinazioni.
Davvero era riuscito a raggiungere il mare? Il mare. Aveva il mare di fronte agli occhi. Non era possibile. Doveva esserci sicuramente uno sbaglio, un errore.
Sua madre gli aveva sempre impedito di andare così lontano; gli diceva che era pericoloso, che non era un luogo adatto a lui, e quando una volta gli insegnanti avevano proposto una gita sul mare lei non lo aveva nemmeno mandato a scuola.
Con il tempo aveva persino iniziato a credere che nella sua città non ci fosse proprio il mare.
Invece in quel momento era lì, di fronte ai suoi occhi, risucchiato dalle tenebre del cielo. Udì lo scroscio delle onde, vide la schiuma bianca spiccare nel nero, sentii il profumo dell'acqua salata.
Tutto insieme. Era tutto lì, di fronte a lui. Per la prima volta riuscì a sentirsi vivo senza rinchiudersi nel proprio mondo, e pensò che fu una delle più belle sensazioni mai provate.
La presena della luce che stava illuminando a tratti l'acqua lo risvegliò dal suo stato di trance; il ragazzo voltò di scatto lo sguardo, tornando a concentrarsi sulla misteriosa torre alla sua sinistra.
Per raggiungerla bisognava attraversare una lunga asse di legno e il giovane decise così di incamminarsi immediatamente: in fondo era anche probabile che fosse una fabbrica con un aspetto un po' particolare, dato che aveva un ruolo così importante.
Continuò a mantenere lo sguardo puntato in alto, verso la luce che veniva proiettata dalla cima della torre che sembrava possedere una sorta di lanterna, mentre con la mano sinistra si divertiva a far danzare le foglie dei cespugli che circondavano l'ambiente.
Forse il panettiere non gli aveva dato una risposta concreta proprio perché desiderava che lui andasse di persona alla fabbrica; questo dunque significava che il generale e il panettiere erano amici? Magari anche migliori amici? Allora lui conosceva il migliore amico del generale della fabbrica di armi?
Salì trè gradini e giunse di fronte ad una piccola porta dipinta di marrone; appoggiò le mani su di essa e si accorse che non era stata chiusa. Forse lo stava aspettando. Roxas spalancò la porta, la quale emise un lieve scricchiolio, ed entrò in una piccola stanza circolare illuminata dalla fioca luce di una lampada appesa.
Le pareti erano di legno e il pavimento era dipinto di beige chiaro a strisce nere; eppure in quel momento ciò che colpì maggiormente l'attenzione del biondo furono certamente le scale a chiocciola posizionate al centro della stanza.
Alzò istintivamente lo sguardo in alto, stupito; quante scale potevano essere? Cinquanta? No, di più. Settanta? O forse addirittura novanta?
L'unico modo per rispondere alla sua domanda era sicuramente salirle.
E così fece. Appoggiò la mano sul corrimano tinto di nero e iniziò l'impresa, contando, passo per passo, il numero dei gradini.
Uno, due, trè, quattro... I suoi occhi scintillavano di un lieve luccicchio, emozionati più che mai.
Diciassette, diciotto, diciannove... Chissà che cosa lo attendeva in alto, in cima alla torre. Avrebbe davvero visto la fabbrica?
Ventitrè, ventiquattro, venticinque... E sarebbe davvero riuscito a parlare con il generale?
Quarantasei, quarantesette, quarantotto... Magari era addirittura il primo ragazzo ad entrare in quella fabbrica. In fondo lui era o non era il prescelto?
Cinquantatrè, cinquantaquattro, cinquantacinque... E se non c'era nessuna fabbrica?
Sessantanove, settanta, settantuno... Forse si era solamente illuso. Forse la fabbrica si trovava altrove, lontano dalla sua città.
Settantotto, settantanove, ottanta... Però dalla cima della torre forse sarebbe riuscito a vedere tutto il mare.
Ottantadue, ottantatrè, ottantaquattro... Forse le scale erano infinite. Forse era un tranello che avevano archittetato le ombre malefiche per ucciderlo dalla stanchezza.
Ottantanove, novanta, novantuno... Gli bruciava il petto e sentiva le gambe martellare dal dolore.
Novantasette, novantotto, novantanove.
Era riuscito ad arrivare alla fine. Non era morto. Ma allora perché non c'era anche la centesima scala? Perché si erano fermati a novantanove? Non aveva alcun senso.
Ma, in fondo, in quel momento poco gli interesso che cosa aveva o meno un senso.
Entrò in un'altra piccola stanza circolare; al centro di essa la prima cosa che saltava all'occhio era sicuramente una lanterna di grandi dimensioni, la quale emetteva una luce che illuminava la stanza a tratti, oltre a raggiungere distanze enormi.
E la fabbrica?
«Ehi, tu» ,Roxas pensò di non aver mai preso un colpo così forte in tutta la sua vita e, probabilmente, fu la prima volta che temette davvero di perdere il cuore, talmente accelerato era il suo battito cardiaco. «si può sapere che cosa fai qui? Guarda che non si può entrare.»
Il generale? No, impossibile. Il generale doveva sapere della sua presenza. Il generale non avrebbe usato un tono così aspro e severo con lui, con il prescelto.
Aveva fatto qualcosa di sbagliato. Non doveva trovarsi in quel luogo. Non doveva. E non si aspettava neanche la presenza di qualcuno, in quella piccola stanza.
Lo avrebbero arrestato? Forse. Magari aveva infranto la legge. Che cosa doveva fare?
In quel preciso istante Roxas udì dei passi avvicinarsi e intuì immediatamente che l'uomo voleva fargli qualcosa, magari punirlo, proprio come faceva sua madre: allora si voltò e corse verso le scale, le scese con una velocità impressionante, sentendo il cuore in gola e le gambe ancora doloranti che sembravano reggerlo in piedi per miracolo.
«Ehi! Ma dove credi di andare?! Fermati!», sentì strillare dallo sconosciuto, e Roxas allora aumentò la velocità, terrorizzato dal fatto che l'altro avrebbe potuto inseguirlo e raggiungerlo.
Alla quarantanovesima scala inciampò e cadde in avanti, sbattendo il naso su quattro gradini più avanti; il dolore fu come una scarica elettrica improvvisa e inaspettata, lancinante, indescrivibile, ma non più forte della sua paura, perché si rialzò in pochi secondi e riprese a scendere le scale, mantenendo la medesima velocità nonostante l'uomo non lo avesse inseguito.
Quando giunse di fronte all'altura di casa sua quasi svenne; sia a causa del dolore alle gambe, sia per la vista del sangue dal naso e sia dal battito cardiaco incontrollabile.
Ma non si acasciò a terra, anzi. Appoggiò le mani sulla prima sporgenza e iniziò a salire, ignorando le fitte ai palmi.




«Lei è un dottore?»
«No figliolo, sono un farmacista.»
«Ma è lo stesso un dottore?»
«Beh, sì, ho studiato medicina... Ma tu chi saresti, si può sapere?»
«Io?», Roxas si guardò fugacemente attorno, stando ben attento a non farsi sentire dalla donna che stava aspettando il suo turno dietro di sé, e si avvicinò al bancone, appoggiando le mani su di esso. «Io sto morendo.»
L'uomo dalla tunica bianca si sistemò gli occhiali sul naso e aggrottò le soppraciglia, confuso. «Come?»
«Sto morendo.», ripeté piano il giovane, sbattendo ripetutamente le palpebre. «ma non mi faccia alzare la voce, per favore. Non voglio che gli altri lo sappiano. E' un segreto, capito?»
Il farmacista annuì con fare stralunato e squadrò con estrema attenzione il ragazzo, quasi avesse voluto cercare conferma delle sue parole. «Come fai ad esserne sicuro?»
«Perché sì.», brontolò con tono infantile Roxas, scrollandosi le spalle come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Mi fa male tutto.»
«Dove ti fa male?»
«Tutto.», ripeté il ragazzo, sempre più scocciato dalle continue domande dell'uomo. «Allora mi può aiutare o no?»
L'altro si grattò la testa, seriamente perplesso della sanità mentale del ragazzo; avrebbe voluto cacciarlo via, anche perché c'erano altri clienti che attendevano, ma sarebbe stato poco professionale da parte sua, e decise quindi di assecondarlo. «Vieni con me.», mormorò dopo una breve riflessione, aprendo nel frattempo lo sportello che lo divideva dai clienti; Roxas si irrigidì, esitante sul da farsi.
In fondo era pur sempre uno sconosciuto e se ci fosse stata sua madre non gli avrebbe mai e poi mai permesso di entrare. Ma, d'altro canto, sua madre in quel momento non era presente e, inoltre, aveva fatto di tutto pur di convincerla a farlo uscire un po' prima quella mattina.
Doveva assolutamente farsi curare e arrivare a scuola in orario.
Decise dunque di seguire l'uomo, il quale, dopo aver fatto un cenno agli altri clienti e richiuso lo sportello, si avviò verso un corridoio che portava in un piccolo studio completamente bianco.
Il farmacista fece sedere il giovane su un piccolo lettino (Terribilmente scomodo, secondo il parere di Roxas), e iniziò a cercare chissà cosa nei numerosi cassetti presenti. «Allora ragazzo, si può sapere perché sei così sicuro di morire?»
«Morirò di sicuro, se lei non mi curerà.», precisò il sedicenne, soffiando via dagli occhi un ciuffo di capelli particolarmente fastidioso. «E comunque, sono certo di morire perché ieri stavo per perdere il cuore. Batteva fortissimo, un ritmo incredibile, così forte che rimbombava per tutto il corpo; nella testa, nelle gambe, nel collo, ovunque.», poi prese un profondo respiro e proseguì: «Ecco, sì, le gambe. Mi facevano male da morire. Penso di averle perse per sempre. Non so come sono riuscito a camminare da casa fino a qui. Ma sto per morire, glielo assicuro. Ho perfino perso sangue dal naso. E guardi qua...», Roxas mise in mostra i propri palmi, i quali presentavano diversi graffi e sbucciature.
Il dottore, o meglio, il farmacista, sollevò istintivamente un soppraciglio e si avvicinò al ragazzo, studiando con estrema attenzione le sue mani; dopodiché fece un paio di giri intorno a Roxas e accennò un sorriso paterno, come se si fosse trovato di fronte ad un cucciolo abbandonato al suo destino. «Sei il figlio della signora Persson?»
Il biondo si irrigidì, sorpreso e al tempo stesso spaventato di fronte all'improvvisa domanda dell'altro. «E lei come fa a saperlo?»
«Diciamo che qui sei molto conosciuto.»
Il sedicenne sbatté ripetutamente le palpebre e assunse un'espressione pensierosa prima di illuminarsi di una strana luce. «Perché sono il presceleto, vero? E' per questo che sono molto conosciuto?»
«Cosa?», l'uomo spalancò le iridi grigie in un'espressione sorpresa e forse addirittura scioccata.
«Oh, no, niente! Dovrebbe essere un segreto, l'avevo dimenticato.», borbottò Roxas più a se stesso che al dottore, stringendosi poi impacciatamente le spalle. «Non mi ha ancora detto se potrà salvarmi o no.»
L'uomo allora sorrise appena. «Non stai morendo, non ti preoccupare. Dimmi un po', ragazzo, ieri hai fatto qualcosa di particolarmente faticoso?»
«Ho corso molto.»
«Hai corso?»
«Sì, molto.»
«Ecco spiegato il mistero. Vedi, quando una persona corre molto è normale che abbia il battito cardiaco accelerato e un forte dolore alle gambe.»
Roxas rimase in silenzio per un paio di minuti, analizzando con estrema attenzione la breve spiegazione del dottore; successivamente storse un poco le labbra, riprendendo la parola. «E il mio naso?»
«Beh, non saprei... Ha iniziato a sanguinarti improvvisamente?»
Il ragazzo tornò mentalmente alla sera precedente e, dopo un'altra piccola pausa, scosse leggermente la testa. «No, ho preso una botta.»
«Ed ecco il motivo per cui ti è uscito del sangue. Ti fa ancora male?»
«Un po'.»
«Passerà, non ti preoccupare. Ma se il dolore persiste, domani torna da me e vedrò di darti una crema.»
Roxas annuì meccanicamente e schiuse le labbra, pronto a porre un'altra domanda, quando l'uomo lo precedette: «E per quanto riguarda le mani, non è nulla di grave. In meno di due giorni non rimarrà più alcuna cicatrice. Sai, è normale farsi sbucciature del genere, quando si è bambi-», poi si bloccò, squadrando attentamente il giovane. «Comunque non stai per morire, tranquillo.»
Il biondo si guardò i palmi della mani per un'ultima volta e alzò lentamente gli occhi, incrociando lo sguardo paterno del farmacista. «Questo significa che le ho fatto perdere tempo, giusto?»
L'uomo aggrottò le soppraciglia. «No, certo che no. Anzi, hai fatto bene a venire qui.»
«Quindi potrò venire da lei ogni volta che starò male?»
«Suppongo di sì, se questo ti farà piacere.»
Roxas allora scese dal letto con un balzo e tornò a guardare il farmacista. «Ha mai sentito parlare delle ombre nere?»
L'altro si grattò la testa con fare confuso, chiedendosi se fosse normale o meno per un farmacista del suo calibro avere una conversazione del genere. «L'ombra è l'area del nostro corpo proiettata su una qualsiasi superficie.»
Il biondo scosse la testa con aria saccente. «No, io stavo parlando delle ombre nere. Sono delle creature che vengono a trovarmi ogni notte e mi impediscono di dormire bene. Non voglio che lei le scacci via, perché so che non ne sarebbe in grado. Nessuno può, solo io. Il fatto è che ieri notte ho visto anche del rosso, in mezzo al nero. E' la prima volta che succede.»
«Ecco, io... Io credo di non poterti aiutare.», mormorò l'uomo, avviandosi verso il corridoio con aria esasperata. «Vedi, io non sono uno psicologo.»
Roxas, a quella risposta, annuì appena, senza lasciare però trasparire alcuna emozione; seguì il dottore e uscì attraverso il piccolo sportello. Fece per andarsene, lasciando finalmente il turno agli altri clienti, quando si voltò di scatto, ottenendo nuovamente l'attenzione dell'uomo. «Mi scusi, ma che cos'è uno psicologo?»




Quella sera non mangiò molto a cena e quando si ritrovò immerso nelle tenebre della propria camera, non riuscì ad immaginare quasi nulla.
Tentò di pensare alla neve azzurra, ma essa si sciolse tra le sue mani.
Cercò allora il prato verde su cui giacevano le tenere goccioline di rugiada, ma anche esso svanì nel nulla.
Si sforzò di vedere le arcobalene, ma loro non erano che macchie sbiadite e quasi invisibili.
Si sdraiò allora sul letto e pensò alle mani sbucciate, al sangue dal naso, alle gambe doloranti e al cuore che batteva all'impazzata. Pensò al dottore, alle sue parole e al fatto che poteva andare da lui quando voleva.
Non era riuscito a trovare né la fabbrica, né il generale.
Quel pensiero lo turbò particolarmente perché si strinse le gambe al petto e sembrò sul punto di piangere, quando la luce tornò a fargli compagnia, girando, girando e girando all'infinito.
«Vattene via.», mormorò Roxas voltandosi dall'altra parte prima di chiudere di scatto gli occhi. «Tanto ormai lo so che non c'è nessuna fabbrica, smettila di prenderti gioco di me.»
Poi, galleggiando tra le proprie angosce e paure, il pensiero del mare si fece più nitido degli altri.
Gli sembrò di sentire davvero il profumo dell'acqua salata, il rumore delle onde, il bianco della schiuma in contrasto con il nero dell'acqua e del cielo... Roxas riaprì di scatto gli occhi e si mise a sedere sul letto, quasi fosse stato svegliato da un rumore improvviso.
Il mare non era una sua immaginazione, ma un ricordo vivo nella sua mente. Aveva vissuto davvero quell'esperienza, aveva visto veramente il mare, aveva sentito il suo profumo.
Il mare esisteva e lui era riuscito a vederlo.
Forse poteva tornare laggiù, sul mare. A guardarlo. A sentire il profumo dell'acqua salata. A vedere la luce che girava. Forse il generale non era riuscito a riconoscerlo, in mezzo alle tenebre. Invece di presentarsi decentemente, era fuggito via. Ma che razza di prescelto era?
Si alzò e si avviò verso la finestra, appoggiando una mano sul vetro con aria assorta, lasciando nel frattempo che la luce continuasse ad illuminarlo.
E, per la prima volta, guardando il mondo non provò paura o terrore, né sentì i brividi lungo la schiena. Vide soltanto il mare e la torre che illuminava la sua stanza.
Quella notte, prima di cadere tra le mani delle ombre nere, pregò di riuscire ad incontrare il generale.
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HTML Online Editor Sample  

*Note di Ev'*
Omg, vorrei dire così tante cose, ma al tempo stesso non so proprio da dove cominciare.
Ehi, ma ho appena pubblicato la mia prima storia dell'anno!
-Sì, chissenefrega, andiamo avanti.
Allora, uhm, salve a tutti.
Questa storia avrei voluto pubblicarla l'altro ieri, ma sono riuscita a finirla soltanto ieri e, data la sua estrema lunghezza, per rileggerla almeno trè volte e correggerla mi ci è voluto più di un'ora e mezza. Non parliamo poi dell'HTML, che, puntualmente, mi fa impazzire.
Oh, e questa storia avrebbe dovuto essere una One-shot. Era da un bel po' che avevo questa idea in testa, infatti avevo già scritto trè introduzioni, ma poi ho cancellato tutto e sono ripartita da zero.
Allora, la cosa che c'è all'inizio non saprei neanche come definirla. Una poesia? Una breve presentazione? Boh, l'ho scritta sul momento e mi sembrava adeguata per permettere al lettore di focalizzare meglio la storia.
Andiamo avanti. Roxas è un bambino imprigionato nel corpo di un sedicenne. E' ingenuo, molto ingenuo, non sa quasi nulla del mondo che lo circonda e non fa altro che immaginare e farsi seghe mentali dalla mattina alla sera (Soprattutto alla sera, però).
Perché? Perché sua madre, in questi lunghi anni, non gli ha permesso di fare nulla. Non gli ha parlato di niente, è stata iper-protettetiva e bla, bla, bla... Perché? Beh, questo si scoprirà nel capitolo successivo, credo.
Ma torniamo al nostro caro protagonista; egli scopre, improvvisamente, la presenza di questa misteriosa luce e, dopo essere stato praticamente mandato a 'fanculo dal panettiere, decide di uscire di notte e di scoprire da dove proviene.
Non so se si capisca che cosa sia davvero la luce; e, sinceramente, per me va bene in entrambi i casi, ma, per sicurezza, non anticiperò ancora nulla.
Facciamo finta di essere tutti rincoglioniti come Roxas.
Quest'ultimo, comunque, arriva a destinazione e scopre la mistica esistenza del mare.
Succede quel che succede, e poi saltiamo alla mattina successiva, dove decide di recarsi per la prima volta dal dottor- cioè, dal farmacista. Spara le sue solite boiate e tanti saluti.
Nell'ultimo frammento della storia vediamo invece un Roxas pensieroso, assorto; egli si accorge infatti di aver vissuto davvero per la prima volta. Desidera ardentemente vedere posti nuovi, esplorarli, e il mare, incredibilmente, è riuscito in parte a soddisfare questo suo desiderio.
Ripeto, questa storia non è finita. Il capitolo successivo, comunque, sarà già l'ultimo. Io avrei voluto rendere la fan fiction autoconclusiva, ma sarebbe risultata troppo lunga e pesante (E, inoltre, non ho ancora scritto il resto); ecco, diciamo che è lo stesso discorso che avevo fatto per 'Dirty Pages'.
Forse questo capitolo è stato noioso e monotono, non lo so, ma sappiate che nel capitolo successivo succederanno certamente molte più cose.
Ah, e volevo precisare una cosa: non sono deficiente, so perfettamente che si dice 'arcobaleno' e non 'arcobalena', il fatto è che Roxas ha un cervello che funziona a modo suo. <3


Pareri personali su questa storia? Non saprei, sinceramente. L'idea non mi sembra tanto brutta, ma boh... Questo, in fondo, dovete deciderlo voi.
E, a proposito di recensioni, volevo dire a tutti che vi amo. L'ultima storia mi era sembrata vera e propria spazzatura, ma con i vostri commenti, cioè, oddio... Siete meravigliosi, punto. Amo le vostre recensioni, non immaginate neanche lontanamente l'importanza che hanno i lettori per gli auturi e gli scrittori, dico davvero.
Detto ciò, vi incito a recensire perché, come ho già detto fino alla nausea, questo è un sito su cui bisogna confrontarsi e i pareri altrui sono essenziali.



Buon anno a tutti. Vi auguro felicità e bla, bla, bla... Ma sì, chissenefotte.
Passate bene l'ultima settimana (Adesso vi ho rovinato la giornata, eh?) di vacanza, mi raccomando.
Alla prossima.
E.P.R.

 

   
 
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