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Autore: Allyn    02/01/2013    2 recensioni
“Io…io devo ucciderti…” Balbettai, cercando di raccogliere la pistola. Lui non mosse un dito, niente di niente, si sarebbe anche fatto uccidere, o forse sapeva benissimo che non ne avrei mai avuta la forza.
“Tu sei il mio nemico” Sillabai impugnandola e puntandogliela contro.
“Allora uccidimi!” Esclamò freddamente Abbassò le mani, poggiandole sulle ginocchia, pronto ad accogliere la morte.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL MIO NEMICO

 

 

Di lì a poco avrei dovuto adempiere al mio compito, uccidere il nemico, ci avevano addestrato per quello, e solo quello doveva essere il nostro obbiettivo da portare a termine.

Mi infilai gli abiti neri per la missione, gli stessi che indossavamo tutti noi anonimi agenti della guardia segreta nazionale. Mi avevano dato la scheda del bersaglio, era un ragazzo di ventidue anni, incredibilmente giovane, incredibilmente spietato; ricercato in molte nazioni, agiva come killer, assoldato da una delle squadre criminali più potenti degli ultimi anni. Non sarebbe stata una missione semplice, così me l’avevano descritta.

Mi legai i capelli in una treccia molto stretta che nascosi nel cappuccio della giacca, e camminando per il lungo corridoio continuai a leggere il suo curriculum. C’era solo una foto, spillata al margine del foglio sottile,  dalla quale però non era identificabile, e non era difficile capirne il motivo: in ogni suo delitto indossava una maschera bianca dall’espressione neutra, che gli ricopriva completamente il volto, lasciando scoperta solo la parte posteriore della testa. Non si era mai fatto scoprire direttamente, era preciso e veloce. Lo avevano rinominato l’angelo della morte nel suo campo, e dalla lista delle vittime che aveva mietuto non potevo dargli torto.

Erano riusciti a rintracciato tramite due telefonate, nella scheda era riportato il luogo e l’orario preciso dove avrebbe messo fine all’ennesima vita umana.

Gli sfortunati erano per lo più uomini molto potenti e di solito irraggiungibili, le motivazioni erano le più svariate: debiti, torti fatti alla banda criminale, ricatti, vendette. Rilessi ancora i suoi dati personali: ventidue anni, alto un metro e ottantatre centimetri, capelli scuri, colore iridi non identificato. Chiusi gli occhi e cercai di immaginarlo, e per un attimo nella mia mente apparve il volto di una persona che avevo cercato di dimenticare da tempo…l’unica persona che avevo amato veramente.

 

                                                                                                      

Tre anni prima.

 

Eravamo all’ultimo anno di addestramento speciale, noi, i paladini, gli anonimi giustizieri. Eravamo stati scelti tra tanti orfani, allevati come guerrieri, future guardie senza cuore e senza anime, eravamo cresciuti così senza l’amore di un padre e di una madre, eppure, quando lo guardavo di sottecchi, il mio cuore batteva forte.

Era sempre stato il migliore in tutto, intelligente, forte abile, era la punta di diamante della squadra. Per me era un idolo, lo ammiravo e allo stesso tempo lo invidiavo, perché riceveva le attenzioni di tutti, ma in quegli ultimi tempi era nato in me un sentimento strano, nuovo, che non avevo mai provato.

Ci esercitavamo insieme, e ogni volta che sfiorava la mia mano, anche minimamente, quella sensazione di torpore mi avvolgeva come una coperta calda in inverno.

Poi un giorno se ne andò, lasciando tutti di sasso, sbalorditi dal cambiamento che aveva fatto in quegli ultimi mesi, era diventato silenzioso, ogni sera si chiudeva nella sua stanza a rimuginare. Il capo chino sul pavimento, osservava qualcosa che solo lui poteva vedere, che solo lui poteva comprendere. Tutti sapevano che era scappato per cause sconosciute, forse un eccessiva pressione da parte dell’agenzia, altri dicevano che fosse morto, dato che uscire dalla guardia nazionale segreta, era impossibile. Alcuni sostenevano che sapesse troppo, segreti nazionali, segreti inviolabili, e per questo l’avevano fatto fuori, d’altronde noi eravamo solo pedine. Io al contrario di tutti loro conoscevo la verità.

 

Presente.

 

Mancava un’ora, un’ora soltanto e sarebbe giunto per mietere la sua preda. Io attendevo in silenzio nel condotto di areazione, tra la polvere e il caldo soffocante, che avevo imparato a sopportare.

Mi era stato detto che si sarebbe piazzato nella stanza circa trentacinque minuti prima dell’omicidio, per adeguarsi alla situazione, a ciò che lo circondava. In quei trentacinque minuti, io dovevo ucciderlo, cancellare le prove del suo, e del mio passaggio, e portare il cadavere all’agenzia.

 

I primi passi mi destarono da quello strano stato di veglia passiva, lo sentii girare il pomello, aprire la porta, ed entrare, passo felpato e ben calibrato, di chi ha già calcolato tutto nei minimi dettagli.

Potevo vederlo solo di spalle, indossava una giacca grigio scuro, e dei comunissimi jeans, che aderivano alle gambe lunghe e slanciate, capelli neri, tagliati corti, si muoveva agile e veloce nella stanza, con una grazia e un armonia che mi erano familiari. Distolsi subito il pensiero che velocemente mi affiorò nella mente e mi concentrai, dovevo attendere il momento giusto per agire. Ad un tratto si voltò verso il condotto di areazione, come era possibile che mi avesse notata? Rimasi immobile, osservando quella strana maschera bianca, così inespressiva e così terrificante. Lo guardai avvicinarsi, e ancora una volta quella camminata mi rimandò alla mente vecchi ricordi. Una volta che fu ad un metro da me, lo vidi svoltare e controllare alcuni cassetti della scrivania color mogano alla sua destra. Il mio battito decelerò, per poi accelerare di nuovo, era il momento di agire, mi dava di nuovo le spalle, e sembrava totalmente assorto nel suo compito. Avrei avuto qualche secondo in più per mobilitarmi una volta sfondata la grata del condotto di areazione. Eseguii facendo più rumore di quanto immaginassi, il nemico si girò immediatamente, portando lo sguardo inespressivo della maschera sul mio viso. Con mio grande stupore rimase immobile senza far niente. Lo osservai qualche secondo, cercando di calibrare la sua prossima mossa.

Niente.

Non agiva. Sentivo il suo respiro irregolare e agitato, lo guardai ancora una volta, poi partii alla carica, gli sferrai un pugno dritto al volto, mi deviò senza contrattaccare, ne sferrai un altro, ma la sua reazione fu la stessa, mi evitava sfuggendomi ogni volta, tentai di calciarlo, combinando le più disparate tecniche di combattimento che avevo appreso negli anni di addestramento, ma sembrava prevedere ogni mossa, deviandola senza mai sferrare un colpo. Feci una finta per poi colpirlo a fondo nello stomaco, ero andata a segno, in un primo momento sembrò incassare sofferente, ma poi alzò il volto o meglio, la maschera, osservandomi negli occhi, così profondamente, non mi lasciai abbindolare, così approfittando della sua temporanea situazione di disequilibrio, cercai di proiettarlo a terra calciandogli la gamba, ma non ebbe esito positivo, perché riuscì a ribaltare immediatamente la situazione, sottomettendomi, a quel punto era completamente sopra di me.

Con le ginocchia mi bloccò le gambe e con una mano i miei esili polsi, imprecai mentalmente, come poteva essere così forte? Avevo usato delle tecniche sconosciute al di fuori della guardia nazionale, ma le aveva evitate. Avevo il respiro accelerato, e anche lui, potevo sentirlo. Avevo fallito miseramente, perché non mi finiva, uccidendomi? perché continuava a fissarmi.

“Vattene!” Mi disse poi avvicinandosi al mio orecchio, con una voce che non riuscii a distinguere per via della maschera che portava.

Allentò la presa ai polsi, ma non si allontanò dal mio viso, sembrava come immobile vicino alla mia guancia. Mi lasciò andare totalmente i polsi, poi le gambe e si alzò, facendomi cenno di andarmene. Eseguii, mi avviai verso la porta, infilai velocemente la mano in tasca e premetti l’allarme per ricevere soccorsi immediati, calcolai che sarebbero arrivati dopo venti minuti dalla chiamata, a quel punto mi girai verso di lui e giocai la mia ultima carta, estrassi la pistola munita di silenziatore e gliela puntai contro, nonostante il capo avesse ben espresso di non usare armi da fuoco in questa missione.

“Alza le mani sopra la testa!” Gli gridai, il ragazzo eseguì immediatamente l’ordine avvicinandosi. Sapevo che il mio compito era ucciderlo, ma prima volevo vedere il suo volto, la sua espressione, sentire la sua voce, dopotutto era pur sempre una persona…

“Non ti avvicinare!” Urlai, il ragazzo sembrava non avermi sentito, perché continuò ad avanzare.

“Mi sparerai?” Sussurrò poi, abbastanza forte ,che riuscii a sentirlo.

“Togliti la maschera!” Gli ordinai. Il ragazzo si portò le mani al viso, poi con un gesto lentissimo si tolse quello strano involucro bianco facendolo cadere a terra.

Incrociare quegli occhi grigi, dopo così tanto tempo, bastò per farmi cadere la pistola dalle mani.

Le lacrime mi salirono immediatamente agli occhi, prepotenti, senza lasciarmi la forza di ricacciarle indietro. E come un fiume in piena tutti quei ricordi riaffiorarono alla mente.

Quell’addio così dolce, e così sofferto, quel corpo così forte e caldo che mi stringeva tra le sue braccia in quel freddo letto di caserma. E per una volta le sue mani su di me come carezze, dolci e gentili, senza violenza, senza combattimenti. Un ultimo bacio dopo avermi confessato tutta la verità. Un ultima volta per sfiorargli quelle labbra che non avrei mai più rivisto.

 

“Perché? Perché non te ne sei andata quando te lo avevo detto…perché?” Ripeté inginocchiandosi di fronte a me, guardandomi negli occhi, adesso capivo perché non aveva osato contrattaccare ai miei colpi. Avvicinò lentamente la mano al mio viso, spostando le ciocche bionde che sfuggivano dalla treccia ormai sfatta, tastandone la consistenza.

“Io…io devo ucciderti…” Balbettai, cercando di raccogliere la pistola. Lui non mosse un dito, niente di niente, si sarebbe anche fatto uccidere, o forse sapeva benissimo che non ne avrei mai avuta la forza.

“Tu sei il mio nemico” Sillabai impugnandola e puntandogliela contro.

“Allora uccidimi!” Esclamò freddamente Abbassò le mani, poggiandole sulle ginocchia, pronto ad accogliere la morte. Le mie dita tremavano sul grilletto, non sarei mai riuscita ad uccidere l’uomo che amavo, lasciai nuovamente cadere la pistola, e mi gettai tra le sue braccia piangendo. “Quanto mi sei mancato…” Sussurrai tra i singhiozzi.

“Tre anni per Dio. Tre anni a cercarti sugli archivi, pregando che non ti avessero ucciso…”.

Se ne era andato la notte dopo avermi detto che mi amava. Perché solo allora? Mi spiegò che per lui era importante ritrovare il padre, che aveva scovato sugli archivi dell’agenzia. Se n’era andato abbandonandomi.

“Alla fine mi hai ritrovato” Affermò. Mi avvicinai sfiorandogli le labbra con le mie in un bacio, al quale non rispose.

“E tu? Tu hai ritrovato tuo padre?” Gli chiesi guardandolo negli occhi, lasciando trasparire un rancore represso da tempo.

“Si” rispose immediatamente. “Come avevo scoperto, è il capo di una famosa banda criminale, in tutto questo tempo ho lavorato per lui come killer assoldato, sfruttando le conoscenze acquisite negli anni in agenzia…”

“E adesso?” Gli chiesi.

“E’ diverso da come lo avevo immaginato, è freddo, cinico e spietato, ma d’altronde era comprensibile per una persona che cede il proprio figlio ad un ente nazionale segreto come garanzia…mi ha venduto…venduto per la sua libertà, per garantire che non avrebbe più errato…ma come vedi continua ad essere il mandante di molti omicidi…alla fine di tutto ciò lo ucciderò, ed avrò la mia vendetta” Disse tali parole con una freddezza che quasi mi sconvolse. In quegli anni era cambiato, forse l’indole del padre si era trasmessa al figlio,perché quegli occhi così grigi brillavano di una follia che non avevo mai notato…ma da un certo punto di vista era capibile, come tutti noi era stato abbandonato a se stesso, anzi, nel suo caso tradito...

“Non sarei mai riuscita a ucciderti” Ammisi con una certa titubanza, cercando di spostare la conversazione su di noi.

“Non ne ero totalmente certo, avresti dovuto, dopotutto, era la tua missione…e hai fallito” Mi disse con una certa freddezza nel tono della voce. Come era possibile che dicesse quelle cose? Era cambiato così radicalmente, si era fatto contagiare dal veleno del padre così in profondità da colpevolizzarmi per aver ceduto ai sentimenti? Per averlo risparmiato fallendo una missione? “Come puoi pensare alla missione!? Ma stai parlando sul serio?” Ribattei arrabbiata. “Dopotutto è il tuo lavoro, e in un angolo del mio cuore desideravo tu mi avessi dimenticato” Gli diedi uno schiaffo con tutta la rabbia che avevo in corpo, ma non servì a scuotermi di quella sensazione di inquietudine e incomprensione, mi sentii di nuovo sola.

“Io ti amo…e non ho mai smesso di amarti in tutti questi tre anni” Sillabai scoppiando a piangere di nuovo. Lui mi guardò freddamente, quasi avesse scordato cosa volesse dire amare. La persona che avevo di fronte non era la stessa che avevo conosciuto da adolescente? Qualcosa in lui si era rotto, forse per sempre.

“Come puoi essere cambiato così tanto?” Gli chiesi mordendomi il labbro inferiore, sperando che il vero lui riaffiorasse almeno in superficie, almeno per un attimo.

“Anche tu dovresti essere cresciuta…e comprendere che una notte insieme non vuol dire amore” Si limitò a rispondermi.

In quella breve frase aveva semplicemente distrutto la mia esistenza, così come le onde del mare distruggono un cumolo di sabbia sul bagnasciuga. Mi alzai e feci per andarmene, sentivo ancora il suo sguardo grigio su di me, grigio come ormai era la sua anima, priva di colore e di emozioni, grigia come ci avevano cresciuto, senza cuore e senza amore.

Feci per aprire la porta, quando nella stanza irruppero due agenti, solo in quel momento ricordai di aver chiamato i rinforzi, lo avrebbero ucciso.

Mi guardarono perplessi, poi puntarono la pistola verso di lui, e non so perché, forse per un istinto, o forse per amore, quell’amore che non mi avrebbe mai abbandonata, qualunque cosa lui mi dicesse...non so perché, ma mi gettai davanti al suo corpo, schermando le pallottole e proteggendolo, caddi a terra  tramortita dal dolore, ma ancora abbastanza cosciente, per vedere un immagine confusa e sfocata,  riconoscere il suo profilo raccogliere la mia pistola a terra e sparare ai due alla testa, uccidendoli.

 

Adesso sono qui tra le sue braccia, sento le sue lacrime, sono calde e salate, lacrime umane che mi bagnano il viso. Allora non hai smesso di amare..?! Vorrei dirgli, ma non ne ho la forza, la vita mi sta abbandonando, sento la sua voce riecheggiare in lontananza, non ho paura, non sono triste, perché mi sta dicendo che mi ama, me lo sta gridando, e lo ascolto, mentre le sue labbra mi sfiorano il viso, mentre le sue mani si macchiano del mio sangue cercando di arrestare inutilmente l’emorragia.

Almeno una volta, amore mio, ho avuto la gioia di rivedere il tuo sorriso, senza l’oscura ombra della spietatezza omicida e la mancanza di amore che questa vita ci ha dato.  Non c’è più luce per me in questa stanza, ma sento la sua voce inconfondibile, poi un rumore metallico, lo sento piangere, afferrare qualcosa, le mani gli tremano riesco a sentirlo, tutto il suo corpo sta tremando, lo sento caricare il colpo, sento la vita sfuggirmi via, poi un rumore sordo, e il suo corpo che si accascia sopra il mio. Poi il niente.

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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