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Autore: shimichan    03/01/2013    4 recensioni
[GinxSherry] Storia lievemente erotica, vagamente introspettiva, assolutamente nera.
Passavano i minuti a studiarsi pur conoscendo già le debolezze dell’altro: quelle che lo portavano ad attendere pazientemente il tintinnio del campanello, sicuro che sarebbe arrivata; quelle che le facevano allungare la strada verso casa, certa che non l’avrebbe rifiutata.
Genere: Erotico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata a tutti gli estimatori della 'coppia'...




Quelle notti la solitudine non veniva colmata, ma trovava una compagna.
E lui, per quanto amasse essere solo, accettava la sua presenza discreta e se ne lasciava sedurre.
Sola per obbligo, non per scelta.
Sola e con il desiderio di qualcosa che in quell’appartamento non si poteva esaudire.
Lo sapeva, eppure, senza mai esitare, suonava attendendo che la porta si aprisse, mentre l’odore di fumo le s’insinuava nelle narici, facendole storcere il naso davanti alla finestra dove il suo scarno riflesso sembrava voltarle le spalle: era quella parte di lei che non approvava il suo essere lì, su uno zerbino consunto, ad ascoltare il rumore dei passi che si avvicinavano al portone e lo scatto di una serratura.
Quelle notti all’immancabile bicchiere, che teneva pronto sul tavolino, se ne aggiungeva sempre un altro.
Lo svuotava a piccoli sorsi, consapevole che uno solo le avrebbe annebbiato fin troppo presto la mente, mostrando di non gradire troppo il bruciore che avvertiva in gola al passaggio del liquore. O forse, a non essere gradito, era il sorriso che la sua smorfia di disgusto suscitava.
Adorabile, pensava lui. Ed assolutamente incompatibile con la fiera arroganza del suo sguardo.
Quelle notti al silenzio non era recato disturbo, troppo rade le parole scambiate per poter definire la loro, una conversazione.
Passavano i minuti a studiarsi pur conoscendo già le debolezze dell’altro: quelle che lo portavano ad attendere pazientemente il tintinnio del campanello, sicuro che sarebbe arrivata; quelle che le facevano allungare la strada verso casa, certa che non l’avrebbe rifiutata.
E ciò tranquillizzava entrambi.
Quelle notti la luce veniva spenta prima del solito, su sua richiesta.
Non gli aveva mai dato spiegazioni, né lui le aveva pretese; in fondo, trovava -a suo modo- romantico che la camera fosse toccata solo dai pallidi raggi della luna e dai riflessi caotici della città e che, nella penombra, i suoi occhi risaltassero come quelli di un felino.
E proprio come un felino, se ne stava, per alcuni minuti, acquattata sotto stipite, mentre lui osservava, disinteressato alla finestra, il traffico notturno.
Il frusciare dell’impermeabile o del cappotto -a seconda del tempo- gli diceva che l’attacco era pronto per essere sferrato, ma lui, idealmente preda, non fuggiva. Mai.
Quelle notti gli permetteva di spogliarla, lentamente.
Iniziava sempre dalle calze, che sfilava piano e senza particolare bramosia, sfiorandole, con un tocco quasi impercettibile, la carne, man mano scoperta, delle gambe, cercando traccia dell’effetto di quelle carezze nel suo sguardo, che mai incontrava: troppo occupato a frugare la stanza, quasi alla ricerca di una via di salvezza, che, però, non c’era.
Perché, in fondo, entrambi sapevano quanto sbagliati fossero quegli incontri, eppure non riuscivano a rinunciarvi: lui viveva in un’oscurità eterna, dove l’errore è spesso sinonimo di piacere, dove l’eccitazione ruba spazio al buon senso.
Ed eccitante era trascinarla, tra mille ritrosie, in quel buio.
Quelle notti il suo corpo di scricciolo s’irrigidiva all’improvviso, privato della protezione del vestito, che si accasciava silenziosamente a terra. E rabbrividiva nel sentirsi percorso da quelle dita ossute che gli dimostravano come, per togliere il respiro, non fosse sempre necessaria una pistola.
Allora posava la bocca sull’ombelico, infuocato dal suo caldo respiro come il resto della pelle, che veniva indelebilmente marchiata dalle sue labbra screpolate.
Labbra che si distendevano sempre in un ghigno, quando, anziché cessare, il tremore diveniva innascondibile.
Quelle notti vedevano la lotta di due caratteri orgogliosi.
Era, infatti, l’orgoglio, ferito da quello che veniva interpretato come un gesto di scherno, a comandarle di staccarlo da sè. E così, facilitata dalla sua posizione prona, affondava le mani tra suoi capelli, stringendone con forza alcune ciocche ed obbligandolo ad alzare il viso.
Osservava i suoi occhi grigi e vuoti, privi di luce, in quanto il corpo era privo di anima, e rassicurata dal fatto di non potervisi specchiare, si chinava verso di lui, mescolando il proprio alito al suo, senza, però, dargli la soddisfazione di assaporarlo.
Il bacio, diceva, è qualcosa di troppo intimo per noi due.
Ed era vero. E ci credeva.
Almeno finché la mente conservava lucidità.
Quelle notti le permetteva di spogliarlo, maldestramente.
Con frenesia gli toglieva la maglia, lasciando a lui il compito di sbarazzarsene, mentre armeggiava con la fibbia dei pantaloni.
Sorrideva, senza che lei lo potesse vedere, contro il capo ramato che gli arrivava appena all’altezza del petto, di quella fretta, che credeva frutto d’inesperienza.
Salvo poi ricredersi, quando, a cerniera ormai abbassata, lei si fermava, posandogli una mano sull’addome per guidarlo verso il letto.
Quelle notti non capiva come il suo corpo diventasse, all’improvviso, succube delle attenzioni che lei gli riservava e perché mai il suo ego accettasse di venir piegato così facilmente.
Nemmeno la sua forza riusciva ad impedire che quelle mani sottili gli si stringessero attorno ai polsi, lasciando fosse lei a condurre i giochi. Per questa volta, pensava. Sempre.
E così si ritrovava steso sulla schiena, affondato nel materasso dal dolce peso che gli sedeva a cavalcioni sul bacino e rabbrividiva al cospetto delle labbra morbide che gli inumidivano la pelle del torace e del collo.
Quelle notti solo l’ultimo barlume di lucidità, o forse il primo di una folle passione, gli consentiva di invertire ruoli e posizioni.
E lei gli faceva credere di sottostare passiva, inarcando la schiena al tocco delle sue dita, che spietate andavano ad eliminare dal suo corpo gli ultimi rimasugli di stoffa, inutili ostacoli ad un finale già scontato.
Quelle notti l’imbarazzo faceva breve comparsa sulle sue guance, perché la vanità –di essere guardata e desiderata, anche se in modo sbagliato, anche se dall’uomo sbagliato- prendeva il sopravvento. Chissà se in quei momenti l’avvertiva, lo scivolar via della luce dal suo sguardo, se si poteva chiamare empatia ciò che la spingeva a sollevarsi per abbracciarlo, per spogliarlo del tutto, per invogliarlo con la morbidezza del suo corpo a metter fine a quella tortura.
Sembrava che dare il tempo al ripensamento di affacciarsi nella sua mente l’affliggesse più delle condizioni in cui era obbligata a vivere fuori da quel letto.
Quelle notti non conoscevano Amore.
Era con rabbia, motivata dall’accorgersi di star per cedere nuovamente alle sue tacite richieste, che la stendeva sotto di sé, obbligandola a fissarlo, con le mani premute sul collo, e a concedergli quelle labbra, che, ritrose, evitavano l’incontro con la sue.
Era l’odio reciproco che rendeva dolorosi i loro baci: l’eccessiva violenza con cui la lingua si faceva strada nella sua bocca ed i morsi che gli riservava per impedirglielo.
Era la crescente eccitazione a trasformare le carezze da delicate a bramose, ardite nei punti che andavano a stringere, facendola sussultare.
Quelle notti gli occhi urlavano disprezzo, perché la voce era soffocata da gemiti e sospiri librati a ritmo delle spinte con cui le spezzava l’anima, oltre che il respiro.
Ed anche quando essa ritornava prepotentemente a lacerarle la gola, lei la tratteneva, aiutata dai denti che affondava nella carne della sua spalla e dalle unghie che gli graffiavano la schiena. Se si sollevava appena, scostandole i capelli umidi dal volto, lo vedeva accaldato e contratto in smorfie di sofferenza mista ad un piacere che aumentava all’aumentare della frenesia dei loro sincroni movimenti. Quella e le mani strette alle lenzuola erano l’unica forma di soddisfazione che gli concedeva tra gli ansiti.
Quelle notti soffiava sul suo volto la propria sconfitta, resa ancor più amara dal senso di appagamento che sentiva bruciarle il ventre, già incandescente, e dal sommesso rantolio con cui lui le scaldava l’orecchio, accasciandosi incurante sul suo corpo provato dai brividi.
Poteva, allora, avvertire rimbalzargli in petto il battito forsennato del suo cuore e si lusingava che quella melodia suonasse solo per lui.
Quelle notti viveva nell’illusione che lei fosse sua, anche se sapeva che non poteva essere così, perché, nonostante le apparenze, lei era la persona più libera che conoscesse: non era di nessuno, nemmeno di se stessa.
 

 
 
Una fiamma illumina la notte desolata, riempita presto da una nuvola di fumo grigio e da un pensiero che non prende forma, se non nella mente dell’uomo che l’ha concepito.
…io ricordo quelle notti e tu, Sherry?
Ed un alito di vento gli sferza il volto, facendo librare un fiocco di cenere che viene sospinto lontano, verso una strada, una casa, una finestra.
Le tende si scostano ed una bambina si volta di scatto sul letto.
È estate, ma un senso di gelo la coglie comunque.








***spazio autrice***
oh, beh....stà roba l'ho scritta stanotte presa dallo sconforto di non riuscir a dormire....al solito! tra l'altro ero convinta di averla postata e invece...eccola che mi compare sullo schermo appena accendo il computer -.-
Vabbè....è la prima volta che scrivo qualcosa di così vagamente spinto, perciò siate cortesi e vi prometto che non tornerò più a disturbarvi....=_=
Bye, Bye
  
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