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Autore: Cassandra caligaria    05/01/2013    2 recensioni
Storia terza classificata al contest 'Uno sguardo al passato' indetto da Pinzy81 sul forum di Efp
La storia narra, secondo il mio punto di vista, il primo incontro tra Esme e Carlisle. Siamo nel 1911, Esme è una studentessa in un collegio e, cadendo accidentalmente da un albero di magnolia, si frattura una gamba. Il medico di Columbus è fuori città e il suo sostituto è un medico giovane e alquanto affascinante...
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Carlisle Cullen, Esme Cullen | Coppie: Carlisle/Esme
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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STORIA TERZA CLASSIFICATA AL CONTEST 'UNO SGUARDO AL PASSATO' INDETTO DA PINZY81 SUL FORUM DI EFP







 

Magnolia


La grande magnolia, che da decenni troneggiava, fiera ed elegante, nel cortile della St. Anne School, aveva affascinato la giovane Esme sin da bambina.
Il tronco snello ma forte, su cui si ergeva fiera e rigogliosa la chioma a forma piramidale, aveva spesso stuzzicato la sua fantasia; si era domandata più volte come facesse quel piccolo tronco a sostenere una chioma tanto densa e sicuramente molto pesante. Era quasi innaturale. Sembrava andare contro ogni buon senso e sfidare tutti i principi della fisica.

Quella e tante altre domande senza risposta affollavano la sua acuta mente. Ma era ancora troppo giovane per sapere che spesso non sono soltanto le leggi della fisica a regolare la natura. Più in là nel tempo, avrebbe trovato risposta ai suoi quesiti e il suo piccolo ed esile corpo, proprio come il tronco della magnolia, avrebbe dovuto sopportare un pesante fardello; tuttavia, a differenza dell’albero, la giovane Esme si sarebbe dovuta piegare ad esso.

Frequentava quell’istituto da dieci anni, da quando ne aveva sei; voleva diventare un’insegnante, proprio come Miss Giselle. Era una scuola cattolica, gestita da suore, ma da qualche anno anche le donne laiche avevano accesso alla docenza e, con il loro arrivo, una ventata di rinnovamento aveva investito i programmi d’insegnamento.
Miss Giselle entrò in classe e, come ogni mattina, dopo aver fatto l’appello, si avvicinò alla lavagna, prese il gesso e scrisse la data e la consegna del compito che le sue allieve avrebbero svolto nelle due ore seguenti.
L’anno scolastico volgeva alla fine e le studentesse avrebbero sostenuto diverse verifiche in quella settimana, prima di lasciare la scuola per le vacanze estive e tornare quindi dalle loro famiglie.


 

23 maggio 1911


Parafrasi e analisi del sonetto 18 di W. Shakespeare
‘Shall I compare thee to a Summer's day?’




«Avete due ore per svolgere il compito. Mi raccomando: prestate attenzione, soprattutto alla parafrasi. Buon lavoro.»
Esme sospirò e, dopo un ultimo sguardo alla magnolia, chinò il capo sul suo banco e riportò il testo sul quaderno.
Terminato il compito, lo consegnò a Miss Giselle e uscì dall’aula. Attraversò il chiostro e andò a sedersi per qualche minuto sulla panchina posta sotto il porticato, in attesa che uscissero anche le bambine.
Una delle regole su cui si fondava la scuola era la sorellanza. Ogni sorella minore, una bambina di sei anni appena arrivata nell’istituto, era affidata ad una sorella maggiore, una fanciulla di dodici anni, che si sarebbe presa cura di lei nei successivi sei anni, fino al proprio diploma; cioè, quando quella che era sorella minore aveva raggiunto i dodici anni, l’età per poter essere eletta a sorella maggiore.
Le sorelle maggiori avevano il compito di vegliare sulle loro sorelline, curarsi dei loro bisogni e delle loro necessità, proprio come avrebbero fatto nelle loro case con delle sorelle minori. Le aiutavano con i compiti che le suore e le maestre assegnavano loro, controllavano che pregassero e agissero secondo gli insegnamenti cristiani che ricevevano e giocavano con loro nel tempo libero. Inoltre, nel pieno rispetto dello spirito dell’istituto, gli insegnavano a svolgere le più comuni faccende domestiche e a ricamare e a cucire. Una volta terminati gli studi nell’istituto, a diciotto anni, la maggior parte delle fanciulle prendeva marito e lo scopo principale della scuola, oltre all’istruzione, era la formazione di future mogli e madri amorevoli, premurose e timorate di Dio. Erano poche quelle che potevano decidere di perfezionare gli studi e diventare insegnanti; ancor meno quelle che avevano la fortuna di iscriversi all’università.
Esme era la sorella maggiore di Madeline, una bimba molto sveglia e vivace, da ben quattro anni. Essendo l’ultima di tre figli e avendo trascorso più tempo in quella scuola che a casa propria, Esme considerava la piccola realmente come una sorellina. Le voleva molto bene e Madeline ne voleva altrettanto a lei.

«Esme!»esclamò la bambina, aprendosi in un sorriso radioso e correndo ad abbracciarla.
«Ciao, Madeline! Com’è andata oggi?»le domandò premurosa Esme, accarezzandole le morbide trecce.
«Molto bene. Suor Louise mi ha dato una “A” nel dettato!»rispose orgogliosa.
«Bravissima, sono fiera di te. Ora però andiamo in mensa, sta suonando la campanella.»Esme prese per mano la sua sorellina ed insieme si avviarono nel refettorio dell’istituto per il pranzo.
Nelle ore pomeridiane le allieve erano solite dedicarsi ai loro compiti, laddove non erano previste altre attività, come le lezioni di canto o di ricamo. Essendo alla fine dell’anno scolastico, molte di loro potevano godere di una discreta libertà, avendo già sostenuto le verifiche finali.
Quel giorno, alcune si ritirarono in biblioteca per studiare, altre avevano lezione di canto per il saggio di fine anno; poche fortunate, tra cui Esme e Madeline, non avevano impegni e si recarono nel chiostro per godere del tenue calore del sole pomeridiano.
Era una tiepida giornata di maggio e l’alto albero di magnolia non era ancora fiorito. Esme ricordava che negli anni passati, di solito, i primi fiori sbocciavano proprio in quella stagione. Ma, quell’anno, la magnolia sembrava volesse prendersi del tempo in più per mostrare i suoi fiori.
Madeline giocava a palla con le altre bambine, mentre Esme leggeva un libro, osservandole di tanto in tanto per controllare che nessuna si facesse male.
«Oh, no! Madeline, sei un disastro!»
Esme, sentendo il nome della sua sorellina e poi i suoi singhiozzi, alzò lo sguardo dal libro e si avvicinò alle bambine in visibile stato di agitazione.
«Cos’è successo?»domandò, scrutandole una per una e avvolgendo in un abbraccio protettivo Madeline.
«Madeline ha fatto finire la palla su quel ramo. È sempre la solita frana!»rispose stizzita Catherine.
«Cath, non ti permettere più di parlare così!»la rimproverò Esme.
Non tollerava il modo in cui quella bambina trattava Madeline. Più volte era corsa da lei in lacrime per via delle parole velenose che le aveva rivolto.
Scosse il capo e accarezzò una spalla di Madeline, per rassicurarla.
«Non è successo niente di grave, Maddy, ora cerchiamo di recuperare la palla.» Le baciò delicatamente il capo, abbracciandola forte.
Si recò nel capanno del giardiniere e trovò una vecchia scala a pioli piuttosto malandata. Esme pregò in cuor suo che la sostenesse nella sua impresa, altrimenti le sarebbe toccata una bella strigliata da parte delle suore, che avevano vietato tassativamente alle studentesse di avvicinarsi agli attrezzi nel capannone.
Accostò la scala al tronco della magnolia e si accertò che fosse ben ferma. Prese un bel respiro e cominciò a salire. Era molto agile e sicura. L’abilità fisica, che aveva acquisito e potenziato negli anni della sua infanzia, trascorsi nella fattoria dov’era cresciuta e dove vivevano i suoi genitori, non stonava affatto con la sua naturale grazia.
La palla non era finita molto in alto, per fortuna. Esme la recuperò facilmente e la fece ricadere al suolo, ma, mentre si accingeva a scendere, la sua attenzione fu catturata da un profumo intenso e molto dolce. Sollevò lo sguardo, istintivamente, cercando di capire da dove provenisse e finalmente lo vide.
Il primo fiore di magnolia dell’anno la osservava dall’alto. Era bianco, maestoso ed elegante. Attratta da una forza invisibile, Esme continuò a salire sulla scala, anziché scendere. Voleva avvicinarsi a quel meraviglioso e delicato bocciolo non ancora schiuso, che sembrava serbare gelosamente un segreto nella sua candida urna.
Non aveva mai visto un fiore di magnolia da vicino e non pensava fosse così bello e profumato. Le suore non avevano mai permesso a nessuno di coglierli, ma Esme in quell’istante non desiderava altro che prendere tra le sue mani quel candido gomitolo di petali.
Avanzò ancora di un piolo ed era così vicina al suo desiderio da sfiorarlo con le mani, quando un urlo improvviso la fece sobbalzare.
Perse l’equilibrio e cadde. E con lei, la scala.
Atterrò rovinosamente sul prato, sbattendo con il fianco sinistro al suolo; le sue gambe erano rimaste incastrate sotto la scala e sentiva un forte dolore alla base della gamba sinistra: la sua caviglia era innaturalmente piegata tra il suolo e un piolo della scala.
Suor Mary, l’autrice dell’urlo, corse subito in suo soccorso e si rese conto che la situazione era piuttosto grave e bisognava chiamare un medico. Aiutata dalle altre ragazze che erano subito accorse, suor Mary sollevò la povera Esme dal prato e, non senza fatica, la portarono nella sua stanza, adagiandola sul letto.
Non riusciva a muovere la gamba sinistra e sentiva dolori su tutto il lato sinistro del corpo. Madeline era mortificata e non si era allontanata neanche per un attimo da Esme; le teneva la mano, mentre piangeva.
«Sto bene, Maddy. Non piangere, ti prego. Tra poco arriverà il dottore e vedrai che starò meglio.»
Esme tentò di rassicurarla, stringendo i denti per il dolore. Si preoccupava sempre degli altri, prima che di sé stessa. Provava quasi più dolore nel vedere quella bambina addolorata e in lacrime che nello sfiorare un lembo della sua pelle tumefatta.
«Calmati, tesoro. Non è colpa tua se sono caduta, la scala era molto vecchia…»
«Non è vero, è colpa mia! Se solo non avessi lanciato la palla così in alto… Mi dispiace, Esme! Mi dispiace così tanto!» singhiozzò Madeline, continuando a versare lacrime di sincero dispiacere per la sorte della sua sorella maggiore.
«È arrivato il dottor Cullen. Madeline, vieni fuori. Il dottore deve visitare Esme.» Suor Mary annunciò l’arrivo del dottore e si avvicinò alla bambina per condurla fuori dalla stanza. Madeline baciò la mano di Esme che era ancora stretta tra le sue e poi si allontanò.
«Dottore, la faccia star bene, per favore». La sincera preghiera di quella bambina commosse l’algido dottore, che sorrise e le accarezzò una guancia umida. Si piegò sulle ginocchia per arrivare all’altezza del suo sguardo e la rassicurò, guardandola dritta negli occhi.
«Non temere, piccola. Ci penso io, adesso. Vedrai che Esme guarirà e presto tornerà a giocare con te.»
La bimba annuì, credendo senza remore alle parole di quel dottore, e, dopo un ultimo sguardo verso il letto su cui era distesa sua sorella, si chiuse la porta alle spalle.
Il dottor Cullen si avvicinò al letto su cui Esme era distesa e, dopo aver posato la borsa di cuoio sulla sedia su cui fino a qualche istante prima era seduta Madeline, si presentò.
Una candida fragranza da poco conosciuta investì le narici della fanciulla.
«Buongiorno, signorina Esme. Sono il dottor Carlisle Cullen. Il dottor Stone sarà fuori città per qualche giorno, io sono il suo sostituto. Come si sente? Può indicarmi le zone che le fanno più male?» domandò con voce calma e rassicurante.
«Buongiorno, dottore» rispose Esme, tentando di mantenere un tono di voce controllato, che non facesse trasparire la sua sofferenza.
«Sento un dolore molto forte alla caviglia sinistra... e poi ho il fianco e la spalla sinistra indolenziti.»
Esme raccontò al dottore la dinamica della sua caduta, spiegandogli con precisione quali parti del corpo avevano subito i traumi maggiori. Il dottor Cullen ascoltò il racconto, affascinato dal coraggio di quella giovane donna, che tentava in tutti i modi di non dare a vedere quanto stesse soffrendo. Aveva un bel viso a forma di cuore, tempestato di efelidi, soprattutto sulle guance e sul naso, e contornato da folti e ondulati capelli color caramello. La sua espressione era molto dolce, impreziosita da due meravigliosi occhi castani: scuri, profondi e penetranti.
Prima di entrare nella stanza aveva udito il tono premuroso con cui Esme aveva tentato di rassicurare la bambina, che temeva di essere colpevole della sua caduta, ed era rimasto fortemente colpito dalla maturità e dal senso di protezione di quella fanciulla nei confronti della bimba.
«Bene, Esme, vediamo subito in che condizioni è la gamba. Sente molto dolore se faccio così?»
Carlisle iniziò dapprima a tastare delicatamente la gamba, che riportava vari ematomi e diverse escoriazioni; poi la sollevò e, individuando con le dita esperte il punto di articolazione della tibia, del perone e dell’astragalo, fece quasi sobbalzare Esme per il dolore.
La povera infortunata cacciò un urlo appena il dottore sfiorò la sua caviglia. Carlisle la osservò stringere forte i denti e artigliare i lembi delle lenzuola tra le mani. Aveva una frattura piuttosto grave, come aveva già ipotizzato prima di visitarla.
«Mi perdoni, signorina, se le ho fatto sentire tanto dolore. La gamba è fratturata: bisogna steccarla e dovrà stare a riposo per almeno un mese. Ora le somministro qualcosa per il dolore, altrimenti sarà molto difficile riuscire a visitarla per bene e mettere a posto la frattura prima di steccare la gamba.»
Carlisle le rivolse un sorriso rassicurante ed estrasse dalla sua borsa un flacone di vetro scuro; sollevò il contagocce e lo avvicinò al bicchiere sul comodino, facendo precipitare poche gocce di laudano nell’acqua.
Aiutò Esme a sollevare leggermente il busto e avvicinò il bicchiere alle sue labbra, sostenendole il capo con la mano libera. I capelli soffici della ragazza gli solleticavano la pelle fredda della mano, risvegliando in lui istinti ed emozioni che erano sopiti da quasi tre secoli.
«Grazie.» Esme gli sorrise dolcemente e trovò qualcosa che credeva non avrebbe mai scorto in quel viso a cuore, in quegli occhi così belli, in quel sorriso così sincero e colmo di gratitudine. Emanava una luce particolare.
Il dottor Cullen era un medico molto giovane e affascinante. Osservandolo da vicino, mentre l’aiutava a sorseggiare il calmante, Esme pensò che probabilmente non aveva neanche venticinque anni. Era molto alto e magro. I capelli biondi erano ordinatamente pettinati all’indietro, com’ era in uso a quel tempo.
“Non ha i baffi. È il primo medico che vedo senza baffi! Ed è così giovane…”pensò la ragazza.
I suoi occhi erano di uno stranissimo colore dorato. Non aveva mai visto due iridi del genere.
Emanava un profumo delizioso, un profumo di magnolia. Lo aveva percepito chiaramente quando si era avvicinato al suo viso per porgerle il bicchiere. In quell’istante lo aveva riconosciuto e aveva capito che era da lui che proveniva quella fragranza così intensa e delicata allo stesso tempo.
Aveva la pelle fredda e molto bianca, più del suo camice. Le ricordava il candore dei petali della magnolia. Esme ancora non sapeva quanto i suoi acuti e spontanei pensieri fossero vicini alla realtà. Come quel fiore tanto bello e profumato, che pareva custodire gelosamente un mistero al suo interno, anche il dottore, dalla pelle diafana e fredda, serbava nel suo cuore un grande segreto, che qualche anno più in là avrebbe condiviso con lei.
Dopo averle steccato la gamba e controllato che non ci fossero altre eventuali fratture, il dottore si sedette sulla sedia accanto al letto e, incuriosito dal racconto della dinamica della caduta, decise che voleva saperne di più. Di solito aveva un rapporto professionale con i suoi pazienti: si limitava a curarli, senza entrare troppo nelle loro vite umane. Ma quella fanciulla aveva qualcosa che lo attraeva.
«Allora, signorina Esme, le lascio qui del laudano. Sentirà molto dolore nei prossimi giorni, quindi non esiti a farne uso. Quattro o cinque gocce al dì dovrebbero essere sufficienti. Io ripasserò nei prossimi giorni a controllare le sue condizioni. Posso farle una domanda?» le chiese con tono cortese.
«Certo, dottore» rispose Esme, sorridendogli.
«Perché è salita su quella scala? Cosa c’era su quell’albero?»
Esme non si aspettava di certo una domanda del genere da parte del dottore. Immaginava volesse chiederle di eventuali malattie o fratture precedenti, ma non di certo quale fosse il motivo per cui era salita sull’albero. Era una domanda strana, fatta lui. I medici non davano tanta confidenza ai pazienti, soprattutto se così giovani e donne. Eppure in quel dottore c’era qualcosa di diverso. Lo aveva percepito dalla dolcezza del suo sguardo, dal modo delicato con cui l’aveva visitata, dall’accortezza e dalla cura nel somministrarle un calmante prima di visitarla e di steccarle la gamba per non farle sentire dolore. Si voltò verso di lui, incrociando il suo sguardo. Gli sorrise e poi prese a parlare. Sentiva che avrebbe potuto raccontargli tutto, senza essere derisa o giudicata per le sue motivazioni.
Esme era solitamente un’ottima oratrice, ma la presenza di quel dottore particolare e la sua domanda così inusuale per la sua figura misero un po’ in crisi la sua retorica e la sua eccellente capacità di formulare frasi coese e sintatticamente corrette. Sentiva dentro di sé la voglia di raccontargli tutto, ogni dettaglio, ogni suo pensiero. Pensò per qualche secondo, o forse qualche minuto, su come iniziare a rispondere a quella domanda. Alla fine, cominciò dall’inizio.
«Beh, io… Ha presente Madeline, la bambina che era seduta qui quando è entrato? Lei è la mia sorellina.»
«Oh, non l’avrei mai detto. Non vi somigliate…»
«No, mi perdoni, dottore! Noi non siamo sorelle vere. Forse lei non sa che qui, a ognuna di noi ragazze, dall’età di dodici anni, vengono affidate le bambine del primo anno. Ci prendiamo cura di loro come se fossero nostre sorelle minori, le aiutiamo nei compiti, insegniamo loro quello che noi abbiamo appreso dalle nostre sorelle maggiori. È una sorta di tradizione, che si tramanda di ciclo in ciclo.»
«Non ne sapevo nulla… È una cosa molto bella» asserì Carlisle.
«Già, lo è davvero. Voglio bene a Madeline proprio come se fosse mia sorella.»
«Non hai fratelli o sorelle, Esme?» L’attento dottore non si era neanche accorto di aver iniziato a dare del “tu” alla fanciulla, ma a lei non era sfuggito.
«Sì, ho due fratelli più grandi di me.»
«Ti mancano? Deve essere dura vivere per tutto l’anno lontano dalla propria famiglia, alla tua età…»
«Sì, a volte mi mancano. Ma qui sto molto bene. Io e le ragazze siamo davvero come sorelle. Considero questo istituto come la mia casa. E poi…»
«Poi?» la incoraggiò Carlisle, preso dalla conversazione con quella ragazza così sveglia. Era molto piacevole parlare con lei.
Esme non aveva mai confidato a nessuno il suo desiderio più grande, ma sentiva di poterlo fare con quel dottore così atipico eppure così cortese e affascinante.
«È necessario che io stia qui, che continui i miei studi, perché voglio diventare un’insegnante. È il mio sogno da sempre e sono disposta a qualunque sacrificio pur di realizzarlo.»
Una luce nuova si accese negli occhi di Esme, rendendoli ancora più belli. Ma il suo desiderio, purtroppo, non si sarebbe mai realizzato. Né lei né il dottore potevano sapere, allora, quello che sarebbe accaduto negli anni seguenti al loro primo incontro. La sua famiglia aveva già stabilito il destino della giovane Esme.
«Come mai proprio un’insegnante? Cosa ti affascina di questa professione?» domandò, sempre più sinceramente incuriosito, Carlisle.
«Credo sia uno dei lavori più belli del mondo, perché un insegnante ha un grande onore: formare delle persone sin da quando sono piccole e cercare di fare qualcosa per renderle migliori. Mi piacciono i bambini perché non conoscono alcuna forma di pregiudizio e si fidano delle persone adulte. Si affidano completamente ai loro maestri e trovo che sia meraviglioso potergli trasmettere tutto quello che si sa, cercare di tramandare loro la saggezza dei Grandi per fornirgli una valida guida nella vita. Durante la lezione di latino, qualche giorno fa, abbiamo tradotto una delle lettere a Lucilio di Seneca. Le conosce, dottore? Ne ha mai letta qualcuna?»
Carlisle sorrise tra sé e sé: avrebbe rischiato di spaventare quella bella e intelligente fanciulla, se solo le avesse svelato quanto grande era la sua conoscenza della letteratura latina e rivelato che aveva avuto il grande privilegio di leggere le opere di Seneca, quando viveva in Italia, direttamente sui codici medievali che le tramandano e che oggi sono conservati a Firenze.
Si limitò a sorriderle e a rispondere semplicemente: «Sì, le conosco. Ne ho letta e tradotta qualcuna, a scuola», come se stesse ripescando un ricordo non molto lontano nel tempo, ma abbastanza sbiadito da renderlo ugualmente vecchio.
«Nell’ Epistola VII, Seneca scrive a Lucilio: Homines dum docent discunt » continuò Esme. «Gli uomini mentre insegnano imparano» tradussero contemporaneamente il medico e la paziente.

Esme chinò il capo, sorridendo, mentre Carlisle la osservava con ammirazione.
«Credo che chi trascorre molto tempo della sua vita ad imparare abbia tutto il diritto di insegnare. E insegnando, potrà apprendere sempre cose nuove. Perché il sapere è infinito e ci sarà sempre qualcosa da imparare da chi si ha di fronte, sia che si tratti di un bambino, sia che si tratti di una persona adulta. E continuare ad imparare e insegnare quello che so a dei bambini è esattamente quello che voglio fare» terminò determinata Esme.
«Diventerai un’ottima insegnante, Esme. Ne sono convinto. Ho conosciuto pochi insegnanti dotati di un tale entusiasmo e di tanta determinazione» le disse dolcemente Carlisle, profondamente colpito dalla sua saggezza.
«Grazie, dottore. Lo spero davvero» sussurrò Esme.
«Vedrai che sarà così. Io ne sono certo. Adesso, mi racconti perché sei salita su quell’albero?» le domandò con tono vivace, quasi scherzoso, Carlisle.
«Oh, sì! Certo! Abbiamo divagato un po’…» ammise Esme, arrossendo.
Gli raccontò l’accaduto senza omettere il minimo particolare, dalla descrizione della scala malandata al fiore di magnolia che aveva attirato la sua attenzione.
«È il primo fiore dell’anno e mi sarebbe piaciuto molto coglierlo. Suor Mary, che era appena uscita dall’aula di musica, vedendomi sulla scala ha cacciato un urlo che mi ha spaventata al punto da farmi sbilanciare e cadere rovinosamente al suolo. Forse mi crederà una stupida e ingenua ragazza, che per cogliere un fiore ha finito per rompersi una gamba, ma era la prima volta che ne vedevo uno tanto bello e profumato. Sembrava così prezioso e raro. Di solito, guardo la magnolia fiorire dalla finestra della mia aula e poi ne ammiro i fiori dal basso. Mi ha sempre affascinata: è così maestosa e bella. Le suore non permettono a nessuno di coglierne i fiori. Li lasciano sul prato, quando, una volta appassiti sui rami, cadono in terra. E di solito, quando cadono, noi siamo già in vacanza, a casa.»
Esme concluse il suo racconto e riprese fiato, tirando un sonoro sospiro di sollievo. Si sentiva più leggera dopo aver confidato a quel medico sconosciuto – così affascinante – i suoi desideri. Carlisle la guardava e sorrideva.
«Non penso affatto che tu sia una ragazza stupida, Esme. Anzi, sei una ragazza molto sveglia, intelligente e sensibile. Sai, mio padre mi raccontava sempre che, un tempo, in alcuni villaggi, si credeva che trovare e cogliere il primo fiore dell’anno portasse fortuna.»
«Oh…»riuscì solamente a dire Esme. Stava per aggiungere qualcosa, quando la porta della sua camera si aprì, rivelando la figura di suor Mary.
«Dottore, ha terminato la sua visita?»domandò, scrutando attentamente la figura del dottore seduta accanto al letto della sua allieva.
«Sì, suor Mary. Ho appena terminato di steccare la gamba di Esme. Ha riportato una grave frattura e purtroppo l’unica cura è il riposo. Dovrà restare a letto per almeno un mese. Nei prossimi giorni, poiché il dolore sarà molto acuto, prenderà qualche goccia di laudano. Dopo i pasti, mi raccomando»disse, rivolto più a Esme che a suor Mary.
«Certo. Non si preoccupi, ci prenderemo tutte quante cura della nostra Esme»rispose suor Mary, quasi infastidita dal fatto che quel giovane dottore parlasse guardando la paziente e non lei.
«Ne sono sicuro, sorella. Ora vado. Tornerò tra qualche giorno per controllare come procede la guarigione. Buon riposo, Esme. A presto. Arrivederla, suor Mary.»Carlisle afferrò la sua borsa e si diresse verso la porta.
«Grazie, dottore. Arrivederci!»esclamò Esme, sorridendogli.
Carlisle le sorrise a sua volta, prima di uscire dalla camera.



Complice l’effetto delle gocce di laudano, Esme dormì tranquilla quella notte e non avvertì molto dolore. Alle prime luci dell’alba, il momento in cui si fanno i sogni veritieri, il dottore dalla pelle fredda e dal profumo candido entrò nella sua stanza furtivamente, lasciandole un dono sul comodino, accanto alle medicine. Era certo che avrebbe capito chi fosse il mittente; aveva una mente acuta quella bella fanciulla.
«Buona fortuna, dolce Esme»sussurrò vicino al suo viso, tanto da essere investito dal suo respiro caldo, che si infranse contro la sua pelle fredda.
La fanciulla sorrise nel sonno.
“Chissà cosa sta sognando” pensò il vampiro prima di sparire oltre la porta e dileguarsi velocemente dall’istituto.

Una fragranza dolce e intensa, che ormai avrebbe riconosciuto ovunque, sebbene la conoscesse soltanto da un giorno, investì le sue narici, facendola sorridere nel sonno. Esme, ancora con gli occhi chiusi, voltò la testa sul cuscino, verso il comodino. Il profumo divenne troppo intenso e reale per essere solo un sogno, ed Esme aprì gli occhi di scatto.
A pochi centimetri dal suo viso, leggermente inclinato e delicatamente sostenuto dal flacone di vetro ambrato del laudano, c’era il primo fiore della sua magnolia.



 

  
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