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Autore: CaptainHook    30/07/2007    0 recensioni
Barabara, diciannove anni, un'artista, studia all'Accademia, condivide un appartamento con tre amiche di Liceo, e pensa al suo paesino abbandonato. E un giorno, per caso, si imbatte in Daniele. Daniele chè è stato anche il suo primo Amore. Daniele che lei ritiene di odiare. Daniele che creerà ancora più scompiglio. Un tentativo di commedia, con la bella Firenze come sfondo.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giornata D’Ottobre

 

Corro.

Io che mi ero solennemente giurata che non mi sarei mai uniformata alla massa, io che in primo liceo volevo cambiare il mondo, io che avevo deciso di combattere con una scatola di pastelli. Mi ritrovo a correre sotto la pioggerellina scoscesa di Ottobre, di primo mattino.

Firenze è cupa, oggi.

Non è come il mio piccolo paesino disperso tra le colline umbre. Abitavo sopra un fornaio, mi bastava aprire la finestra per vedere il mondo sotto. La mattina, l’odore del pane mi investiva non appena spalancavo le persiane, lasciando che la luce invadesse la mia stanza. Il signor Gigi stava sulla porta, ancora mezzo assonnato, con le braccia conserte. Ogni mattino dava il buongiorno a Sara, la fioraia.. E lei, cordialmente, sorrideva. Si lasciavano andare in pettegolezzi e parole qualsiasi. Era un rito mattutino a cui non rinunciavano mai. Quando scendevo al portone, poi, mi salutavano con un sorriso. Gigi aveva pronta la mia colazione, che consisteva in panino all’olio col prosciutto. Me lo faceva tutte le mattine, a me, e diceva sempre che è da quando ero un soldo di cacio, e mia madre mi accompagnava a scuola, che preparava le mie colazioni. Non mi avrebbe mai lasciato avvelenare con le schifezze delle macchinette a scuola. Ho frequentato per cinque anni, che li per li mi sono sembrati lunghissimi, ma poi sono volati in un soffio, l’Istituto D’Arte. Mia madre, ogni volta che tornavo a casa, diceva che avevo addosso uno strano profumo. Era il profumo dei colori, delle tempere e dei pastelli, che mi restava impigliato nei vestiti e nei capelli. Mio padre non faceva neppure in tempo a sentirlo, quel profumo. Tornava a casa alla sera, e, davanti a una tavola imbandita alla maniera più semplice, dopo le prime paranoie di mia sorella, mi chiedeva sempre com’era andata a scuola. Anche adesso, quando torno a casa per le vacanze, mi chiede sempre com’è che va all’università. E, come allora, dopo il mio “Bene!” poco convinto o detto con tenacia, rimane zitto, a spiar un film tra pentole e bottiglie, o a dormire sul divano, stancato dal lavoro. Ho imparato da lui, a lavorare. È stato lui per primo a insegnarmi che devo lottare per ottenere quel che voglio. E di questo, ancora lo ringrazio. I miei amici sono l’unica cosa che mi ha seguito qui a Firenze. All’Accademia delle Belle Arti siamo in nove, della nostra scuola. C’è Giada, che è la mia migliore amica. Lei è la tosta, la maschiaccia, la punkettona. Ha una sensibilità e una dolcezza unica, ma neppure se ne rende conto. È una tosta, sa farsi rispettare. Diciamo che è un po’ lei che a casa detta gli ordini. Poi c’è Michela. Michela è stata bocciata in primo superiore, ma poi è tornata in terzo dopo aver recuperato un anno in una scuola privata. Lei è la bella. Ha un sorriso solare e allegro, arrossisce per niente, ha gli occhi grandi come quelli di un cerbiatto, e i capelli lisci e neri che scivolano attorno al viso. È cosi alta e magra da sembrare una modella. Emanuela è invece la nostra “piccolina”. Una ragazza dalle proporzioni minute e i ricci indispettiti, ribelli. Anche lei è ribelle, sotto sotto. E non solo per il fatto che scrive sui muri. Queste sono le mie conviventi. Abbiamo affittato un appartamento. tutte e quattro assieme. Gli altri cinque invece sono ragazzi, e vivono per il conto loro. Ma chi vuole vederli! Meglio lasciarli stare. Saranno eclissati nel loro appartamento, persi nel fumo delle canne.

Affondo il piede in una pozzanghera.

Mi verrebbe da urlare in un attacco di pura isteria, ma mi limito a tirare su l’anfibio, sporco di fango. Che, ovviamente, è andato anche a chiazzare le mie calze colorate. Mi riavvolgo la sciarpa attorno al collo, sistemo la borsa, liscio la gonna. Ho i capelli cortissimi, con un mezzo milione di mollette colorate in mezzo. La frangia mi scivola davanti agli occhi, e non ci vedo nulla.

Forse è per questo, non lo so.

O forse è solo che sono troppo sbadata.

O, se vogliamo metterla sotto un altro punto di vista, troppo distratta.

Fatto sta che sbatto contro qualcuno, mentre mia avvicino alla fermata dell’Autobus.

Mi porto le mani sulla fronte, ho dato una botta bella forte.

“Ma porc … !” trattengo una parolaccia. Per poi guardare chi è il deficiente che, come me, non guarda attorno. I miei occhi ci mettono un po’ a trovare il viso. È un ragazzo parecchio alto. Ma quando lo trovano, succede Qualcosa.

Stupore.

Sconforto.

Enorme disagio.

Paura.

E una serie di emozioni che pensavo d’aver dimenticato che riaffiorano sotto la pelle. Anche lui è evidentemente sorpreso. Mi guarda stupito, con gli occhi sgranati. Poi sorride.

“Bambi?”

Non chiamarmi così, cazzo! Mi ci chiamavi solo tu.

Bambi.

E pesco un ricordo.

 

“Barbaraaa!!! Vai a riprendere la pallina?”

Primo superiore. Quella mattina, Barbara e Giada avevano due ore di buco. La prof aveva deciso di portare tutta la classe fuori, visto che recentemente si erano comportate bene. Le due avevano optato per una partita a tennis, mentre Michela e Emanuela si erano unite a una partita di pallavolo. Giada, in un impeto di furia, aveva mandato la pallina fuori. Così da spedire Barbara a riprenderla. E , scavalcato il cancelletto senza farsi vedere dalla prof, camminava in mezzo alla strada, svogliata.

“Ma tu guarda cosa mi tocca fare…” aveva biascicato tra se e se. Ai tavolini del Bar “Ezio” c’era un gruppo di ragazzi. Erano più grandi di Lei, si vedeva lontano un miglio. Alcuni poi li aveva rivisti, in giro per il Paese, durante i vari sabato pomeriggio. Lui, poi, lo aveva rivisto un milione di volte. Teoricamente non sapeva nulla di Lui. Praticamente lo conosceva a memoria. Si chiamava Daniele, aveva diciotto anni, frequentava il terzo liceo classico. Era molto alto e magro, coi capelli castano chiaro e gli occhi nocciola. Aveva un anellino sul labbro inferiore, e spesso teneva una sigaretta tra le labbra. Si vestiva sempre con colori scuri e jeans col cavallo basso, cinture borchiate e catenelle. Eppure, non era il classico montato che giocava a fare il duro. Anzi…aveva un che di efebico. Capitava qualche volta di vederlo sorridere in maniera del tutto serafica, o anche di vederlo arrossire. Era sempre gentile e disponibile, e anche meravigliosamente imbranato.

Ma in quel momento, a Barbara sembrava terribile, per un solo, semplice fatto: Daniele aveva in mano la sua pallina da tennis. E ci giocherellava, ridendo.

Questo si che era un guaio!

Barbara non era mai stata troppo coraggiosa.

Si avvicinò a loro, tossicchiando. Ridestando, d’improvviso, la loro attenzione. Si ritrovo otto paia di occhi puntati addosso, e arrossì vistosamente.

“Scusate” disse poi con vocina sottile “Potreste ridarmi la pallina da tennis, per favore?” Daniele sorrise, gentile. “Ah, l’hai mandata fuori tu? Complimenti, era un bolide!” Al tavolo ci furono un mucchio di risatine. Barbara arrossì. “No..è stata una mia amica. Io dovevo solo venire a riprenderla.” Spiegò, borbottando. Daniele sorrise, gentile.

“Ehi, non preoccuparti! Ora va che sennò ti danno per dispersa.” E la congedò. Per Barabara fu una grazia. Si girò e cominciò a camminare con passo sostenuto.

“Ehi!” si voltò. L’avevano chiamata. Ed era stato proprio Daniele.

“Si?”

“Come ti chiami?”

“Barbara!”

Daniele strizzò gli occhi.

“Bambi ?!” domandò stupefatto. Tutti scoppiarono a ridere, Barbara compresa.

“ Bar - ba - ra!” scandì lei. Lui arrossì, grattando la testa con una mano.

“Scusami. A presto, Bambi!”

E Barbara si voltò, sorridendo tra se e se.

 

 

“Bambi, sei proprio tu! Che ci fai qui?!”

Grazie a te, probabilmente, arriverò in ritardo all’Accademia, con le calze sporche e i capelli dritti.

“Frequento l’Accademia di Belle Arti.” Risposta breve e precisa. Mi congratulo con me stessa.

“Ah, allora alla fine hai deciso di fare l’Accademia, non il DAMS.”

Ma saranno cazzi miei?

“Evidentemente si.”

Non è cambiato per niente. Ha sempre quell’espressione docile sul viso, quel dannato sorriso dolce. Sempre alto e magro, sempre nascosto sotto la frangetta. Quante volte l’ho scansata per baciargli la fronte. Mi viene la rabbia solo a pensarci. Ma per ora, faccio finta di niente.

“Io invece sono al quarto anno di Architettura.”

Lo ammazzerei. Qui. Ora. Subito. Sorrido, ma mi viene male. Più che altro, mi sembra una smorfia.

“Ah, allora alla fine hai fatto come diceva tuo padre…” Ride. Che ti ridi, bastardo?

“E già. Ho proprio seguito le sue orme!” Ma che bravo. Vedo il 123 arrivare alle sue spalle.

“Mi dispiace, io devo andare, sennò arrivo tardi. Quello è il mio Bus.” Faccio per passare oltre. Lui si gira assieme a me.

“Ah, va bene! Allora ci si vede… così casomai ci prendiamo un caffè insieme!”

“Contaci!”

Scordatelo. Salgo sull’Autobus, infilando le cuffiette del mio Mp3. Vederlo mi ha messo nervosismo. Dany & Bambi Forever. Il Paese è ancora pieno delle nostre scritte, sulle panchine e sui muri. Forever un cazzo. Siamo durati a lungo, è vero. Poi lui mi ha lasciato. Lui e il suo dannato egoismo. Mi ha lasciato per inseguire i suoi sogni. E da li, è stato tutto un susseguirsi di nomi e facce. Elisa canta Poesia nelle mie orecchie. E penso che si, in questo mondo, c’è proprio bisogno di poesie.

 

 

  
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