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Autore: Blackfield    30/07/2007    1 recensioni
Erika è una giovane ragazza innamorata di David. Entrambi vivono assieme la loro storia d'amore da ormai 10 mesi, quando ad un tratto David annuncia una sua improvvisa partenza senza ritorno. Il che dovrebbe dire mettere una parola "fine" alla loro storia, ma Erika non riesce a darsi pace. Perciò...
Il resto dovrete leggerlo da voi. Spero sia di gradimento. ;)
Genere: Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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C

i sono certe volte in cui ti ritrovi a correre e correre per strada senza sapere minimamente dove vuoi andare, ma la sola cosa che t’importa è fuggire. Perché ora hai bisogno solo di questo. Ma nel tuo subconscio sai dove vuoi andare davvero. Devi cercarlo, devi parlare con lui come se fosse l’unico essere sulla faccia della terra a calmarti e farti sentire bene. Ma forse, era davvero l’unico ad avere su di te questo potere.

Svoltai l’angolo con questi pensieri in testa e cominciai a correre per la piazza senza rendermi conto di urtare le persone che incontravo. Sentivo solo il bruciore degli occhi dovute alle lacrime e la testa che non finiva di pulsare e farmi pensare a ciò che avevo appena saputo. Quella situazione cominciava a farmi male sul serio.

Non sapevo di preciso che giorno fosse e non riconoscevo nemmeno le strade che percorrevo nonostante le avessi fatte tante volte. Sapevo solo che in un batter d’occhio mi ritrovai dalla piazza sotto il portone di casa sua, e dopo vari secondi ferma a convincere me stessa a non scappare, bussai e per fortuna ad aprirmi fu proprio la persona che cercavo.

Appena vide la mia faccia preoccupata e bagnata di lacrime mi prese per mano e mi portò nella sua camera. Chiuse la porta e mi fece sedere sul letto, facendo altrettanto. Con una mano mi portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi chiese di spiegargli ogni singola cosa successa.

Cominciai a parlare. Ero un fiume in piena, avevo mille pensieri in testa e l’unico modo di riordinarli era parlare con lui. Avrebbe saputo aiutarmi, come aveva sempre fatto.

Gli spiegai tutta la situazione con gli occhi traboccanti di lacrime, ma ciononostante la mia voce rimase ferma, e la cosa mi meravigliò non poco. Ma non ci feci caso, non m’importava.

Quando raccontai tutta la storia da cima a fondo passarono alcuni minuti di silenzio, al che lo guardai preoccupata. Lui non riuscì a sostenere il mio sguardo. Concentrò la sua attenzione su un pupazzo che gli regalai io il giorno del suo compleanno. Scosse la testa in segno di diniego e mi parlò.

- E’ vero. - disse con voce priva di espressione, alzando infine lo sguardo su di me, che lo ricambiai stupefatta.

Non potevo crederci, non riuscivo a crederci. Non poteva essere vero, lo sapevo io, lo sapeva lui.

-  Per favore… - cominciò. Gli passai un dito sulle labbra per zittirlo.

- Non parlare. Ho capito. Ho capito tutto. - gli dissi con un mezzo sorriso triste e le lacrime che ormai bagnavano il mio viso.

Mi alzai ed andai verso la porta. Era fatta.

Sapevo che un giorno sarebbe arrivato quel momento, ma non volevo pensarci prima d’ora. Ma ora eccolo lì, pronto, trovarmi a dire addio alla persona che avevo amato più di ogni altra cosa, a quella persona che mi aveva cambiato la vita radicalmente.

Dovevo scappare, ancora.

Abbassai la testa e fissai le mie scarpe, esitante.

- Addio… - gli dissi, scappando dalla sua camera, scappando da quella casa, prima che lui potesse fermarmi o dirmi qualcosa. Scappando da lui.

Ritornai in piazza. Ero in bilico, incapace di concepire a pieno tutto ciò che era successo nelle ultime ventiquattro ore. Avrei desiderato tanto non uscire di casa stamattina, non incontrare Manuela e non sapere nulla di nulla.

Ma in fin dei conti se non avessi saputo nulla avrei vissuto solo un’illusione, ma sarei stata felice.

Ora che rimane? Solo la verità che pian piano mi entrava sempre più dentro e mi uccideva.

Mi sedetti sugli scaloni del grande palazzo che si affacciava su quella piazza.

Cominciò a piovere, ma non ne curai. Presi il mio iPod e cominciai ad ascoltare quelle note tanto belle quanto tristi…ed ecco che le lacrime ricominciavano a scendere.

E rimasi lì, con la sua voce, con la pioggia.

Con quelle due parole che mi aveva pronunciato lui e mi avevano ucciso dentro e ritornavano in testa nitide come non mai.

E’ vero, è vero, è vero…

Ma ormai, non m’importava più di nulla.

 

****

 

Driiiiiin, driiiiiiiiiin…
La luce del sole filtrava timida attraverso piccoli spazi delle persiane. Alzai la testa dal letto e cominciai a mettere a fuoco la stanza, prima di realizzare che stavo stringendo il cuscino in un abbraccio e che era in parte bagnato. Lo lanciai fuori dal letto senza pensare e buttai un pugno alla sveglia per farla smettere di suonare. Quel “drin drin” mi rendeva nervosa.

Mi alzai, aprii la finestra per far luce e cominciai a pensare che quella sarebbe stata davvero una bella giornata soleggiata. Andai verso lo specchio appeso alla parete e fissai il mio riflesso allo specchio pochi secondi per accorgermi di avere le guance rigate dalle lacrime e che  i miei occhi grigi erano arrossati.

Com’è possibile?

Mi asciugai con le maniche della mia maglia dopo di che misi una fascia tra i capelli. E allora mi venne a mente quel sogno.

Pian piano tutti i tasselli che lo componevano diventarono nitidi e chiari nella mia mente e io cominciavo ad avere paura. Paura di cosa, in fin dei conti? No, non sarebbe mai successo.

Non sarebbe mai potuta accadere una cosa simile e non accadrà mai.

Cominciai a prepararmi per andare a scuola e mentre cercavo di convincermi che era solo un sogno. Andai nuovamente allo specchio e ricambiai il mio stesso sguardo che rifletteva, pronta per andare a scuola. I miei lunghi capelli neri erano legati in una coda. Sorrisi timidamente a quell’immagine, presi lo zaino e mi catapultai al piano inferiore.

In cucina c’erano mio padre e mio fratello che parlavano animatamente e facevano colazione.

- Già, lo penso pur io. - diceva mio padre, preoccupato. Appena entrai io però, la sua faccia preoccupata diventò serena.

- Buon giorno - mi disse con un sorriso mentre mio fratello, che masticava le sue uova, gracchiava quel che doveva essere un “ciao”.

Li salutai entrambi, presi due fette tostate dal piatto ed andai via dicendo che ero in ritardo. Per fortuna l’avevano bevuta.
Uscii di casa con le fette tostate in bocca, lo zaino sulle spalle e mi diressi verso la mia amata bicicletta. Andai verso casa di Manuela, come ogni mattina. Quella mattina era ad aspettarmi davanti il piccolo cancello di casa sua e guardando la sua faccia capii che c’era qualcosa che non andava.
Non poteva essere il sogno. Speravo proprio di no. Scesi dalla bicicletta ed arrivai da lei camminando.
- Ciao Manu! -
- Ciao Eri… - La sua voce era triste. L’avevo sentita poche volte così, e cominciai a preoccuparmi sul serio.

- Qualcosa non va? -
- Ehm… - si guardò intorno come se si aspettasse sbucare qualcuno dietro qualche albero. Dopo che si convinse che non ci fossero orecchi indiscreti, continuò.

- Sì ti devo parlare. Ma non ora, più tardi. Andiamo a scuola prima che si faccia tardi. -
Fitta allo stomaco. Quel sogno non poteva diventare realtà, non sarei sopravvissuta. Sbiancai e per un attimo mi sentii mancare. Ma l’attimo successivo scossi la testa e seguii la mia migliore amica che nel fra tempo si era già incamminata.

Che cosa dovrà mai dirmi?

Perché era così preoccupata?

Più pensavo e più mi convincevo di quanto fosse bizzarra quella situazione.

Arrivai a scuola mi preparai moralmente a passare le successive 6 ore seduta dietro i banchi, ma il pensiero di quello che Manu aveva da dirmi continuava a tormentarmi.
Era solo un sogno.
Fu l’ultima volta che ci pensai prima di entrare in classe. O almeno, era ciò che era nelle mie intenzioni.

 

****

 

Al suono delle campane che annunciavano l’inizio della mensa, centinaia di ragazzi si riversarono nei corridoi con facce sollevate. Tra cui io, ma non molto sollevata.

Il pensiero del sogno ancora mi tormentava. E ancora di più a farmi stare in pensiero, c’era lo strano comportamento di Manuela che ancora non mi aveva detto nulla di tutto ciò che aveva da dirmi.

Per tutta la durata delle 6 ore appena passate tra me e lei c’era stato solo tacito silenzio, dopo che i miei tentavi di farle dire qualcosa erano andati invano. Lanciarle bigliettini, bisbigliare non era servito a nulla, fino a quando non le lanciai un’ultima occhiataccia e continuai a seguire le lezioni. In parte, perché ancora i miei pensieri erano rivolti altrove.

Entrai nell’aula mensa con il sacco del pranzo in mano, cercando Manu con lo sguardo. Alla fine non la trovai e decisi di andarmi a sedere da sola.

Avevo appena aperto il sacco quando alle mie spalle arrivarono lei e David. Li guardai entrambi con un misto di curiosità ed incredulità: appena potevano non facevano altro che lanciarsi epiteti di ogni tipo l’uno contro l’altra, e vederli insieme venire verso di me era un qualcosa di insolito.

Il che non fece altro che alimentare le mie preoccupazioni. Cercai di rimanere impassibile. Non appena si avvicinarono mi alzai e David si avvicinò e mi baciò. Dopo di che ci sedemmo tutti e tre, io accanto a lui e Manu seduta di fronte a noi intenta ad aprire il proprio sacco. Spostavo lo sguardo prima su uno e poi sull’altra, decisa a non aprire bocca prima che uno dei due l’avesse fatto prima. Per fortuna, quell’angoscioso silenzio durò poco.

- Ti devo parlare, Eri. – cominciò Manu, con voce bassa e rocca, lanciando occhiatacce a lui di tanto di tanto in tanto.

Avrei voluto urlarle contro. Era una mattinata che avevo cercato di farla parlare, mi sembrava ovvio che io avrei voluto sapere tutto il prima possibile. Ed era inutile il fatto che continuava a ripetermi “Ti devo parlare” senza poi aggiungere altro.

Ma non le dissi nulla, speranzosa che fosse finalmente la volta buona ad andare oltre quelle parole.

Stai calma, Erika, calmati…respira profondamente e calmati…

- Ok, ditemi tutto. Sono qui, sto aspettando. - stizzita. Più di quanto volessi sembrarlo in realtà.

- Io…- esordì David. Mi voltai di scatto verso lui.

Che c’entrasse qualcosa con quello che doveva dirmi Manu?

Speravo di no.

- ...stanotte parto. - concluse.

Lo guardai, stupefatta.

- Perché? –

- Mio nonno sta morendo e mia madre vuole andare a vivere nella vecchia casa in Irlanda per stargli più vicino. – spiegò melanconico.

- Bè, tu tornerai...no? - chiesi, cauta. In fin dei conti continuavo a non capire. Se sarebbe partito, avrei trovato la soluzione e non dovevano…

- No. – la sua voce era sempre più triste interruppe il filo dei miei pensieri.

- Qual è il problema? – chiesi, stupefatta. La risposta mi sembrava troppo ovvia e non riuscivo a capire il perché delle loro facce tristi. - Vengo con te! -

- No, non puoi. - rispose, in un soffio.

- Sì, che posso. - dissi, cocciuta.

Scosse la testa. Guardai Manu, disperata. Mi guardava con faccia compassionevole, quasi si aspettasse quella risposta da me. Tornai a guardare Dav, che guardava la sala con aria assente.

In quel momento li odiavo più di ogni altra cosa. Non capivano, non volevano capire. E quel silenzio che era calato nella conversazione cominciava a diventare troppo pensate.

Non riuscivo a sopportarlo.

Mi alzai di scatto, presi lo zaino i miei libri lasciando sul tavolo il mio pranzo. Lasciando loro due lì.

Ero arrabbiata, avrei voluto urlargli contro. Ma in una stanza piena di ragazzi e ragazze (ed oche, pensai amaramente) che già non vedevano di buon occhio la relazione che c’era tra me e David, litigare lì sarebbe stato peggio che andare dritta alla forca. Non mi andava di alimentare le loro voci, non mi andava proprio. Ora più che mai.

Andai verso l’aula di chimica dove si sarebbe tenuta la prossima lezione. L’aula era vuota, ero in anticipo. Posai i libri sul mio banco e mi avvicinai alla finestra. C’erano ragazzi che ridevano, giocavano, parlavano. Erano felici, insomma.

Avrei voluto esserlo anche io, avrei voluto avere anche io in quel momento la stessa spensieratezza. Avrei voluto che le due persone più importanti della mia vita capissero il mio punto di vista, ma discutere con loro sarebbe stato inutile.

Ma ancora, nulla è perduto.

Suonò per l’ennesima campana che significava l’inizio delle lezioni pomeridiane. Pian piano tutti i ragazzi tornarono nelle rispettive aule e la mia cominciò a riempirsi. Entrò Manu, e la guardai. Lei evitò con cura il mio sguardo ed andò a sedersi due file dopo di me, davanti. Quando tutti furono ai loro posti, entrò il professore che non perse tempo in ciance e cominciò a spiegare.

Ma la mia testa era altrove e non riuscivo a concentrarmi a sufficienza.

Dovevo trovare una soluzione, e subito.

Prima di stanotte.

 

« Once more I'll say goodbye to you

things happen but we don't really know why

if it's supposed to be like this

why do most of us ignore the chance to miss? »

All these things I hate (revolve around me) – Bullet for my Valentine

  
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