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Autore: RoSyBlAcK    29/07/2007    11 recensioni
estate tra il sesto e il settimo.rabbia e delusioni.la difficoltà di dimenticare.rinunciare a qualcuno.guerra e congetture.harry e ginny.
dopo una lunghissima pausa dalla pubblicazioni di fiction..rieccomi trasportata da una voglia matta di leggere il settimo ma dal non poterlo fare causa-lingua.. così per placare la mia voglia di harry e ammazzare il tempo mi sono ri-data alla scrittura..spero che appreziate ^___^
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao carissimi

Ciao carissimi! Due parole prima di lasciarvi a questa one-shot dedicata a Harry e Ginny, ambientata nell’estate tra il sesto e il settimo libro. Allora… innanzi tutto, io non ho letto il settimo, quindi tutto quello che leggerete è frutto di una notte d’insonnia al mare settimana scorsa e qualche riflessione sulla spiaggia con la mia adorata gemellina. Poi… il titolo è ispirato alla canzone di Gianna Nannini… Ero tentata di aggiungere la canzone da qualche parte, ma alla fine non l’ho fatto. Però vi consiglio di scaricarla, o di scaricare almeno le parole, perché non so… a me suonano molto di “Ginny”. Non so perché! Comunque… adesso vi lascio alla lettura… so che è molto che non pubblico, spero non mi abbiate dimenticata!, ma come molti sanno sono stata incasinatissima negli ultimi mesi… però sappiate che sto lavorando su una long-ficc Ron-Hermione da quando karmy mi ha chiesto di scriverne una e a settembre posso assicurarvi che pubblicherò il risalutato del mio duro lavoro! Detto questo vi lascio alla lettura, augurandovi un bell’agosto sereno e rilassante che vi dia la carica per il nuovo anno scolastico (o lavorativo XD)!!

Un bacione… vi voglio bene!

…Dedicata a chi ha paura di amare…

.Amami Ancora.

In un angolo della nostra mente, anche se non ce ne rendiamo conto, certe cose non muoiono mai. Mai. Certi visi, certe frasi, certi momenti della nostra vita, restano incatenati al fondo della nostra memoria, appiccicati con la colla del tempo, e non possiamo far altro che continuare a percepirne la presenza, l’esistenza, l’eco, il sapore. Sempre e per sempre. A volte vorremmo dimenticare. Ci piacerebbe chiudere alcuni ricordi in un oblio dal quale farli riemergere solo a nostro piacimento. Ma non possiamo. Impariamo a convivere con i nostri ricordi, lo impariamo con la forza dell’abitudine, perché altrimenti il loro insostenibile peso ci schiaccerebbe fino a spezzarci il respiro, impedendoci di vivere. Cancelliamo il dolore dal nostro passato, lo riempiamo di gemme brillanti e tentiamo di vedere solo le cose belle. I brutti ricordi li ignoriamo, se possiamo. Quello che vorremmo è possedere i ricordi altrui. Sapere tutto delle persone che amiamo, e più le amiamo più vorremmo possedere tutto di loro, sapere com’erano da bambini, che colazione facevano, se avevano paura del buio. Vorremmo possedere tutto della persona che amiamo, anche e soprattutto quello che non vuole condividere con noi.

La cucina di Grimmuld Place è illuminata da una luce grigia, fioca, da un alone di fumo denso e appiccicoso che entra nelle narici e ti brucia la gola. Mamma ha dimenticato nel forno il polpettone, ma nessuno si disturba ad andarlo a togliere da lì. Sono tutti troppo concentrati su quello che sta dicendo Remus. Sembra invecchiato di mille anni negli ultimi giorni. Tonks gli siede accanto, assorta in lugubri pensieri che disegnano le sue belle labbra a cuore in una smorfia. Nel caldo afoso di agosto, si rispecchiano silenziosi i fantasmi dei nostri ultimi, gloriosi, anni di vita. Non riesco a staccare i miei pensieri da quei fantasmi, continuo a cacciarli istericamente, non posso credere che mi siano scappati via. Soprattutto gli ultimi mesi. Sono volati, come se tra le mie dita non potessi reggere tanta insana felicità. Dal momento in cui Harry mi ha baciata al momento in cui mi ha lasciata, di corsa lungo la lapide d’argento della tomba di Silente fino alle notti bianche alla Tana, nel rifugio ovattato delle nozze di Bill e Fleur, fino alle interminabili riunioni qui, all’Ordine, riunioni che un anno fa avrei dato un braccio per seguire e che ora mi pizzicano addosso come un vecchio maglione ai ferri di mamma. Sediamo intorno al tavolo svuotati, confusi, senza una guida e senza una meta, senza capacitarci di essere giunti qui. Come i reduci di un naufragio. Ma preferiremmo essere gli annegati che restare sulla battigia tentando di mettere insieme i pezzi ed escogitare una via di fuga. La cucina è affollata, eppure io la sento come vuota. Nessun Albus a riempire il posto a capotavola con la sua presenza argentata, nessun Sirius con le sue battute un po’ volgari e la sua ironia spiazzante, nessun Piton con la sua imbarazzante malvagità. Guardo, poi, pigramente, verso Harry, Ron ed Hermione. E vederli così mi addolora. Non sono loro, non più. Sono sola, sola come non sono stata mai in tutta la mia vita. Anche loro sono morti, e dalle loro ceneri sono nati adulti fin troppo adulti. Discutono, si alzano e si agitano, parlano e si arrabbiano, impongono i loro pareri e le loro idee. Sono loro i veri capi, qui dentro. Questa è la loro squadra, la loro guerra, la loro partita. La loro vita. Noi siamo personaggi di un gioco troppo grande. Io sono un personaggio di un gioco troppo grande. Ci sono capitata in mezzo, come una formichina nella tela di un ragno. E quel ragno ha occhiali tondi, capelli neri, una saetta tatuata in fronte dal destino e si chiama Harry Potter. Ed è lui, più di tutti, ad essere cambiato. Mi rigiro una ciocca di capelli tra le dita, bevo un sorso d’acqua frizzante e provo a trovare qualcosa di interessante da dire, ma niente da fare. Non c’è. Tutto quello che vorrei dire è già stato detto, non da me. Tutto quello che penso mi vergogno a dirlo. È come un tuffo nel passato, a quando arrossivo se solo Harry entrava nella stessa stanza in cui c’ero io. Mi ricordo la prima volta che è venuto alla Tana. La mattina sono scesa in cucina, nel mio pigiama da maschio, e lui era lì, con quell’aria da cucciolo mescolata alla spavalderia del suo sorriso. Mi sento come quella mattina, come se fossi ancora una bambina nel pigiama smesso dei suoi fratelli maggiori, rossa dalla punta dei capelli a quella dei piedi (e io sì che posso affermare una cosa simile), mentre il ragazzo dei tuoi sogni ti guarda e capisce che sei cotta di lui e non puoi far altro che sentirti totalmente fuori posto. Ecco, anche ora, che ho addosso un paio di jeans normalissimi e una maglietta forse un po’ troppo stretta, ma comunque normale, i capelli legati in una coda disordinata che nessuno nota ne noterà, mi sento uguale: a disagio, scoperta, fuori luogo.

-Ginny, diglielo che ho ragione.

Alzo gli occhi dal tavolo a Hermione, che ha dipinta in faccia un’espressione feroce, i capelli ricci e scomposti le cadono sulle spalle, smagrite dai giorni di digiuno. Sospiro.

-A Ron?- chiedo, e Harry ride. Ci guardiamo e sento un tuffo al cuore cui ormai sono abituata, l’unica cosa che ancora mi faccia sentire viva. –Certo, che domande.- Faccio, mettendomi una mano nella frangia, e desiderando sempre di più di sparire. Guardo mio fratello, più alto e dinoccolato che mai, con un accenno di barba non fatta e gli occhi blu offuscati, e gli dico, perentoria, -Ron, sai che ha ragione Hermione.

Lui rotea gli occhi e mette il broncio. –Tu le dai sempre ragione.

Sbuffo, mi alzo in piedi. –Non fare il bambino.

-Dove vai?- mi chiede Harry, e ancora una volta il mio cuore ha un tuffo. Vederlo mi fa male, parlargli mi fa male, la sua bellezza mi ferisce, la sua tristezza mi distrugge. Ma non vederlo, non parlargli, mi fa letteralmente morire. Sono imprigionata nella sua tela.

-Ho bisogno di una boccata d’aria. Tanto qui non se ne esce.

-No!- strilla Hermione, una punta d’isterismo le fa arrossare le guance. –No.- Ripete, più calma. –Nessuno lascerà questa maledetta riunione finché qualcuno non se ne esce con una teoria che abbia un senso.

Mi lascio cadere, abbattuta, sulla mia sedia. Sconfitta. Niente boccata d’aria, niente momento di solitudine in cui bramare di tornare in compagnia. Ormai sono entrata in un circolo vizioso. Quando sono sola vorrei che ci fosse qualcuno con me, quando sono con gli altri vorrei solo che sparissero. Un modo come un altro per non essere mai felice, e non scordare mai quanto tutto vada dannatamente male.

Sento Tonks supplicare che si apra almeno una finestra, mia madre dire che fa un salto a prendere qualcosa da mangiare perché il polpettone è da buttare, Moody che dice che tra poco arriverà non so chi dal Ministero per parlare con lui. Poi Hermione, severa e categorica, riporta l’attenzione di tutti al problema del giorno. Del mese, in effetti. Perlomeno quello delle riunioni dell’Ordine: Malfoy e Piton. Vengono suggerite le stesse idee, le stesse teorie, gli stessi maledetti dubbi. Finché qualcuno, oggi come tutti i giorni passati, sospira un “Se solo non ci fossimo fatti fregare così”, e allora qualcun altro dice, malinconico, “vorrei che Albus fosse qui”, e allora Harry sbraita “Ma non c’è! Quindi non frignamoci addosso!”, Hermione gli chiede “come stai?”, Ron l’aggredisce: “Come vuoi che stia, eh Hermione?”, allora Harry annuncia che ha “bisogno di pensare con un po’ di cazzo di silenzio, è possibile?”, esce e allora tutti ci troviamo qualcosa di urgente da svolgere per non sopportare il silenzio che seguirebbe lo sbattersi della porta dietro di lui. Sempre così, ogni giorno. Così, appena Harry sparisce su per le scale, 20 minuti dopo la mia tentata fuga, mi alzo anche io, senza cercare una scusa, e vado dritta in bagno. Chiudo la porta a chiave e accendo l’acqua nella doccia, ancora vestita. Mentre il vapore invade il piccolo spazio e mi annebbia la vista, l’udito, il pensiero, tutto si blocca. Aspetto, nuda e fragile, che l’acqua sia bollente e mi ci butto sotto. La sento che mi ustiona la pelle e mi ferisce il corpo. Voglio solo sentire male, più male possibile, più male che posso. Non mi interessa altro che sentire un male immenso e spropositato. Perché mi impedisce di pensare quanto male dovrei provare davvero. Funziona solo per una manciata di secondi. Poi prendo ad insaponarmi, pazientemente, la pelle lisa dal calore e dallo stress, le ossa sporgenti per i pasti saltati, i capelli leggeri sotto il peso dei troppi lavaggi, il viso indurito per lo sforzo di mantenere un espressione impassibile. Poi mi avvolgo in un asciugamano ed esco in corridoio. Rabbrividisco, e questo sbalzo di temperatura mi fa piacere. Salgo le scale lentamente, fino ad arrivare in camera mia. Apro la porta, assaporando l’idea di scivolare sotto le coperte senza vestirmi e addormentarmi così, bagnata, senza dover affrontare il supplizio della cena, di altri sguardi e domande, di sentirmi ancora piccola ed esclusa, di altre liti e discorsi infiniti senza né capo né coda.

Ma seduta sul letto, in una nuvola di capelli resi crespi dall’umidità e dalla poca cura, con in mano una crosta di pane, infervorata dalla conversazione, c’è Hermione, e al suo fianco, le maniche della camicia arrotolate e una bottiglietta d’acqua in mano, Ron sembra preso quanto lei. A terra, mordicchiando con aria annoiata un pezzo di pane, Harry li guarda senza dire la sua. La conversazione si blocca e tutti e tre mi guardano, imbarazzati.

Questo è il peggio, il peggio del peggio del peggio.

Le loro congetture super-segrete cui io non posso prendere parte. Cui nessuno può prendere parte. Sorrido, imbarazzata. –Che ci fate qui?- chiedo, tentando di essere cordiale ma consapevole dell’acidità che spruzzo da tutti i pori.

Mi trattengo dal dire che Harry aveva detto che voleva un po’ di silenzio per pensare. E che lui e Ron hanno una stanza tutta per loro dove nessuno li infastidirebbe.

E che vorrei un po’ di cazzo di privacy ogni tanto, visto che a quanto pare non sono abbastanza “dentro” per sapere tutto come loro.

Non dico nulla, sorrido soltanto, sparendo dietro l’anta dell’armadio alla ricerca di un pigiama che in realtà è sotto il cuscino del letto vicino cui è seduto Harry. Ma almeno non mi vedono arrossire.

Almeno una volta quando ero così sciocca ero anche innocente, piena di speranza e felice. Ora, invece, sono solo arrabbiata. Anche il mio imbarazzo è perché mi vergogno di essere arrabbiata. E la mia rabbia è perché sono arrabbiata con me stessa. Perché sono una scema. Perché le cose non sono andate come avrei voluto. Perché a nessuno interessa di me, e questa non può essere che colpa mia, se persino mio fratello, la mia migliore amica e il mio ex ragazzo fanno di tutto per non guardarmi in faccia.

-Cercavamo un angolo per stare un po’ soli.- Risponde Hermione. –Se andiamo in camera loro qualcuno entra sempre con una scusa.

Prendo i pantaloni della divisa da Quidditch e una canottiera bianca. –Ah, okay.

Harry mi tende il piatto con su il pane che stava mangiando. –Vuoi un po’ di cena? Non ci fidavamo di quello che avrebbe comprato tua madre, così ci siamo fatti qualche toast.

Scuoto il capo, sorridendo. –No, lascia stare, non ho fame. Tolgo il disturbo, vado a infilarmi qualcosa… sono un po’ nuda…- faccio, facendo un gesto eloquente con la testa all’asciugamano che mi tengo arrotolato sul seno. –Poi vado a prendermi qualcosa da bere…

-Tieni.- Fa Harry, tendendomi una bottiglietta di aranciata. –Non so cosa troverai giù.

Mi sorride, ma io trovo la sua falsa cordialità solo irritante. –Ho voglia di qualcosa di dolce. Tranquilli. E poi così vi lascio alla vostra intimità.- dico, alzando un sopracciglio in una smorfia arrogante e involontaria che li lascia impietriti. Scappo, chiudendomi la porta alle spalle.

Perfetto, sfrattata persino da camera mia. Mi arrampico fino all’ultimo piano, dove c’è la soffitta dove un tempo Sirius teneva Fierobecco e si rifugiava per stare solo. Da allora non ci va più nessuno. Becco è stato riportato ad Hogwarts e nessuno è più entrato nel santuario dell’intimità dell’ultimo Black. Nessuno pensa più a lui, ma a me a volte capita ancora. Entro, chiudo la porta e sospiro. Silenzio, vuoto. Perfetto. L’aria è calda, odorosa di solitudine e clausura, in un angolo sosta ancora qualche ossicino di un dimenticato pasto animale. Spalanco le finestre, facendo entrare zaffate di aria bollente, mentre la notte si è già accomodata su una Londra assopita. Mi infilo i vestiti e mi siedo a terra, stremata. Mi coglie l’improvvisa certezza, amara e tranquilla, che addormentandomi lì non corro il rischio di far preoccupare nessuno per la mia scomparsa. Nessuno si accorgerebbe nemmeno della mia assenza. Mi pettino i capelli con le dita, cercando di dar loro una forma. Non che importi a qualcuno, nemmeno a me. Ma non avevo considerato che, una volta sola, non mi sarebbe rimasto altro modo di passare il tempo che pensando. Mi accoccolo a terra e accarezzo l’idea di addormentarmi davvero. Ma poi so che sognerei, e allora mi sveglierei di soprassalto, sudata, impietrita dalla paura. Odio gli incubi. Per quanto tempo staranno in camera mia? Mi stendo a braccia e gambe aperte, tentando di cogliere un alito di vento. Il cielo è plumbeo, violaceo. Tra pochi minuti pioverà. Dovrò chiudere le finestre o si bagnerà tutto. Remus che fa la guardia non ho capito dove si bagnerà tutto. Chissà di cosa stanno parlando, ancora. Non si spengono mai. Non smettono mai di parlarne. Ne parlano sempre, quando sono soli, quando nessuno li ascolta, oppure in modo che nessuno possa capirli. So che sarei potuta restare, tanto avrebbero ripreso l’argomento da dove l’avevano lasciato, parlando in codice, così io comunque non avrei potuto interferire. Sarei rimasta immobile a sentirli progettare, escogitare, supporre, fissando i loro occhi appassionati e desiderando immensamente di appartenere al loro mondo. Perché non mi danno quella piccola, minuscola, chiave?

E poi sento una fitta allo stomaco, devo accartocciarmi su me stessa per placare il dolore, come se sentendo il contatto con il mio stesso corpo potessi colmare il vuoto che mi attanaglia il cuore.

Rivivo ancora una volta le parole di Harry, il giorno del funerale. Il perché la nostra storia doveva finire. Il fatto che lui non avrebbe voluto, ma lo faceva per mettermi al sicuro. Non voleva che io finissi nei guai, come già era successo una volta. Non voleva assistere al mio funerale. Certo, una fine gloriosa e romantica, degna della grande storia d’amore che avevo sempre sognato. E allora perché, perché, Ron ed Hermione non erano stati chiusi fuori? Questa domanda ossessiona le mie giornate e tormenta le mie notti. Cos’ho io in meno di loro? Sono forte, sono coraggiosa, sono brillante. E non ho alcuna paura di Voldemort, o di morire. Alcuna. Quando ripenso al mio primo anno, quando mi ha posseduta, io sorrido. Lo rivedo che mi corre incontro insanguinato nella Camera dei Segreti, gli occhi verdi resi innaturalmente grandi dalla paura e dalle lenti, e una tenerezza calda mi avvolge tutta. Io sono una guerriera nata, eppure mentre tutti si preparano a combattere a spada tratta io sono l’unica costretta a rifugiarsi in soffitta come una carcerata nella sua prigione di sicurezza e d’amore. Amore, poi, che ridicola parola. Se Harry mi avesse amata anche solo per uno dei secondi in cui io ho amato lui, non mi farebbe questo male. Ma lo fa.

Spesso penso di non amare Harry, ma di amare la leggenda che lo rende così affascinante, di amare i tormenti che segnano la sua vita, di amare i rischi che correrei se fosse mio. Di amare l’eroe che ho idealizzato da bambina piuttosto che il ragazzo che conosco ora che sono una donna. Ma non è così. Ogni volta che lui mi rivolge il suo sorriso spezzato, spezzato dalla pena e dalla solitudine, so che quello che vorrei non è per niente l’eroe. È proprio lui.

E vorrei che lui mi amasse, mi amasse davvero, mi amasse ancora.

Vorrei guardarlo dritto negli occhi e supplicarlo senza una lacrima di amarmi.

Inizia a diluviare, grosse gocce simili a biglie si infrangono sui vetri e sul pavimento, su di me, e io non mi sposto, mi lascio bagnare. Aspetto, immobile, infreddolita. Arrabbiata con me stessa.

Non so quanto tempo passi. Forse mi addormento. La luna è nascosta da strati di nuvole nere e crudeli, come se non potesse mai tornare a brillare.

-Starai morendo di freddo.

Apro gli occhi all’improvviso, ma senza guardare il suo viso percepisco la sua presenza. E non per il tono basso e roco della sua voce, non per il suo profumo acre e tenue nell’aria. Il mio cuore ha un tuffo, mi metto seduta per guardarlo, mentre accosta la finestra per non far entrare l’acqua, ma non la chiude del tutto. Mi passa l’asciugamano, che è rimasto asciutto, e me lo mette sulle spalle. Mentre mi copro mi accorgo che dalla canottiera bagnata affiora il contorno deciso del mio seno, ma non arrossisco all’idea che lui veda. Mi si siede accanto e sta in silenzio.

-Hermione ti aspetta.

Mi stringo nelle spalle. –Penso di non essere il suo primo pensiero.

Mi passa una bottiglia di latte. –Ti ho portato la cosa più dolce da bere che ho trovato.

Lo dice senza malizia, senza troppa dolcezza, solo con tanta gentilezza. Non posso che sorridergli, ammaliata. –Grazie.- sussurro. Me l’appoggio sulle labbra e bevo, ingorda, dalla bottiglia.

-Mi sento tua madre a dirtelo, ma non puoi continuare a saltare i pasti.

Faccio una mezza risata. –Non ho bisogno di essere consolata da te.- Sussurro.

Lui mi guarda con i grandi occhi verdi sgranati. –Non sono qui per consolarti.

Annuisco. –Okay.

Bevo lunghe sorsate e poi gli porgo la bottiglia. Anche lui beve, lo sguardo impassibile perso nell’oscurità che regna fuori dalla nostra solitaria soffitta.

-Come stai?- chiedo, piano, con riacquistata calma.

-è un po’… complicato.

-Lo so.- sussurro. –Prima Sirius, poi Silente…

-E poi tu.

Non riesco a reggere la forza di quell’accusa immeritata. La ignoro.

-Essere qui, senza sapere bene cosa puoi fare, cosa devi fare…

Si volta verso di me, gli zigomi alti e le labbra serrate. –è molto complicato.- ripete, sospirando.

-Vorrei poterti aiutare. Ma tu non me lo permetti.- Dico, e la voce mi trema, per un secondo. Mi sento vacillare, per la prima volta. Mi rendo conto di non aver versato una lacrima, non una.

-Mi dispiace.- dice, rigido.

-Non ho pianto.- Dico io, senza ascoltarlo. Lui mi guarda, stupito.

-Cosa?

-Non ho pianto. Neppure una lacrima.

Ride. –Non eri molto legata a Silente.

-Ma ero molto legata a te.

-Io non sono morto.

-Forse un po’ sì.

Mi stringo forte nel mio asciugamano, desiderando ardentemente di nascondere la testa sotto la spugna bianca e piangere. Vorrei sentire le lacrime scivolare sulle mie guance e sentirmi viva. Sentire quel tuffo al cuore, il sale sulle labbra, ed essere certa di poter amare di nuovo.

-Tu non dovresti essere qui.- dice.

-In soffitta?

Ridacchia. –A Grimmuld Place. Dovresti essere alla Tana, al sicuro.

-Perché?- chiedo, piano. –Perché io? Perché non Ron, o Hermione? Perché loro possono partecipare e ne hanno il diritto, mentre io no? Pensi che io non potrei reggere, o aiutarvi, o difendermi da sola? Voldemort sa che non tieni a me quanto tieni a loro. Se volesse colpirti al cuore sarei l’ultima della sua lista.

Mi guarda come se mi vedesse per la prima volta, gli occhi verdi annaspano nella confusione. –Non penso che tu valga meno di loro.

-Io penso di sì: lo pensi. Sono l’unica che non vuoi che partecipi. Se non mi vuoi qui, andrò alla Tana. Tanto è come se non ci fossi comunque.

-Non essere sciocca. Tu vali un sacco, Ginny.

-Allora perché non posso combattere?

-Te l’ho spiegato.

-Ma è una spiegazione così stupida.

Sta in silenzio. Il silenzio è così lungo e opprimente da soffocarmi, e sento di nuovo quel disperato bisogno di piangere, di sentirmi viva. Mi sembra di rivivere la nostra ultima conversazione, al funerale.

-So che questa conversazione non ci porterà da nessuna parte.- sospiro.

-Voglio solo proteggerti. Loro non posso più proteggerli. Tu sì.

Rido appena, leggermente sollevata. Ma non riesco a parlare. Sento le lacrime premermi sulle palpebre, così devo abbassarle per nasconderle. E il silenzio si prolunga, ma non è imbarazzante.

Vorrei non finisse mai.

-Perché sei venuto qui?- chiedo poi, all’improvviso.

-Mi manchi.- Sussurra, lentamente. –Scappi, non riesco mai a trattenerti per un secondo. È come se… mi evitassi.

-Cosa dovrei fare? Mi hai lasciata. E quando ci sono non mi guardi, o parli in codice così che io non possa capire quello che dite. Allora mi rifugio in soffitta, dove sono al sicuro.

Mi osserva ancora, per la prima volta sul suo viso leggo una dolce e struggente innocenza.

-Sei sempre così sincera con me.

-Mentirti non servirebbe.

-Gli altri mi mentono di continuo. Lo fanno per non ferirmi.

-Anche tu menti di continuo. Non vuoi mostrare quanto ti feriscano.

Sta in silenzio, senza distogliere gli occhi dal mio viso. Poi sussurra, tremante. –La gente ha paura per me. Di me. Tutti. Ma tu no.

-Io…

-Quella notte, quella in cui è morto Silente. Tu mi hai preso per mano e mi hai portato via, al sicuro da tutti che mi guardavano come se fossi un animale allo zoo. Tutti mi hanno sempre guardato così, come se fossi un animale dentro una gabbia, sempre. Anche tu, per un po’, l’hai fatto. Ma quella notte no. Mi hai preso per mano e mi hai nascosto da quegli spettatori che non volevano altro che guardare e giudicare e sapere. Hai avuto il coraggio di portarmi via, un coraggio che nemmeno Ron ed Hermione hanno avuto. Perché anche loro hanno paura di me, di ferirmi. Tutti hanno paura di ferirmi, come se fossi fatto di vetro. O che qualcuno mi ferisca. Per questo mi mentono e mi lasciano sotto i riflettori.

-Cosa vuoi dirmi con tutto questo?

-Grazie, credo. Voglio che tu continui a essere sincera con me. A farmi male, se riesci. Non importa. Io lo preferisco.

Gli sorrido. –Qualche volta vorrei farti del male, lo sai?

Ride. –Qualche volta anche io.

Restiamo in silenzio, distogliamo lo sguardo. Rabbrividisco.

-Hai freddo?- chiede.

-Un po’. Ma non voglio tornare giu.

-Okay.

Un secondo di vibrante silenzio.

-Tu non sei sempre sincero con me, però.

-No?

-No. Ti ho chiesto come stai. Hai risposto che è complicato. Io non credo sia complicato.

-No, infatti. Non lo è. La cosa complicata è dire a qualcuno che stai male. E io non posso mai dirlo a nessuno, perché mi guarderebbero con una compassione che non sopporterei. Ma in realtà con te è diverso. Tu mi capisci.

-Sì, è vero. So che stai male. E vorrei poterti stare vicino, lo sai.

-Lo so.- Alza gli occhi su di me. –Ma tu mi stai vicino.

Ci avviciniamo impercettibilmente, e io gli prendo la mano. È fredda, bagnata, e trema. La stringo con calma e con dolcezza.

Lui guarda le nostre dita intrecciate, il mio corpo imprigionato nell’asciugamano, il mio viso, e in quello sguardo cristallino qualcosa si scioglie dentro di me. E inizio a piangere. Un pianto silenzioso ma implacabile come la pioggia che cade al di la del vetro. Solo che non c’è nessun vetro tra noi. Lui avvicina le sue labbra alla mia guancia e la bacia, bevendo le mie lacrime. Allora io singhiozzo. Mi fa scivolare da dosso l’asciugamano, con calma, e io continuo a piangere. Mi prende tra le braccia, come se fossi una bambina. Mi stringe.

-Anche io vorrei poterti stare vicino. La verità, è che starti vicino è difficile. Starti vicino senza poterti avere.

Piango, senza ritegno, senza dignità, lacrime per lui e per il nostro amore spezzato, tra le sue braccia.

Poi vedo le sue labbra avvicinarsi inesorabilmente alle mie, le sue labbra bellissime di cui già percepisco il sapore. E allora mi risveglio. No. Non posso cedere. Non posso cascarci di nuovo. Mi scosto da lui con veemenza.

-Non farlo.- Lo supplico. –Non posso… non…

-Ginny.

-No, Harry, non… Io…- singhiozzo. –Ho paura… Io…

-Ginny.

Mi prende il viso tra le mani. Mi stringe dolcemente tra le sue braccia ancora, mi culla, come se fossi solo una bambina.

-E se… poi…- piango ancora.

Lui aspetta. La pioggia fa da sottofondo e il silenzio mi rilassa. Chiudo gli occhi, abbandonata.

-Non mi ricordo mia madre. Non la ricordo. So che aveva i capelli rossi, come i tuoi, e i miei occhi. So che odiava mio padre perché era uno sbruffone, ma che poi l’ha sposato. Piaceva molto, come te. Soprattutto a mio padre. So che poi si è arruolata nell’Ordine, e che ha avuto me. Era il 31 ottobre, un anno dopo la mia nascita, quando è stata uccisa. Vorrei possedere quell’anno di ricordi, ma non ce l’ho. Poi sono stato affidato a mia zia Petunia, ma lei mi odiava perché odiava i miei genitori. Avevo così disprezzo per lei, che di rimando disprezzavo tutte le donne. E disprezzavo così tanto mio cugino e mio zio che disprezzavo con loro tutti gli uomini. Odiavo la gente, e poi sono arrivati Ron ed Hermione e mi hanno insegnato che non tutti fanno schifo. E anche se mi fanno impazzire, in questi sette anni non mi hanno lasciato un attimo. Ogni volta che ho avuto bisogno, loro erano lì. Mi sono abituato alla loro presenza, ed egoisticamente non posso farne a meno. Non riesco a farmi del male fino a quel punto, e non riesco a farne a loro. Ma, sai, quando un dissennatore mi passa vicino, prima di poter evocare un patronus, sento un urlo di donna che chiama il mio nome sul punto di morte. È mia madre. E così, nella mia testa, mi sono visto questa scena, in cui Voldemort sale le scale di casa mia, e ci sei tu, e mi punta l’arma contro ma tu ti metti in mezzo e uccide te, proprio come ha ucciso mia madre. Ho sentito il suo urlo straziante che diventava il tuo urlo straziante. Ho visto i capelli di mia madre, rossi e belli, volare a mezz’aria e poi crollarle sul viso mentre il suo corpo si accascia a terra, morto. E ho immaginato che fossero i tuoi capelli, il tuo corpo. E il mio cuore ha preferito rinunciare a te che dover sopportare di vederti morire sulla moquette della mia camera da letto. Da tutto quello che so di mia madre, mi ricorda te terribilmente. Quando la immagino, immagino te. Ma non volevo che le somiglianze giungessero fino a questo punto.

Silenzio. Apro gli occhi e vedo le sue labbra brillare, bagnate, nell’ombra. Anche lui sta piangendo.

-Ma vorrei comunque starti vicino.- sussurra; reprime un singhiozzo.

Allora allungo le labbra e bacio le sue, nonostante faccia male. Sento un tuffo al cuore e in tutto il mio corpo il sangue corre, bollente, pulsa, implacabile. Mi mette una mano sulla nuca, reggendomi il capo, e mi bacia lentamente e con dolcezza. La mia fronte urta sulla sua, i suoi occhiali tintinnano sfiorandomi, come in un bellissimo ricordo. Mi attacco a lui, mi metto in ginocchio, e lui appoggia le dita alla mia pancia. La sfiora, piano, mi sfila la maglietta. Non ho il reggiseno, i miei seni tondi nella semioscurità della soffitta sono pallidi e rabbrividiscono, di freddo e di piacere. Li guardiamo entrambi, resi eccitati e complici da un improvviso presentimento. Quello che sta per succedere. Lo bacio di nuovo, gli tolgo la camicia, osservo il suo petto caldo e per un attimo mi ci rifugio, in cerca di affetto e calore, gioco tra i suoi muscoli appena abbozzati. Quando riemergo il mio viso è asciutto. Mi tocca i capelli bagnati, una ventata d’aria fa aprire la finestra, una raffica d’acqua ci bagna, ci fa ridere. Timidi, ci stringiamo l’un l’altra, come se la vicinanza rendesse meno nudi i nostri corpi scoperti. Non ho più i pantaloni, non ho più le mutande. Sono stesa a terra e fisso senza potermelo evitare il segreto nascosto sotto i boxer neri di Harry Potter. Ci accarezziamo, preda di un improvviso bisogno di sentirci così vicini da non poterci separare mai, affamati del sapore dell’altro, famelici di calore e di baci. Vogliamo coprire le distanze, colmare i vuoti tra noi. Mi solletica il collo con un bacio e poi mi sussurra all’orecchio: -Per me… è la prima volta.

-Sì.- Bisbiglio io, affannata. –Anche per me.

Mi accarezza i capelli dolcemente come se fossi la sua bambina, e poi mi guarda negli occhi con passione, come se fossi la sua amante. Cerca la mia mano, la stringe, come se fossi la sua amica, e assaggia i miei seni, come se fossero quelli di sua madre. Lo abbraccio. Mi sfiora la pancia e alza, ancora, i suoi occhi su di me. So che sta pensando che non ha preservativi. Ma il pensiero è il meno romantico del mondo, e non voglio affrontarlo. Sento dentro, bruciante, la paura che scompare. Non importa. Se restassi incinta, non lo rimpiangerei.

Sorrido. –Non ho paura.- bisbiglio. Lui sa che sono sincera.

Sorride, e riprende a baciarmi, nuda e pallida, con le labbra ancora vellutate dal sapore di latte.

Apro gli occhi con il capo posato trai suoi seni. Un sole pallido sorge su di noi. Ha i capelli rossi scompigliati intorno al viso, e tiene le sue dita sottili allacciate alle mie. Sulle sue labbra aleggia un sorriso sereno. Glielo bacio. Apre gli occhi.

Non c’è nulla che ci dobbiamo dire. Capisco all’improvviso che ho trovato quello che cercavo. Quello di cui avevo bisogno. Stare bene, anche solo per un secondo, un secondo durato tutta la notte. I suoi occhi sono colmi di una luce umida, calda, forte.

Mi abbraccia come ieri io ho abbracciato lei, accoglie il tremito delle mie labbra e il terrore del mio cuore. Tento di fuggirle, ma me lo impedisce. Mi bacia la testa e mi stringe. Mi bacia le labbra e mi sorride.

-Come stai, stamattina?- Chiede, come una vecchia moglie al suo marito malato.

Le sorrido, immaginando di essere davvero una vecchia coppia di coniugi sopravvissuti alle intemperie della vita, e non una giovane coppia di amanti, sopravvissuti alla loro prima notte d’amore. –Molto meglio.

Sorride. –So che non vedi l’ora di correre a raccontare tutto a Ron e Hermione.

Stropiccio il naso. –Non lo so.

Lei mi accarezza il naso, il viso, il collo, i capelli.

-Mi sento una sciocca.

-Perché?

-Ho paura che sparirai da quella porta lasciandomi qui, come una povera ragazza illusa di una canzone scontata.

Rido. –Lasciami, Ginny.

-Perché, stiamo insieme, adesso?- Ma il suo sorriso si illumina, rendendo tutto di lei più dorato, i suoi occhi, le sue lentiggini, i suoi capelli colorati dalla luce dell’alba.

Mi bacia.

-Io non ti lascerei mai.- sussurra al mio orecchio.

-Io ci ho provato. Ma non ci sono riuscito.

Sorride, con quell’aria infantile eppure greve, piena di coraggio. –Te l’ho già detto una volta Harry Potter, e te lo ripeto: io non ho mai rinunciato a te.

-Forse un giorno rinuncerai.- Sussurro, sperando che lei si arrabbi, urli, mi colpisca, magari, con i suoi piccoli pugni. Ma lei sorride, come si sorride ad un bambino.

E per tutta risposta, mi bacia. Non ci sono parole nel suo copione, come se parlare ancora le venisse troppo difficile. Non mi guarda negli occhi, così da non far traballare né il suo sguardo, né il mio. Mi sfiora, senza toccarmi davvero, e continua ad assaggiare le mie labbra, implacabile eppure lentamente, come se mi stesse assaporando per un’ultima volta.

E mi rendo conto che questo dipende solo da me.

Lei ha già fatto la sua scelta.

Accarezzo i suoi capelli, bacio le sue labbra.

E mi chiedo se sarò abbastanza forte e debole, da amarla ancora e ancora come lei vorrebbe.

  
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