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Autore: fricchettone    06/01/2013    2 recensioni
Chiuse la porta di scatto. Chi diavolo poteva avergli scritto una lettera, la metà del mondo aveva recapiti sufficienti per augurargli felici feste natalizie. Si sorprese nel vedere un francobollo italiano.
Osservò la calligrafia e sentii un vuoto all’altezza dello stomaco. Si bloccò.
"Caro Francisco,
sono in un posto in cui fa freddo ed il vento sbatte sulla facciata del mio monolocale."
One shot dedicata a Francisco Lachowski.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Caro Francisco,

sono in un posto in cui fa freddo ed il vento sbatte sulla facciata del mio monolocale. Il meteorologo in televisione questa mattina ha detto che dovrebbe nevicare in serata: sono fiduciosa e mi sento una bambina a rimanere con il naso incollato al vetro freddo della finestra ed osservare il cielo nuvoloso. Sai quanto mi piace la neve. A  Montreal ti svegliavo quasi sempre presto quando scorgevo il paesaggio bianco dalla finestra. Tu sbuffavi e nascondevi la testa sotto il cuscino pregandomi di andare via.
Non penso che riuscirò mai a spiegarti con semplici parole cosa significasse per me vederti arreso, alzarti ed infilare le pantofole, coprirti immediatamente per il freddo dell’aria e strisciare in bagno. Eri troppo stanco per osservare il sorriso che tutte queste azioni apparentemente insignificanti generavamo sul mio viso.
In ogni caso, ora lo sai, nel caso in cui tu non te ne sia mai accorto.
Dovresti sapere come ogni tua azione mi sgombrava la mente da pensieri tristi, gli stessi che non riuscivo a nasconderti fingendo una bella giornata. Ricordi come eri pronto ad abbracciarmi con quella brutta abitudine che avevi di zittirmi?
L’adoravo.
Eri capace di capire il momento giusto per stoppare un flusso di parole senza sosta di cui, alcune,inutili.
Ecco, era questo il guaio di te: capivi. Come mai nessuno lo aveva fatto con me fino a quel momento.
A mia differenza conoscevi le persone senza bisogno di troppe domande. Ti ho sempre amato quando dimostravi di sapere  le risposte senza mai chiedere.
Ed è questa la parte che io ho sempre amato di te: quella di renderci complementari. La mia giornata è sempre stata piena di troppe parole inutili che tu mi hai aiutato a filtrare adeguatamente.
Eppure, nonostante questo, solo ad una domanda sono riuscita a dare una risposta senza troppi interrogativi: nel momento in cui i miei occhi castani hanno incontrato i tuoi quel pomeriggio a Milano ho capito che la mia vita non sarebbe più stata la stessa.
È una storia che amavo raccontarmi mille volte, quella di una giornalista baciata dalla fortuna, mandata al posto di una sua collega influenzata a svolgere un’intervista relativa ad un settore non suo.
Ti avrò ricordato mille volte come il mio viso fosse teso e pauroso di commettere un banale errore, come non riuscissi nemmeno a trovare una posizione giusta per accavallare le gambe. E poi sei arrivato tu.
Ti sei seduto e solo nel tuo sguardo mi sono sentita cullata da un paio di braccia sicure.
Con te mi sono sempre sentita protetta, come se fossi il tetto della casa in cui ti rifugi dopo un giorno impegnativo, sotto cui sfili le scarpe con il tacco e, con i talloni doloranti, infili un paio di pantofole.
Ho fatto questo quando, quella sera, rincasai. Ma fu terribilmente desolante e triste, perché non smettevo di pensare al tuo sorriso ed ai tuoi occhi. Eri tu la mia casa ed è da quella sera che l’ho capito definitivamente.
Ho provato ad archiviare l’episodio, ma più schiacciavo ed archiviavo la tua immagine, più questa spuntava vivida e dolorosa. Eri la mia sconfitta inevitabile, la mia resa. Bandiera bianca.
Passai interi pomeriggi nel centro Milanese quella settimana, alla ricerca di un tuo cenno, la tua ombra, la tua figura alta e snella che camminava in piazza Duomo mangiando un gelato. Non ti trovai.
Ogni giorno passato era come altre ventiquattro ore passate in apnea. Contattai la tua agenzia, fingendo di dover avere  un tuo recapito telefonico per questioni tecniche al pezzo.
Dica a noi, mi dissero, riferiremo tutto ai suoi manager. No, risposi, ho bisogno di parlare con lui. Fu proprio così che gli risposi al tipo all’altro capo.  Ho bisogno.
Quando sentii il suono della mia telefonata partita pensai una cosa buffa: chissà come è la sua suoneria. Ma non ebbi molto tempo per soffermarmi perché tu accettasti  la chiamata.
Finsi anche con te un contrattempo giornalistico e mi desti appuntamento al caffè Shu quel pomeriggio.
Non sono mai riuscita a reggere maschere dinanzi a te, me le hai sempre strappate prima che potessero entrare in scena e fu così anche quella volta.
Volevo solo vederti, sussurrai. Darti del tu mi venne naturale. Mi accesi d’istinto una sigaretta e scagliai l’accendino sul tavolino in vetro. Senza chiedere – perché tu non chiedi mai niente – apristi il mio pacchetto da venti e ne afferrasti una.
Mi fa piacere, rispondesti, avevo voglia di parlarti.
Se mai qualcuno dovesse chiedermi cosa davvero mi ha cambiato la vita ripeterò le tue stesse parole. Le so a memoria e non posso permettermi il lusso di dimenticarle. Dirò che a stravolgermi l’esistenza sono state anche le tue labbra ed il tuo naso, la barba più lunga dopo giorni non rasato, o i tuoi occhiali da sole e le tue scarpe strappate e consumate a causa dei giri sullo skateboard.
I tuoi sorrisi caldi una volta rientrati a casa, la mia vera casa. Le tue cuffie nere con cui la tua musica risuonava in ogni angolo della casa ed i tuoi berretti girati. Le T-Shirt a righe larghe sul torace ed i bermuda consumati, le tue occhiaie appena sveglio ed i capelli disordinati.
Non so cosa possa averti davvero cambiato la vita di me. Suppongo niente. Ogni tanto me lo chiedo, mi chiedo cosa ti abbia spinto ad afferrare una mia sigaretta e a rimanere li seduto davanti a me e a conversare con dei silenzi interminabili. Cosa ti abbia spinto, dopo venti minuti e due caffè, ad alzarti ed invitarmi a cena.
Forse la mia debolezza, la mia mancanza di difese, la mia spasmodica ricerca di amore.
E dal mio canto, non ho mai dato tanto amore fino a consumarmi e sfiancarmi. Ho messo nelle tue mani tutto ciò che poteva aiutarmi, tutta la mia vita. E per quanto singolare e a prescindere dal tempo, non mi sono mai sentita così amata in vita mia.
Ti starai chiedendo perché sono qui a scriverti frasi noiose delle quali conosci già il contenuto.
Sono ritornata a Milano, scrivo per un altro giornale ora. Passavo dinanzi il Caffè Shu e ho visto una fila interminabile di ragazzi aspettare la comparsa di una boy band inglese. Mi sono fermata ed ho aspettato con loro. Ho parlato con una ragazza che stringeva in mano un peluche ed un bracciale da regalare ad uno di loro cinque e l’ho vista piangere prima di entrare. L’ho incoraggiata, dicendole che lei stava per realizzare il suo sogno, che niente è impossibile.
Poi è entrata in lacrime. Sono rimasta li fino a quando non è arrivata sera e la fila si sfoltiva sempre di più.
Ed ho pianto anch’io, Chico. Mi aspettavo di vedere due ragazzi uscire dal locale ed andare a mangiare insieme: lui con le cuffie al collo e lei stretta nel suo impermeabile. Ma io quella volta ero li, senza il tuo sorriso e le tue labbra, senza la forma del tuo naso e le tue mani attorno lo skateboard.
Non so come ti vada la vita a Montreal, se sei ancora in quella casa e se ogni tanto ti affacci alla finestra a sperare di veder cadere la neve.
So solo che qui fa freddo e ti vorrei sul divano con una birra in mano a vedere del wrestling scadente mentre io ti imploro di cambiare canale. Con una coperta sulle gambe sotto cui mi sarei infilata anche io.
Sono passati tre anni da quando ti ho baciato l’ultima volta e non mi perdono mai di non aver saputo che lo fosse.
A dire il vero Non so nemmeno se riuscirai a leggere questa lettera, non sono sicura del tuo indirizzo. Mi auguro che sia sempre quello e che non cambi mai, saprei sempre dove trovarti.

Sempre tua,
Chiara.
 
 
 
- Fa freddo, eh?
- Senta, mi faccia firmare questa raccomandata e vada via.
- Signore, quanta fretta, non sia…
- Sono qui da dieci minuti ed ho un appuntamento urgente.
-Tenga. Metta una firma qui… E qui.
- Ecco fatto, per l’amor del cielo. Grazie e buon Natale a lei.
Chiuse la porta di scatto. Chi diavolo poteva avergli scritto una lettera? La metà del mondo aveva recapiti sufficienti per augurargli felici feste natalizie.
Si sorprese nel vedere un francobollo italiano. Osservò la calligrafia e sentii un vuoto all’altezza dello stomaco. Si bloccò.
- Amore, cosa voleva il postino?
Piegò la busta e la infilò velocemente nell’ultimo cassetto del mobile all’ingresso.
- Niente, aveva commesso un errore.
- Sempre i soliti… Cosa aspetti? Siamo in ritardo dal dottore. Milo inizia a dar cenni di impazienza- lei rise.
Lui gliene fece uno di rimando, osservando l’involucro di pelle ed utero che copriva il corpo di suo figlio.
Infilò il giubbotto ed un cappello. Nevicava.
Lei prese la sua borsa e chiusero di scatto la porta.

  
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