Anime Dannate
Parte Prima
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui
de la bella persona
che mi fu
tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a
nullo amato amar perdona,
mi prese del
costui piacer sì forte,
che, come
vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse
noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense.
(Dante Alighieri, Inferno, Canto V)
Ravenna, 1275
Fin
da piccola, Francesca aveva sempre saputo che il suo non sarebbe stato un matrimonio
d’amore; prima o poi il padre l’avrebbe ceduta al miglior offerente, seguendo
la fredda logica impostagli dalla politica. Sapeva che era ingiusto, ma non
poteva fare proprio nulla a riguardo, perché il padre poteva disporre di lei
come e quando voleva. Era uno strumento nelle sue mani, con un fine ben
preciso; e lo scopo della propria vita era ottenere un buon matrimonio che
procurasse dei vantaggi alla propria famiglia. Era questione di tempo, ma
soprattutto di circostanze.
Quel
giorno purtroppo era giunto.
Quando
la serva le aveva comunicato che il padre, appena tornato da uno dei suoi
viaggi, l’attendeva nel salone per parlarle, Francesca in cuor suo aveva
compreso che il momento tanto temuto era arrivato. Aveva annuito e obbediente si
era recata là dove il genitore l’attendeva.
Guido
da Polenta era stato sbrigativo nel comunicarle che di lì a un mese avrebbe
sposato Giovanni Malatesta. Le aveva spiegato che nel tempo trascorso lontano
da casa si era impadronito di Ravenna cacciando la famiglia dei Traversari dai vertici del potere, con l’aiuto dei
Malatesta. Le due famiglie, da tempo rivali, avevano infatti deciso di mettere
da parte le ostilità del passato per divenire alleate, e un matrimonio tra il
primogenito dei Malatesta e la figlia di Guido da Polenta sarebbe stato
l’ideale. Non si era dilungato oltre e l’aveva congedata, e a quel punto
Francesca era fuggita nella sua stanza dove aveva potuto dare libero sfogo alle
lacrime.
La
ragazza sospirò, al ricordo di quel terribile giorno. Era ormai passato un
mese, e il giorno del matrimonio era giunto. Senza che nemmeno se ne
accorgesse, le serve avevano finito di vestirla e pettinarla. Era stata docile
come un agnellino, nelle loro mani. Non appena si rese conto che avevano
terminato la loro opera, le congedò. Voleva restare sola, godere degli ultimi
attimi di libertà.
Si
sedette sul letto, attenta a non gualcire l’elegante tunica di lana verde
decorata con fili dorati che intessevano elaborati ghirigori, e si chiese per
l’ennesima volta perché non fosse libera di sposare chi voleva. Si chiese
perché invece doveva sposare un uomo che aveva più del doppio dei suoi sedici
anni, un uomo che, stando a quel che si diceva, era burbero, crudele e perfino
zoppo; fattore, quest’ultimo, che gli era valso il soprannome ‘Gianciotto’.
Un
uomo che Francesca non aveva mai incontrato e che non avrebbe incontrato per un
po’, stando a quel che le aveva detto il padre. Quel giorno si sarebbe sposata,
sì, ma lo avrebbe fatto per procura: Gianciotto, impegnato in battaglia,
avrebbe inviato una persona di sua fiducia a fare le proprie veci e in quel
modo il matrimonio sarebbe stato effettivo, l’alleanza tra i da Polenta e i
Malatesta sarebbe stata sulla bocca di tutti e i loro nemici avrebbero potuto
temerli ancor più di prima. Entrambe le famiglie infatti erano di parte guelfa,
ovvero appoggiavano l’autorità papale nello scontro di potere che questa aveva
intrapreso contro quella imperiale, sostenuta a sua volta dai ghibellini.
Francesca
strinse i pugni per la rabbia, a quel pensiero. E la rabbia aumentò quando si
rese nuovamente conto che di fronte a quella situazione lei era impotente; solo
un oggetto nelle mani del padre, e in quanto tale privo di sentimenti e
incapace di prendere decisioni per conto proprio. O almeno, così la pensava il
genitore, e Francesca aveva desiderato che le cose stessero davvero così.
Quanto aveva sognato di essere davvero un oggetto, non avere più sentimenti,
accettare tutto con apatia! Invece doveva accettare la situazione con
passività, pur covando dentro sé emozioni forti ma destinate a restare
inespresse, sopraffatte dall’obbedienza e dall’onore che doveva portare alla
propria famiglia, contraendo un buon matrimonio. Per quanto lo volesse, non
poteva opporsi.
Sobbalzò
quando un inserviente bussò alla porta per annunciarle che il vessillo dei
Malatesta era stato avvistato in lontananza dal torrione di vedetta, perché
quello significava solo una cosa: l’uomo di fiducia di Gianciotto, chiunque
egli fosse, stava arrivando.
Entro
sera Francesca da Polenta sarebbe stata la moglie di Gianciotto Malatesta.
Dovette
mordersi il labbro inferiore per trattenere le lacrime e si impose di restare
fredda, forte, impassibile. Sarebbe stato disdicevole mostrarsi debole; il
padre non glielo avrebbe mai perdonato.
Francesca
non era preparata a quello che accadde di seguito, e non poté fare altro che
maledire la propria sorte, la quale continuava ad accanirsi su di lei così
crudelmente.
Quando
l’uomo di fiducia di Gianciotto varcò le soglie della sala grande con due
cavalieri al seguito, la ragazza si limitò a tenere gli occhi bassi, per
nascondere la propria espressione spaventata. Avanzò fino al centro del salone,
come il padre le aveva ordinato di fare in precedenza, e fu solo allora che
dominò le proprie emozioni e osò alzare lo sguardo.
Il
cuore accelerò i propri battiti per la sorpresa ed ella per un attimo desiderò
che colui che le stava di fronte fosse Gianciotto, che fosse lui l’uomo che
doveva sposare; ne sarebbe stata ben felice. Davanti a lei infatti si trovava
l’uomo più bello che avesse mai visto: elegantemente vestito, con un mantello
color porpora bordato di pelliccia, di alta statura e corporatura media, doveva
avere all’incirca una trentina d’anni, forse un po’ meno. Bionde ciocche lievemente
ondulate gli incorniciavano un viso dai tratti dolci e gentili, eppure
mascolini.
Si
presentò come Paolo Malatesta, fratello minore di Gianciotto e le sorrise
calorosamente, guardandola con occhi di un azzurro cristallino, che a Francesca
parvero indagatori, intenti a leggerle l’animo e a scrutare i propri pensieri
più profondi. Fu costretta a distogliere lo sguardo, per paura che egli capisse
quanto l’aveva turbata.
Anni
dopo, rammentando quel loro primo incontro in uno dei loro convegni amorosi, si
sarebbero confessati l’un l’altra che in quel momento, quando i loro sguardi si
erano incontrati per la prima volta, si erano innamorati, senza una logica,
senza un perché.
Fu
amore a prima vista e fu l’inizio della loro dannazione.
Francesca
era in sella al proprio cavallo, ancora frastornata dalla portata degli eventi
che si erano susseguiti nell’arco di un così breve tempo: lo sconvolgente
incontro con Paolo, la cerimonia che l’aveva consacrata a Gianciotto e infine
la partenza verso Gradara, ovvero la residenza dei Malatesta che di lì ai
giorni a venire sarebbe diventata anche la propria.
Cavalcava
in silenzio accanto a Paolo, persa nei propri pensieri. La sua vita sarebbe
cambiata, e in parte lo era già, eppure lei non aveva la minima idea di quello
che la aspettava, non sapeva nemmeno che aspetto avesse l’uomo di cui era
divenuta la consorte.
Paolo,
però, avrebbe potuto darle qualche informazione.
-
Che tipo di uomo è vostro fratello? – si decide dunque a chiedergli, rompendo
il silenzio.
Paolo
aggrottò la fronte a quella legittima e semplice domanda. Che cosa avrebbe
potuto rispondere? Cosa avrebbe potuto dire a quella fanciulla così spaesata?
Era in pena per lei, voleva fare qualcosa per aiutarla, tuttavia si rendeva
conto che dicendole la verità l’avrebbe soltanto spaventata. Al tempo stesso,
però, non aveva cuore di mentirle. Non amava molto il fratello, che considerava
troppo scontroso, e tra loro non correvano buoni rapporti. Tutte le guerre che
aveva combattuto fin da giovanissimo gli avevano forgiato il carattere,
indurendolo e inasprendolo al punto tale che in ogni aspetto della sua vita si
comportava come se fosse sul campo di battaglia, e per questo motivo non godeva
di molte simpatie.
-
È un abile condottiero – le rispose. Quella era la verità, del resto; era
quello che la gente diceva di lui. – Le sue qualità di combattente sono
elogiate da tutti i nostri alleati e temute da chiunque sia così stolto da
trovarsi dalla parte sbagliata, quando lui scende in campo – aggiunse. Si rese
conto che non era molto, e che non rispondeva del tutto alla domanda di
Francesca, ma per lo meno aveva messo in luce le qualità del fratello. Le
uniche, a suo parere.
-
Credete… credete che anche io debba temerlo? –
domandò la fanciulla, titubante. La risposta di Paolo non le aveva detto nulla
che già non avesse saputo per sentito dire.
-
No, non ne avete motivo – le rispose dolcemente Paolo. – Sarete sua moglie, gli
darete un erede e perciò non dovete temerlo – tentò di rassicurarla. Sperò per
lei che quel che aveva appena detto rispecchiasse i pensieri del fratello, ma
non ne era del tutto sicuro. Sperò che quella fanciulla così dolce e spaventata
potesse ispirargli solo sentimenti nobili e indurlo a migliorarsi, a fare di
tutto per farla felice. – Quanti anni avete? – le chiese, mosso a curiosità.
-
Sedici – rispose prontamente Francesca. – E voi?
Uno in più di
mia moglie quando l’ho sposata, pensò Paolo. Non poté fare a meno di
rabbuiarsi; anche il suo era stato un matrimonio politico, trasformatosi col
tempo in una reciproca e rassegnata sopportazione.
Si
riscosse da quei pensieri e rispose alla domanda: - Ne ho ventisette.
-
E siete sposato? – indagò Francesca, per curiosità personale. Aveva bisogno di
saperlo, era desiderosa ma al tempo stesso timorosa di scoprire che il proprio
destino avrebbe potuto essere diverso, se avesse potuto sposare Paolo anziché
Gianciotto. Per suo padre non sarebbe cambiato molto, perché avrebbe ottenuto
comunque l’alleanza con i Malatesta, mentre per lei sarebbe cambiato tutto, avrebbe
affrontato la sorte con la consapevolezza che quel matrimonio politico avrebbe
potuto trasformarsi in un’unione d’amore.
-
Sì, lo sono – rispose Paolo, mesto, e le sue speranze si infransero. Provò
persino una fitta di gelosia, e si ritrovò ad invidiare la moglie di Paolo,
chiunque ella fosse. Una parte di lei fu felice, però, perché così avrebbe
potuto rassegnarsi al proprio fato senza rimpianti, sapendo che non sarebbe
potuto accadere altrimenti. Con senso pratico pensò che forse era ancora in tempo
ad innamorarsi di suo marito; del resto non lo aveva ancora incontrato.
Gradara, due settimane dopo.
Tempo
dopo Francesca conobbe finalmente il marito, e desiderò non averlo mai fatto.
La
finestra della propria stanza si trovava esattamente sopra il ponte levatoio
che regolava l’accesso alla rocca di Gradara, così lei poteva vedere chiunque
si recasse al castello. Francesca trascorreva lì gran parte del proprio tempo,
seduta a ricamare o a leggere, con la speranza di scorgere Paolo recatosi a
farle visita. Speranza vana e sciocca, eppure non poteva fare a meno di
nutrirla. Per qualche assurdo motivo, non faceva altro che pensare al cognato
in ogni momento della propria giornata. Non lo vedeva da quando l’aveva
accompagnata a Gradara il giorno del suo matrimonio, e da allora erano
trascorse due settimane, durante le quali si era abituata alla nuova vita, che
non era poi così diversa dalla precedente, dato che le sue occupazioni erano
sempre le solite. Così come dopo la morte della madre aveva dovuto occuparsi
della dimora di famiglia, lo stesso doveva fare lì insieme al siniscalco, in
assenza del marito. Oltre a loro lì dimoravano anche il suocero, che però si
trovava a Bologna ad esercitare la carica di Capitano del Popolo, e il cognato
Malatestino, che si trovava chissà dove con Gianciotto.
Seduta
alla finestra, intenta nella lettura, Francesca alzò lo sguardo per un attimo e
vide che due cavalli si stavano avvicinando al ponte levatoio. Aguzzò la vista
e notò lo stemma dei Malatesta. Per un attimo sperò che si trattasse finalmente
di Paolo, ma poco dopo dovette ricredersi, perché quelle che stavano arrivando
erano persone che lei non aveva mai visto ed indossavano l’armatura.
Chiuse
con un tonfo il libro che stava leggendo e lo ripose nel baule dove teneva i
propri vestiti, dopodiché si avvicinò ad un grande specchio e si pizzicò le
gote per darsi un po’ di colore, dato che per il timore dell’incontro imminente
era diventata pallida come un cencio. Si lisciò la veste con le mani per far
sparire le pieghe, si riavviò i capelli e si diresse al cortile interno del
castello, pronta ad accogliere gli ospiti. In cuor suo sapeva però che quelli
erano tutt’altro che ospiti; aveva la sensazione che il momento di conoscere il
marito fosse giunto, e non era ancora pronta.
Quando
giunse nel cortile interno si impose di dominare l’agitazione che sentiva
dentro e di rimanere composta, esattamente come aveva fatto il giorno del
matrimonio.
Non
dovette attendere molto; nel giro di pochi minuti i due cavalli attraversarono
il ponte levatoio e i loro cavalieri smontarono da essi, affidandoli a due
servitori che nel frattempo erano giunti ad accoglierli insieme al siniscalco.
-
Signori, bentornati – diede il benvenuto quest’ultimo, facendo un inchino. – Se
avessi saputo del vostro arrivo, vi avrei accolto meglio.
-
È stata una decisione improvvisa – disse il più giovane dei due, al quale,
Francesca notò con orrore, mancava un occhio. Ne dedusse che doveva essere Malatestino, detto anche Malatestino
dell’occhio proprio per quel motivo. – Mio fratello non vedeva l’ora di
conoscere sua moglie.
Udite
quelle parole, Francesca si armò di coraggio e avanzò verso i due nuovi venuti.
-
Eccomi, dunque – si presentò con un piccolo inchino. – Sono Francesca da
Polenta, miei signori. E sono lieta di poter finalmente incontrare mio marito.
Gianciotto
si fece avanti con andatura claudicante, e Francesca ebbe modo di esaminarlo.
L’uomo era di corporatura robusta e di media altezza. Lunghi e ondulati capelli
corvini gli incorniciavano il viso squadrato, e dai lineamenti marcati, giungendo poco al di
sotto delle spalle. Gli occhi erano azzurri come quelli di Paolo, ma incutevano
timore per via delle sopracciglia arcuate, che conferivano a Gianciotto uno
sguardo arcigno e un’espressione sempre scontrosa e imbronciata, accentuata
anche dagli angoli della bocca piegati all’ingiù.
-
Sono io ad essere lieto, mia signora – ribatté Gianciotto, osservando la moglie
con malcelata cupidigia. Era davvero bella, con quei fluenti capelli castani
portati sciolti e quegli occhi color nocciola così grandi e spaventati,
nonostante cercasse di dominarsi. Si ripromise di ringraziare il padre, che gli
aveva procurato una moglie così graziosa.
Abbozzò
un sorriso, che la ragazza ricambiò con timore. L’uomo non ci fece caso, poiché
era quello l’effetto che faceva normalmente alle persone e in particolar modo
alle donne. Ci aveva fatto il callo, ormai, e aveva perfino imparato a trarne
vantaggio, data la vita che conduceva. Sperava solo che la moglie sarebbe
andata oltre le apparenze.
Quella
sera dopo cena, Francesca si ritirò nella propria stanza avendo a malapena
toccato cibo. L’incontro con il marito l’aveva turbata non poco e il tempo
trascorso con lui fino a quel momento le aveva dato modo di capire che le
dicerie che aveva sentito sul suo conto erano vere: sarebbe stata costretta a
passare il resto della propria vita con un uomo così crudele e sanguinario in
battaglia quanto arcigno e scontroso nella vita quotidiana. Con un uomo del
genere avrebbe dovuto condividere il letto, e questo le faceva così tanta paura da provocarle dei dolorosi crampi alla
bocca dello stomaco.
Sforzandosi
di trattenere le lacrime, si tolse la veste e rimase in camicia, quindi si
sedette sul letto e restò in attesa, sapendo quel che l’aspettava. In realtà
non lo sapeva affatto, perché nessuno le aveva mai spiegato in cosa consistesse
davvero quel tipo di dovere coniugale; sapeva soltanto che era finalizzato al
concepimento di un figlio e che parlarne era peccato, così come lo era trarne
piacere e consumare quell’atto al di fuori del sacro vincolo matrimoniale, pena
la dannazione eterna.
Gianciotto
non si fece attendere troppo; poco dopo irruppe nella stanza e chiuse la porta
dietro di sé con un tonfo. Mentre il marito si spogliava delle proprie vesti,
Francesca tenne lo sguardo abbassato in un misto di pudore e timore. Il cuore
le batteva all’impazzata per la paura di quel che l’attendeva e sentiva le
lacrime premerle agli angoli degli occhi, ma fece un respiro profondo per
ricacciarle indietro e funzionò. Non voleva mostrarsi debole, non poteva
dimostrare a Gianciotto che in quel frangente poteva avere pieno potere su di
lei.
L’uomo
le si posizionò davanti e le afferrò il mento con forza per costringerla ad
alzare lo sguardo verso di lui.
-
Ho atteso questo momento fin da quando vi ho visto quest’oggi – le sussurrò con
un sorriso che tuttavia a Francesca parve un ghigno, alla fioca luce delle
candele.
-
Siete bellissima – mormorò dunque Gianciotto, prima di avventarsi sulle labbra
della moglie, che dapprima fu colta impreparata ma poi lo assecondò, chiudendo
gli occhi e appoggiandogli timidamente le mani al petto. A quel gesto l’uomo
s’infiammò di desiderio e mosso dall’urgenza di esso fece stendere la ragazza
sul letto, per poi alzarle la camicia fin sopra la vita e introdursi in lei
senza troppe cerimonie.
Francesca
urlò in preda al dolore, sentendosi lacerata in due. Gianciotto le tappò la
bocca con una mano e lei sfogò la propria sofferenza piangendo lacrime
silenziose; l’uomo non si degnò nemmeno di asciugargliele, si limitò ad
ignorarle e ad attribuirle al fatto che la moglie fosse vergine.
Quando
tutto finì lei e il marito si coricarono sotto le coperte, ed egli si
addormentò subito. Non appena lo sentì ronfare rumorosamente, Francesca si alzò
dal letto per andarsi a sedere sulla cassapanca e si lasciò andare ai
singhiozzi, per manifestare il proprio dolore fisico e interiore, conscia ora
più che mai del fatto che mai avrebbe amato Gianciotto. Per un attimo e non per
la prima volta, pensò a come sarebbe stato se al posto del marito ci fosse
stato Paolo. Era certa che le cose sarebbero andate diversamente, che lui
sarebbe stato più comprensivo, che dopo
l’avrebbe stretta a sé, cullandola tra le sue braccia e sussurrandole parole di
conforto. E, di nuovo, pensò che mai avrebbe potuto amare Gianciotto. Il suo
cuore apparteneva già a Paolo.
Due
giorni dopo, al castello di Gradara fu organizzata una grande festa in onore
delle nozze di Gianciotto e Francesca. Vi presero parte i Malatesta e i Da
Polenta e i maggiori esponenti delle famiglie più in vista della zona; perfino
il suocero di Francesca si assentò da Bologna appositamente per conoscerla.
Fu
in quell’occasione che la donna rivide Paolo, e non poté impedire al proprio
cuore di rallegrarsi. Si incupì tuttavia non appena le fu presentata la moglie
del cognato, Orabile Beatrice, e per tutta la durata
dei festeggiamenti quella sensazione di tristezza non l’abbandonò mai, per
quanto lei fosse abile a celarla agli occhi di tutti. Si mostrava cordiale e
sorridente, ma dentro avvertiva un vuoto che nulla avrebbe potuto colmare. Quel
vuoto era dato dal matrimonio con Gianciotto, ma soprattutto dall’incontro con
Paolo: conoscere sua moglie le aveva fatto capire che i sentimenti che provava
nei confronti del cognato erano sbagliati, che doveva accantonarli
immediatamente e indirizzarli verso il marito, ovvero l’unica persona
meritevole di riceverli. Quello che nutriva per Paolo era un amore peccaminoso,
che l’avrebbe corrotta dall’interno fino a farla marcire all’Inferno, che non
l’avrebbe portata a nulla di buono, che l’avrebbe solo resa infelice e frustrata.
Doveva
pensare al presente, a quello che aveva, e non a quello che avrebbe potuto
essere.
Gradara, Gennaio 1282
Gianciotto
era furibondo, come poche volte Francesca lo aveva visto.
-
Che cosa vi tedia? – gli chiese, schietta. Con gli anni aveva imparato che il
modo migliore per rivolgersi al marito era quello, perché egli apprezzava
particolarmente le persone dirette e non amava i giri di parole.
-
Quel farabutto! – imprecò Gianciotto con voce tonante. – Sarà Capitano del Popolo!
A Firenze! Lui, che in tutti questi anni non ha fatto nulla, non ha mai
combattuto una volta al mio fianco! La meritavo io, quella carica! Sua Santità
doveva concederla a me, non a lui!
Francesca
era confusa. – Chi sarà Capitano del Popolo a Firenze? – domandò dunque.
-
Mio fratello, Paolo! – le rispose il marito, pronunciando quel nome con odio. –
Vi rendete conto? È un paradosso! Lui che non ha mai combattuto se non ai
tornei, sarà a capo delle milizie cittadine di Firenze!
Francesca
si sentì gelare, a quelle parole. Paolo Capitano del Popolo a Firenze?
Significava solo una cosa: per un anno non lo avrebbe più rivisto, non avrebbe
più goduto della sua compagnia, non l’avrebbe più scorto dalla propria finestra
mentre si recava a Gradara, a cavallo. Da un paio d’anni infatti il cognato,
che aveva dei possedimenti nelle vicinanze del castello, aveva preso
l’abitudine di farvi visita una volta la settimana insieme al figlio maggiore Uberto, per trascorrere del tempo con la cognata e con la
nipote Concordia, nata circa un anno dopo il matrimonio tra Gianciotto e
Francesca.
Quest’ultima
accoglieva quelle visite con piacere, perché concedevano un po’ di tregua
all’affanno del suo tacito amore. Aveva sperato che quel sentimento scemasse
col passare del tempo, ma non era successo e anzi era cresciuto, quindi aveva
dovuto rassegnarvisi, accontentandosi di quelle visite settimanali che le
permettevano di trascorrere del tempo con Paolo. Le bastavano, per essere
felice. Quando era in sua compagnia dimenticava tutto ed era serena; non appena
il cognato se ne andava, però, tornava ad assalirla con ferocia la
consapevolezza che tutto quello sentiva nei suoi confronti fosse tremendamente
sbagliato.
Udita
la notizia della nomina di Paolo a quella prestigiosa carica, e per giunta da
parte del pontefice in persona, Francesca non poté fare altro che pensare che
fosse un segno divino, che nel periodo di tempo che Paolo avrebbe trascorso a
Firenze lei avrebbe dovuto dimenticarlo.
Dubitava,
tuttavia, di farcela.
Quando
Paolo si recò in visita a Gradara la settimana successiva, Francesca si
complimentò con lui per l’ottenimento della carica di Capitano del Popolo di
Firenze.
-
Come lo avete saputo? – le chiese Paolo, sorpreso. Avrebbe preferito dirglielo
lui di persona, ma evidentemente qualcuno era arrivato prima.
-
Me lo ha detto Gianciotto – rispose Francesca. Lei e il cognato erano seduti
davanti al camino del salone principale, godendo del tepore che il fuoco
offriva loro. – Quando partirete? – gli domandò poi, con una nota d’ansia
malcelata.
-
A fine febbraio – rispose l’uomo. – Entrerò in carica a marzo, ma prima voglio
guardarmi un po’ intorno, conoscere la città.
-
Capisco – disse Francesca, rabbuiandosi. Ancora un mese e non avrebbe più visto
Paolo per un anno. – Mi mancheranno, le vostre visite – sussurrò poi d’istinto,
abbassando lo sguardo. Si pentì immediatamente di aver pronunciato quelle
parole: era stata avventata ma soprattutto inopportuna.
-
Anche a me mancherà venire qui – disse Paolo, inaspettatamente. Francesca alzò
lo sguardo, sorpresa, e vide che le sorrideva. - È bello stare in vostra
compagnia – aggiunse l’uomo, prima di posare una mano su quelle della donna, giunte
in grembo, e stringerle con tenerezza. Francesca avvertì un calore sconosciuto
esploderle al centro del petto e si sentì avvampare; mai aveva provato simili
sensazioni, prima di allora.
Nei
mesi a venire, entrambi avrebbero serbato quel ricordo con dolcezza e
nostalgia, ignari di accingersi ad oltrepassare il punto di non ritorno.
Un
paio d’ore dopo, Paolo era in sella al proprio cavallo, diretto verso casa.
Un
sorriso sincero gli segnava il volto, mentre ripensava a quanto avvenuto quel
pomeriggio. Sapeva di aver compiuto una mossa azzardata, quando aveva posato la
propria mano su quelle di Francesca, ma non aveva potuto farne a meno. Aveva
resistito per troppi anni senza neanche mai sfiorarla, e alla fine aveva
ceduto. Tante volte aveva immaginato di stringere quelle mani piccole e
affusolate tra le proprie, sognandone la morbidezza e il tepore, ma mai avrebbe
immaginato che sarebbe successo davvero.
Paolo
si era innamorato di Francesca fin dal primo momento in cui l’aveva vista,
sebbene fosse già sposato. Il proprio matrimonio infatti era privo di amore e
la moglie non faceva che renderlo infelice, non premurandosi di mascherare il
disprezzo che nutriva nei suoi confronti. Quando era rimasta unica erede dei
possedimenti di famiglia, infatti, Beatrice era stata subito raggiunta dal
padre di Paolo che le aveva proposto il matrimonio con il proprio figlio, così
che i suoi averi si unissero a quelli della famiglia Malatesta; qualora si
fosse rifiutata, se ne sarebbe impadronito con la forza. Beatrice non aveva
potuto fare altro che accettare e sposare Paolo, che col tempo aveva finito per
incolpare della propria sorte e che aveva reso bersaglio della propria ira e
del proprio rancore.
A
Paolo questo non faceva per niente piacere, perché anche lui come Beatrice era
stato una pedina nelle mani del padre, ma la donna non ne voleva sapere. Si era
dunque rassegnato ad una vita senza amore, finché non aveva incontrato
Francesca. Per la prima volta in vita sua si era ritrovato a invidiare
Gianciotto e a desiderare di essere al suo posto.
Sapeva
che i sentimenti che nutriva per la giovane donna non erano per niente nobili,
eppure dentro di sé sentiva che lo erano, sentiva che il suo amore per lei era
così puro che nulla avrebbe potuto contaminarlo.
Quel
giorno, poi, quando lei aveva ricambiato la sua stretta, per la prima volta
aveva avuto il sospetto che quell’amore potesse essere ricambiato, e ne era
stato felice. Si rammaricò soltanto del fatto che di lì a un mese avrebbe
dovuto partire, e si sarebbe assentato per un anno. Sarebbe stata dura, lo
sapeva, specialmente perché sentiva già la mancanza di Francesca, quasi come
fosse un dolore fisico che gli rendeva difficoltoso respirare; eppure si era
congedato da lei da poco.
Spazio Autrice
Salve a tutti! :) Devo dirvi alcune
cose riguardo alla storia.
Per prima cosa, questa storia
partecipa alla Challenge “Amor, ch’a nullo amato, amar perdona” indetta da
Mia90 sul forum di Efp. Vi consiglio di farci un
salto, perché offre spunti interessanti. (Link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10223984
)
Detto ciò, passiamo alla storia vera e
propria. Prima di scriverla, mi sono documentata un po’ e ho trovato varie
versioni: quella di Dante, quella di Wikipedia e
quella dei numerosi siti sul Castello di Gradara, dove si pensa sia stato
consumato l’omicidio di Paolo e Francesca da parte di Gianciotto. Io ho fatto
un po’ un mix di tutto quello che ho letto e ne è uscita fuori questa storia.
Bella o brutta che sia.
Per quanto riguarda il matrimonio tra
Francesca e Gianciotto, le fonti che ho consultato sono tutte concordi nel dire
che è avvenuto nel 1275, che è stato un matrimonio politico e che è avvenuto
per procura, nel senso che Gianciotto ha demandato l’atto a terzi, per usare una
terminologia giuridica (per la quale ringrazio il mio ragazzo xD). Wikipedia non specifica
altro, mentre gli altri siti dicono che Guido da Polenta e Malatesta da Verrucchio, ovvero i padri dei due consorti, si erano resi
conto che Francesca, giovane e bella, si sarebbe rifiutata di sposare
Gianciotto, zoppo, brutto e più vecchio di lei, così hanno ordito un inganno:
le avrebbero fatto credere che si sarebbe sposata con Paolo, detto il Bello,
così non avrebbe obiettato. La tradizione vuole che Francesca si sia innamorata
di lui a prima vista e che abbia quindi acconsentito al matrimonio. Peccato che
Paolo (già sposato) rappresentasse Gianciotto e quindi ecco che Francesca casca
in pieno nell’inganno e una volta scopertolo non può fare altro che
rassegnarsi.
Ammetto che così raccontata la storia
è ancora più avvincente, ma sinceramente dubito che una donna di un certo rango
nel Medioevo potesse anche solo pensare di esprimere la propria opinione,
figurarsi se poteva rifiutare di sposarsi con un uomo scelto dal padre!
Matrimoni politici, poi, in quel periodo erano la norma, per cui le donne non
potevano fare altro che accettare con rassegnazione quello che veniva loro
imposto. Per questo motivo ho voluto scartare l’inganno ordito dai genitori.
Forse la storia ci ha perso qualcosa, ma ho preferito così.^^
Un’altra cosa su cui le idee sono
molto discordanti è la data dell’omicidio. C’è chi dice 1284, chi 1285 e chi
1289. Io ho optato per quella che più si adattava alle mie esigenze narrative.
Lo stesso vale per le date di nascita,
molto incerte ed oscillanti. Essendo tali, le ho adattate alle mie necessità,
dettate dalla storia che avevo in mente.
Preciso anche alcuni termini che ho
utilizzato, che magari non tutti conoscono:
Siniscalco:
in assenza del proprietario del castello, è colui che ne fa le veci insieme
alla castellana.
Podestà
e
Capitano del popolo: Non sto a dilungarmi troppo. Sono semplicemente due
cariche complementari, che in epoca comunale si dividevano le responsabilità
che l’amministrazione di un Comune comportava. Ognuno dei due aveva compiti ben
precisi che all’altro non spettavano, per via di una politica di equilibrio.
Per assicurare imparzialità venivano entrambi scelti al di fuori del Comune, ed
entrambe le cariche avevano una durata precisa, che poteva variare dai sei mesi
a un anno.
Camicia:
indumento che nel Medioevo uomini e donne portavano sotto i vestiti veri e
propri e che di notte indossavano come pigiama. Per gli uomini era lunga fino
alle cosce, per le donne fino ai piedi.
In ultimo, vorrei specificare che la
storia era nata come una one-shot, ma è uscita fuori
bella lunga, per cui ho preferito dividere la pubblicazione in due parti,
massimo tre (devo decidere bene se e come dividere quel che rimane). La seconda
parte arriverà a breve, comunque.
Detto ciò, mi scuso per essere stata
logorroica.
Fatemi infine sapere cosa ne pensate,
perché è la mia prima originale di tipo storico e sarei curiosa di sapere come
è venuta.^^ Quindi commentate e ditemi se come storia funziona o se ho
sbagliato da qualche parte. :)
A presto!
Sara