IL MIO NEMICO
Di
lì a poco avrei dovuto adempiere al mio compito, uccidere il
nemico, ci avevano
addestrato per quello, e solo quello doveva essere il nostro obbiettivo
da
portare a termine.
Mi
infilai gli abiti neri per la missione, gli stessi che indossavamo
tutti noi
anonimi agenti della guardia segreta nazionale. Mi avevano dato la
scheda del
bersaglio, era un ragazzo di ventidue anni, incredibilmente giovane,
incredibilmente spietato; ricercato in molte nazioni, agiva come
killer,
assoldato da una delle squadre criminali più potenti degli
ultimi anni. Non
sarebbe stata una missione semplice, così me
l’avevano descritta.
Mi
legai i capelli in una treccia molto stretta che nascosi nel cappuccio
della
giacca, e camminando per il lungo corridoio continuai a leggere il suo
curriculum. C’era solo una foto, spillata al margine del
foglio sottile, dalla
quale però non era identificabile, e non
era difficile capirne il motivo: in ogni suo delitto indossava una
maschera
bianca dall’espressione neutra, che gli ricopriva
completamente il volto,
lasciando scoperta solo la parte posteriore della testa. Non si era mai
fatto
scoprire direttamente, era preciso e veloce. Lo avevano rinominato
l’angelo
della morte nel suo campo, e dalla lista delle vittime che aveva
mietuto non
potevo dargli torto.
Erano
riusciti a rintracciato tramite due telefonate, nella scheda era
riportato il
luogo e l’orario preciso dove avrebbe messo fine
all’ennesima vita umana.
Gli
sfortunati erano per lo più uomini molto potenti e di solito
irraggiungibili,
le motivazioni erano le più svariate: debiti, torti fatti
alla banda criminale,
ricatti, vendette. Rilessi ancora i suoi dati personali: ventidue anni,
alto un
metro e ottantatre centimetri, capelli scuri, colore iridi non
identificato.
Chiusi gli occhi e cercai di immaginarlo, e per un attimo nella mia
mente
apparve il volto di una persona che avevo cercato di dimenticare da
tempo…l’unica persona che avevo amato veramente.
Tre
anni prima.
Eravamo
all’ultimo anno di addestramento speciale, noi, i paladini,
gli anonimi
giustizieri. Eravamo stati scelti tra tanti orfani, allevati come
guerrieri,
future guardie senza cuore e senza anime, eravamo cresciuti
così senza l’amore
di un padre e di una madre, eppure, quando lo guardavo di sottecchi, il
mio
cuore batteva forte.
Era
sempre stato il migliore in tutto, intelligente, forte abile, era la
punta di
diamante della squadra. Per me era un idolo, lo ammiravo e allo stesso
tempo lo
invidiavo, perché riceveva le attenzioni di tutti, ma in
quegli ultimi tempi
era nato in me un sentimento strano, nuovo, che non avevo mai provato.
Ci
esercitavamo insieme, e ogni volta che sfiorava la mia mano, anche
minimamente,
quella sensazione di torpore mi avvolgeva come una coperta calda in
inverno.
Poi
un giorno se ne andò, lasciando tutti di sasso, sbalorditi
dal cambiamento che
aveva fatto in quegli ultimi mesi, era diventato silenzioso, ogni sera
si
chiudeva nella sua stanza a rimuginare. Il capo chino sul pavimento,
osservava
qualcosa che solo lui poteva vedere, che solo lui poteva comprendere.
Tutti
sapevano che era scappato per cause sconosciute, forse un eccessiva
pressione
da parte dell’agenzia, altri dicevano che fosse morto, dato
che uscire dalla
guardia nazionale segreta, era impossibile. Alcuni sostenevano che
sapesse
troppo, segreti nazionali, segreti inviolabili, e per questo
l’avevano fatto
fuori, d’altronde noi eravamo solo pedine. Io al contrario di
tutti loro
conoscevo la verità.
Presente.
Mancava
un’ora, un’ora soltanto e sarebbe giunto per
mietere la sua preda. Io attendevo
in silenzio nel condotto di areazione, tra la polvere e il caldo
soffocante,
che avevo imparato a sopportare.
Mi
era stato detto che si sarebbe piazzato nella stanza circa trentacinque
minuti
prima dell’omicidio, per adeguarsi alla situazione, a
ciò che lo circondava. In
quei trentacinque minuti, io dovevo ucciderlo, cancellare le prove del
suo, e
del mio passaggio, e portare il cadavere all’agenzia.
I
primi passi mi destarono da quello strano stato di veglia passiva, lo
sentii
girare il pomello, aprire la porta, ed entrare, passo felpato e ben
calibrato,
di chi ha già calcolato tutto nei minimi dettagli.
Potevo
vederlo solo di spalle, indossava una giacca grigio scuro, e dei
comunissimi
jeans, che aderivano alle gambe lunghe e slanciate, capelli neri,
tagliati
corti, si muoveva agile e veloce nella stanza, con una grazia e un
armonia che mi
erano familiari. Distolsi subito il pensiero che velocemente mi
affiorò nella
mente e mi concentrai, dovevo attendere il momento giusto per agire. Ad
un
tratto si voltò verso il condotto di areazione, come era
possibile che mi
avesse notata? Rimasi immobile, osservando quella strana maschera
bianca, così
inespressiva e così terrificante. Lo guardai avvicinarsi, e
ancora una volta
quella camminata mi rimandò alla mente vecchi ricordi. Una
volta che fu ad un
metro da me, lo vidi svoltare e controllare alcuni cassetti della
scrivania
color mogano alla sua destra. Il mio battito decelerò, per
poi accelerare di
nuovo, era il momento di agire, mi dava di nuovo le spalle, e sembrava
totalmente assorto nel suo compito. Avrei avuto qualche secondo in
più per
mobilitarmi una volta sfondata la grata del condotto di areazione.
Eseguii
facendo più rumore di quanto immaginassi, il nemico si
girò immediatamente,
portando lo sguardo inespressivo della maschera sul mio viso. Con mio
grande
stupore rimase immobile senza far niente. Lo osservai qualche secondo,
cercando
di calibrare la sua prossima mossa.
Niente.
Non
agiva. Sentivo il suo respiro irregolare e agitato, lo guardai ancora
una
volta, poi partii alla carica, gli sferrai un pugno dritto al volto, mi
deviò
senza contrattaccare, ne sferrai un altro, ma la sua reazione fu la
stessa, mi
evitava sfuggendomi ogni volta, tentai di calciarlo, combinando le
più disparate
tecniche di combattimento che avevo appreso negli anni di
addestramento, ma
sembrava prevedere ogni mossa, deviandola senza mai sferrare un colpo.
Feci una
finta per poi colpirlo a fondo nello stomaco, ero andata a segno, in un
primo
momento sembrò incassare sofferente, ma poi alzò
il volto o meglio, la
maschera, osservandomi negli occhi, così profondamente, non
mi lasciai
abbindolare, così approfittando della sua temporanea
situazione di
disequilibrio, cercai di proiettarlo a terra calciandogli la gamba, ma
non ebbe
esito positivo, perché riuscì a ribaltare
immediatamente la situazione,
sottomettendomi, a quel punto era completamente sopra di me.
Con
le ginocchia mi bloccò le gambe e con una mano i miei esili
polsi, imprecai
mentalmente, come poteva essere così forte? Avevo usato
delle tecniche
sconosciute al di fuori della guardia nazionale, ma le aveva evitate.
Avevo il
respiro accelerato, e anche lui, potevo sentirlo. Avevo fallito
miseramente, perché
non mi finiva, uccidendomi? perché continuava a fissarmi.
“Vattene!”
Mi disse poi avvicinandosi al mio orecchio, con una voce che non
riuscii a
distinguere per via della maschera che portava.
Allentò
la presa ai polsi, ma non si allontanò dal mio viso,
sembrava come immobile
vicino alla mia guancia. Mi lasciò andare totalmente i
polsi, poi le gambe e si
alzò, facendomi cenno di andarmene. Eseguii, mi avviai verso
la porta, infilai
velocemente la mano in tasca e premetti l’allarme per
ricevere soccorsi
immediati, calcolai che sarebbero arrivati dopo venti minuti dalla
chiamata, a
quel punto mi girai verso di lui e giocai la mia ultima carta, estrassi
la
pistola munita di silenziatore e gliela puntai contro, nonostante il
capo
avesse ben espresso di non usare armi da fuoco in questa missione.
“Alza
le mani sopra la testa!” Gli gridai, il ragazzo
eseguì immediatamente l’ordine
avvicinandosi. Sapevo che il mio compito era ucciderlo, ma prima volevo
vedere
il suo volto, la sua espressione, sentire la sua voce, dopotutto era
pur sempre
una persona…
“Non
ti avvicinare!” Urlai, il ragazzo sembrava non avermi
sentito, perché continuò
ad avanzare.
“Mi
sparerai?” Sussurrò poi, abbastanza forte ,che
riuscii a sentirlo.
“Togliti
la maschera!” Gli ordinai. Il ragazzo si portò le
mani al viso, poi con un
gesto lentissimo si tolse quello strano involucro bianco facendolo
cadere a terra.
Incrociare
quegli occhi grigi, dopo così tanto tempo, bastò
per farmi cadere la pistola
dalle mani.
Le
lacrime mi salirono immediatamente agli occhi, prepotenti, senza
lasciarmi la
forza di ricacciarle indietro. E come un fiume in piena tutti quei
ricordi
riaffiorarono alla mente.
Quell’addio
così dolce, e così sofferto, quel corpo
così forte e caldo che mi stringeva tra
le sue braccia in quel freddo letto di caserma. E per una volta le sue
mani su
di me come carezze, dolci e gentili, senza violenza, senza
combattimenti. Un
ultimo bacio dopo avermi confessato tutta la verità. Un
ultima volta per
sfiorargli quelle labbra che non avrei mai più rivisto.
“Perché?
Perché non te ne sei andata quando te lo avevo
detto…perché?” Ripeté
inginocchiandosi di fronte a me, guardandomi negli occhi, adesso capivo
perché
non aveva osato contrattaccare ai miei colpi. Avvicinò
lentamente la mano al
mio viso, spostando le ciocche bionde che sfuggivano dalla treccia
ormai
sfatta, tastandone la consistenza.
“Io…io
devo ucciderti…” Balbettai, cercando di
raccogliere la pistola. Lui non mosse
un dito, niente di niente, si sarebbe anche fatto uccidere, o forse
sapeva
benissimo che non ne avrei mai avuta la forza.
“Tu
sei il mio nemico”
Sillabai
impugnandola e puntandogliela contro.
“Allora
uccidimi!” Esclamò freddamente Abbassò
le mani, poggiandole sulle ginocchia,
pronto ad accogliere la morte. Le mie dita tremavano sul grilletto, non
sarei
mai riuscita ad uccidere l’uomo che amavo, lasciai nuovamente
cadere la
pistola, e mi gettai tra le sue braccia piangendo. “Quanto mi
sei mancato…” Sussurrai
tra i singhiozzi.
“Tre
anni per Dio. Tre anni a cercarti sugli archivi, pregando che non ti
avessero
ucciso…”.
Se
ne era andato la notte dopo avermi detto che mi amava.
Perché solo allora? Mi
spiegò che per lui era importante ritrovare il padre, che
aveva scovato sugli
archivi dell’agenzia. Se n’era andato
abbandonandomi.
“Alla
fine mi hai ritrovato” Affermò. Mi avvicinai
sfiorandogli le labbra con le mie
in un bacio, al quale non rispose.
“E
tu? Tu hai ritrovato tuo padre?” Gli chiesi guardandolo negli
occhi, lasciando
trasparire un rancore represso da tempo.
“Si”
rispose immediatamente. “Come avevo scoperto, è il
capo di una famosa banda
criminale, in tutto questo tempo ho lavorato per lui come killer
assoldato,
sfruttando le conoscenze acquisite negli anni in
agenzia…”
“E
adesso?” Gli chiesi.
“E’
diverso da come lo avevo immaginato, è freddo, cinico e
spietato, ma d’altronde
era comprensibile per una persona che cede il proprio figlio ad un ente
nazionale segreto come garanzia…mi ha
venduto…venduto per la sua libertà, per
garantire che non avrebbe più errato…ma come vedi
continua ad essere il
mandante di molti omicidi…alla fine di tutto ciò
lo ucciderò, ed avrò la mia
vendetta” Disse tali parole con una freddezza che quasi mi
sconvolse. In quegli
anni era cambiato, forse l’indole del padre si era trasmessa
al figlio,perché
quegli occhi così grigi brillavano di una follia che non
avevo mai notato…ma da
un certo punto di vista era capibile, come tutti noi era stato
abbandonato a se
stesso, anzi, nel suo caso tradito...
“Non
sarei mai riuscita a ucciderti” Ammisi con una certa
titubanza, cercando di
spostare la conversazione su di noi.
“Non
ne ero totalmente certo, avresti dovuto, dopotutto, era la tua
missione…e hai
fallito” Mi disse con una certa freddezza nel tono della
voce. Come era
possibile che dicesse quelle cose? Era cambiato così
radicalmente, si era fatto
contagiare dal veleno del padre così in
profondità da colpevolizzarmi per aver
ceduto ai sentimenti? Per averlo risparmiato fallendo una missione?
“Come puoi
pensare alla missione!? Ma stai parlando sul serio?” Ribattei
arrabbiata. “Dopotutto
è il tuo lavoro, e in un angolo del mio cuore desideravo tu
mi avessi
dimenticato” Gli diedi uno schiaffo con tutta la rabbia che
avevo in corpo, ma
non servì a scuotermi di quella sensazione di inquietudine e
incomprensione, mi
sentii di nuovo sola.
“Io
ti amo…e non ho mai smesso di amarti in tutti questi tre
anni” Sillabai
scoppiando a piangere di nuovo. Lui mi guardò freddamente,
quasi avesse
scordato cosa volesse dire amare. La persona che avevo di fronte non
era la
stessa che avevo conosciuto da adolescente? Qualcosa in lui si era
rotto, forse
per sempre.
“Come
puoi essere cambiato così tanto?” Gli chiesi
mordendomi il labbro inferiore,
sperando che il vero lui riaffiorasse almeno in superficie, almeno per
un
attimo.
“Anche
tu dovresti essere cresciuta…e comprendere che una notte
insieme non vuol dire
amore” Si limitò a rispondermi.
In
quella breve frase aveva semplicemente distrutto la mia esistenza,
così come le
onde del mare distruggono un cumolo di sabbia sul bagnasciuga. Mi alzai
e feci
per andarmene, sentivo ancora il suo sguardo grigio su di me, grigio
come ormai
era la sua anima, priva di colore e di emozioni, grigia come ci avevano
cresciuto, senza cuore e senza amore.
Feci
per aprire la porta, quando nella stanza irruppero due agenti, solo in
quel
momento ricordai di aver chiamato i rinforzi, lo avrebbero ucciso.
Mi
guardarono perplessi, poi puntarono la pistola verso di lui, e non so
perché,
forse per un istinto, o forse per amore, quell’amore che non
mi avrebbe mai
abbandonata, qualunque cosa lui mi dicesse...non so perché,
ma mi gettai
davanti al suo corpo, schermando le pallottole e proteggendolo, caddi a
terra tramortita
dal dolore, ma ancora
abbastanza cosciente, per vedere un immagine confusa e sfocata, riconoscere il suo profilo
raccogliere la mia
pistola a terra e sparare ai due alla testa, uccidendoli.
Adesso
sono qui tra le sue braccia, sento le sue lacrime, sono calde e salate,
lacrime
umane che mi bagnano il viso. Allora non hai smesso di amare..?! Vorrei
dirgli,
ma non ne ho la forza, la vita mi sta abbandonando, sento la sua voce
riecheggiare in lontananza, non ho paura, non sono triste,
perché mi sta
dicendo che mi ama, me lo sta gridando, e lo ascolto, mentre le sue
labbra mi
sfiorano il viso, mentre le sue mani si macchiano del mio sangue
cercando di
arrestare inutilmente l’emorragia.
Almeno
una volta, amore mio, ho avuto la gioia di rivedere il tuo sorriso,
senza
l’oscura ombra della spietatezza omicida e la mancanza di
amore che questa vita
ci ha dato. Non
c’è più luce per me in
questa stanza, ma sento la sua voce inconfondibile, poi un rumore
metallico, lo
sento piangere, afferrare qualcosa, le mani gli tremano riesco a
sentirlo,
tutto il suo corpo sta tremando, lo sento caricare il colpo, sento la
vita
sfuggirmi via, poi un rumore sordo, e il suo corpo che si accascia
sopra il mio.
Poi il niente.