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Autore: JeckyCobain    11/01/2013    3 recensioni
Tollensford è un idilliaca cittadina, circondata da verdeggianti colline e campi di frumento dorato.
Tutto sembra tranquillo, e la sua quiete è immacolata da secoli.
Eppure qualcosa distruggerà questa calma, qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato, qualcosa che sconvolgerà la vita di ogni singolo abitante di Tollensford.
E tutto questo è legato alla vita di una ragazzina di nome Abbey Deep.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La strada che portava in via Crearo 12, era disseminata di buche. Buche, sassi, e molta sabbia: ecco come si presentava il viottolo sterrato che portava alla casa numero 12.

Abbey la percorreva quasi ogni giorno con la sua bicicletta gialla sgangherata, e, ormai da tempo, sapeva esattamente quali manovre effettuare per evitare le buche più grosse.

Quelle che d'estate erano vuote e secche e ti facevano ruzzolare per almeno 200 metri se non stavi bene attento, e d'inverno invece erano così ghiacciate che era difficile non scivolarci sopra. E Abbey, di voli e ruzzoloni lungo quella via, ne aveva fatti non pochi.

La sua bici ne aveva subito le terribili conseguenze ben più di una volta, e ora, oltre ad aver ormai perso il suo color giallo canarino, si ritrovava piena di ammaccature e con il cestino di vimini tutto sfilacciato.

Era la bici di sua mamma, e di sua madre prima di lei, ma mai nessuna era riuscita a ridurre a quel modo il povero mezzo. Il suo colore iniziale era rosa pastello, un colore molto tenue, che ad Abbey non piaceva affatto, per questo l'aveva ridipinta di un bel giallo acceso: sul tubo diagonale aveva applicato un bel nastro magenta (che col passare del tempo era diventato rosa), e ci aveva scritto affianco “Yellow Submarine”, come la famosa canzone dei Beatles.

Quella calda mattina di giugno stava (come sempre) andando a comprare il latte alla fattoria Douglas, quella che si trovava a circa 500 metri da casa sua. Di farla a piedi Abbey non ne aveva per niente voglia, così inforcò la sua bicicletta sbiadita e cominciò a pedalare lungo via Giacomo Leopardi.

Il paesino in cui viveva era uno di quelli idilliaci paesaggi che vengono spesso raffigurati sulle cartoline: casette in stile inglese immerse tra i campi pieni di fiori, una piazza, una chiesetta, il cielo azzurro, le montagne a fare da sfondo, e le persone eternamente felici.

Tollensford era così: un paesino piccolo e con pochi abitanti, l'unica differenza era che non c'era nessuna montagna, ma a fare da sfondo ci pensavano le belle colline verdeggianti.

Era costituita da una piazza centrale, con un albero secolare al centro di essa, divenuto ormai da anni simbolo della cittadina, che veniva attraversata da una lunga strada principale: via Giacomo Leopardi.

Da quest'ultima si diramavano poi tante piccole vie secondarie, alcune delle quali portavano fino ai campi circostanti.

A Tollensford si coltivava per lo più frumento e pannocchie, ma l'economia girava anche su altro, e traevano spesso beneficio dalla città adiacente, Perkins, che era una meta turistica molto quotata sopratutto tra i giovani adolescenti.

Tollensford era un città di circa 1.000 abitanti, e il ciò contribuiva a rendere il tutto ancora più bello, o almeno era così che diceva la gente del posto, per l'unico motivo che si conoscevano tutti gli uni con gli altri. Difatti c'erano persone che conoscevano quasi tutti, come, per esempio, Katy la zoppa, la donna che gestiva il bar in centro.

Era una donna di circa 50 anni, vedova e senza figli, che però sembrava essere più vecchia di almeno quindici anni.

Era una di quelle donne che cercano di sembrare giovani nonostante l'età, infatti indossava sempre vestiti attillati dai colori sfarzosi e si truccava come una sedicenne. Era soprannominata “la zoppa” perché quando camminava sui tacchi alti (che metteva tutti i santissimi giorni) sembrava più zoppicare che camminare.

Tutti in città la conoscevano, perché chi non aveva mai pranzato al suo bar almeno una volta nella vita?

Era un punto tattico per molti: i ragazzi delle medie ci passavano davanti la mattina per andare a scuola, e si fermavano a comprare la merenda e le caramelle. I signori che andavano al lavoro a Perkins si fermavano spesso a far colazione lì, dove potevano gustarsi una brioche calda e un cappuccino mentre leggevano le ultime notizie sui giornali freschi appena stampati. Lo stesso per i contadini e i fattori, di cui Tollensford vantava un alto numero: aprendo molto presto, il bar si dimostrava per loro un ottimo posto per consumare la colazione. I più giovani si ritrovavano a bere l'aperitivo intorno alle 18.00, e i vecchi nel pomeriggio giocavano a carte o guardavano la partita alla televisione.

Uno dei primi a presentarsi lì ogni giorno era il parroco, che si gustava la colazione guardando i programmi della mattina in televisione, prima della messa mattutina delle 7.00.

Il postino Jack però batteva tutti: era sempre il primo cliente della giornata.

Era solito portare (oltre alla posta), notizie fresche da tutta Tollensford e da ognuno dei suoi abitanti, e quindi Katy ne aveva da raccontare per tutto il giorno. Le signore adoravano andare lì per scambiare qualche chiacchiera con lei, che conosceva ogni cosa di ogni singolo abitante, e spesso aveva qualche gossip succulento da spifferare.

Ma la vita di Tollensford non ruotava solo intorno al bar di Katy: in fondo a via Leopardi, appena fuori dal centro abitato, c'era la fattoria dei Douglas, che ogni mattina forniva il latte appena munto delle loro mucche a chi lo desiderasse.

Abbey era una di quelle persone che si presentava alla loro porta ogni giorno.

Le mattinate a Tollensford comunque, erano sempre tranquille, e ogni dì, caldo o freddo che fosse, se ti trovavi lì tra le sei e le sette di mattina, eri sicuro di trovare le seguenti persone lungo via Giacomo Leopardi: la signora Dursey, una nonnetta di ottant'anni in piena forma, che ogni mattina faceva una corsa lungo tutto il marciapiede da una parte all'altra della città, e che, con la sua solita tuta verde acqua, era impossibile non riconoscerla.

Jack il postino, che si dirigeva al bar di Katy la zoppa, a consegnare la posta e i giornali.

Il parroco, che dalla canonica anche lui si trasferiva al bar, prima di andare in chiesa.

E infine il signor Kenneth, che con la sua costosissima macchina lucida e rombante si dirigeva a Perkins per lavoro.

Ma alla fine di via Leopardi c'era una piccola via, chiamata via Crearo, che si concludeva con i campi della fattoria dei Douglas, la cui casa era al numero 12 di Tollensford. Lì, intorno alle 6.30, potevi invece vedere Abbey Deep, la ragazzina, che sfrecciava sul suo “Yellow Submarine” a prendere il latte.

Nella stessa piccola via, circa mezz'ora dopo, la signora McCity era seduta sulla sua solita sedia in legno azzurra, intagliata e dipinta a mano, proveniente direttamente dall'Austria (parole sue, che ripeteva sempre), a fare una sciarpa o un maglione per suo marito o i suoi nipotini monelli. Solo d'inverno però, nei mesi più freddi, se ne stava dentro, perché diceva che con il gelo l'artrite peggiorava, e che quindi preferiva stare al caldo.

Nella zona delle scuole, dalla parte opposta di via Crearo, c'era invece il signore delle 7.45, chiamato così per via dell'orario in cui lo potevi notare passeggiare per la lunga via principale.

Puntuale come un orologio Svizzero, ogni mattina lo trovavi con il suo giornale sotto braccio e il suo borsalino in testa, che si levava per salutare i ragazzi che passavano per andare a scuola:

Buongiorno signore belle!”, “È il sole che mi acceca o siete voi, con la vostra smagliante bellezza?”, “Ragazzi, avete visto che belle signore avete dietro di voi?”, “Guarda qui, che sfilata di moda!”, “E questi uomini grandi e forti? Mi raccomando, fate i bravi a scuola”.

Ecco, questi erano solo alcuni dei saluti che il signore delle 7.45 porgeva agli studenti e alle studentesse della scuola media di Santa Monica. Tra i ragazzi c'era chi lo salutava con rispetto, chi invece fingeva di non vederlo, e chi, isolato e totalmente assorto dalla propria musica, non riusciva nemmeno a sentire ciò che egli diceva.

La scuola di Santa Monica era l'unica scuola di tutta Tollensford, e comprendeva asilo, elementari, e medie, mentre le scuole superiori erano quasi tutte a Perkins.

La scuola media era un luogo triste, un vecchio edificio grande e grigio, al contrario dell'asilo e delle elementari in cui i bambini portavano allegria e colore.

Superato il lungo cancello che dava sul cortile (o almeno era così che i professori definivano l'asfalto su cui erano poste un paio di panchine arrugginite e un vecchio canestro da basket), si poteva accedere alla scuola tramite la scalinata che portava alle porte di vetro.

L'atrio era grande, freddo e spoglio, tranne per lo sportello della portineria, la macchinetta del caffè, e un enorme tavolo al fianco del quale c'era una grande vetrina contenente molteplici premi, tutti lucidi e scintillanti.

Erano i premi che i ragazzi vincevano con le gare sportive, oppure con i giochi matematici, le fiere della scienza, i concorsi di disegno o di letteratura: gli insegnanti, e in particolar modo la preside, erano molto fieri di quei trofei, per quello erano sempre ben in vista e perfettamente ordinati.

Una volta entrati, sulla destra, c'era una porta, che dava sul corridoio della segreteria, e dove ci stavano la sala professori e l'ufficio della preside.

Poco più avanti c'era il corridoio che collegava con le scuole elementari, quello che portava in palestra e quello delle aule del piano terra, e infine c'erano le scale che portavano al primo piano.

Queste ultime si diramavano in due direzioni: in basso, verso la mensa e successivamente sul giardino nel retro, e in alto, verso il primo e poi secondo e terzo piano.

Al primo piano le aule erano uguali a quelle del piano terra, ovvero quelle per le regolari lezioni di teoria.

Al secondo piano invece c'erano i laboratori: l'aula conferenze, il gabinetto scientifico, l'aula multimediale, quella di musica, di arte, e la biblioteca.

Il terzo piano invece era una minuscola serra, in cui venivano coltivate poche piante da un gruppo limitato di alunni che si occupava anche dell'orto nel giardino sul retro.

Al piano della mensa invece, in una stanza a parte, c'era il forno per l'argilla, di cui non molte scuole si potevano vantare.

Abbey frequentava la prima media, e, come molti ragazzini della sua età, odiava andarci, sopratutto per i compagni, con cui non aveva proprio buoni rapporti.

Aveva 11 anni, i capelli biondo cenere corti, dal taglio mascolino, con un lungo ciuffo che le copriva uno dei due bellissimi occhi: grandi e azzurro-grigi, come il mare che durante una tempesta si fonde con il cielo. Aveva un carattere molto strano: c'erano momenti in cui manifestava una tremenda felicità, e altri in cui era triste e si chiudeva in se stessa. Di amici non ne aveva, e spesso faceva fatica a relazionarsi con gli altri, ma forse era per via della sua vita particolarmente schifa.

Viveva con gli zii: Scarlett e Ross Finnegan, perché i suoi genitori erano morti. O almeno così si pensa. Aveva sentito un uomo, tanto tempo prima al bar di Katy, dire che i Deep erano scomparsi misteriosamente, e di loro si era persa ogni traccia a parte la loro unica figlia. Ma probabilmente era ubriaco, pensò Abbey quella volta, perché gli zii le avevano detto chiaramente che erano morti in un incidente aereo.

Loro la trattavano male, quasi come se non avessero alcuna parentela.

Non la picchiavano o maltrattavano, questo è certo, ma la costringevano a sgobbare tutto il giorno: andare a prendere il latte la mattina presto, prima di andare a scuola, preparare poi la colazione, e durante il pomeriggio le aspettavano parecchi lavori domestici, come spazzare il pavimento o lavare i piatti (altro non le facevano fare perché avevano paura che combinasse disastri).

Un'altra cosa che facevano, e che a lei dava molto fastidio, era il fatto che la obbligassero a tenere i capelli tagliati molto corti.

Il motivo principale era Jessica, sua cugina.

Jessica Finnegan, di due anni più grande di lei, era brutta, tanto brutta e grassa.

Le sue gambe e le sue braccia erano grosse, e le guance erano paffute come le ciambelle che tanto amava mangiare, e perennemente rosse. I capelli, lunghi e neri, spesso erano raccolti in due trecce, e la frangetta contribuiva a dare al suo viso una forma ancora più rotondeggiante di quello che già era.

Era talmente brutta che, per non farla sfigurare ulteriormente, tagliavano i capelli ad Abbey e la vestivano da maschio, in modo che lo sembrasse in tutto e per tutto.

Lei era carina, e parecchio anche: il suo corpicino magro e non ancora sviluppato, la faceva sembrare una bambina piccola, il volto era tondo ma non troppo, il naso piccolo e a patatina, e quei capelli corti, da maschiaccio, le davano un'aria sbarazzina e ribelle. La povera ragazzina però non aveva mai posseduto un vestito come quelli che indossava la grassa cugina, tutti fiori e merletti. Non che a lei importasse particolarmente, ma le sarebbe piaciuto provarne uno, almeno una volta.

Era sempre tranquilla, non parlava mai, non un sospiro, a meno che non venisse interpellata. Era una regola più che chiara in casa: “Guai se parli, a meno che non te lo chiediamo noi!” diceva sempre zio Ross.

E lei obbediva, faceva qualsiasi cosa le venisse impartita dagli zii, perché se non lo faceva si beccava di quelle sgridate talmente forti che i vicini potevano anche andare a lamentarsi per il volume eccessivo della voce.

Al contrario di Abbey, Jessica, tutto ciò che sapeva fare era frignare notte e giorno: perché voleva questo o quel vestito, perché voleva il cellulare uguale a quello che mostravano alla pubblicità, perché sua madre non le comprava i trucchi perché diceva che era ancora troppo piccola.

E ovviamente, forse non serve nemmeno dirlo, ogni suo desiderio era un ordine, che veniva esaudito dai genitori.

Tante volte Abbey si chiedeva se la padrona non fosse sua cugina, anziché gli zii.

E poi un'altra cosa in cui era brava era picchiare i ragazzini di prima e seconda media.

Oh sì, quello sapeva farlo benissimo.

Ora che era in terza media si divertiva a infastidire i piccoletti come sua cugina (che però quando era a scuola faceva finta di non conoscere nemmeno).

Tirava i capelli alle bambine, fregava loro la merenda, e tutte cose di questo tipo.

Le più piccole avevano paura, e non lo andavano a dire né ai genitori, né tanto meno agli insegnanti.

Oh, quanto si divertiva Jessica a infastidire i primini, come li chiamava lei, insieme alle sue amiche Berry e Jules.

Loro erano delle ragazze strane, alte e magre, dai lunghi capelli corvini e il trucco pesante, e di cui tutta la scuola aveva timore: indossavano sempre vestiti strani, come gonne in pizzo o pantaloni attillati, rigorosamente di colore nero. Attaccati alla cintura di borchie spesso avevano delle lunghe catene grige, che si accostavano perfettamente a tutto il resto dei loro accessori: bracciali di borchie, anelli, collane con teschi e croci, orecchini... avevano talmente tanta roba di metallo addosso che sembravano brillare quando colpite dal sole. Le loro magliette invece avevano sempre qualcosa di spettrale stampato sopra: teschi, mostri, licantropi, creature del male, e tante altre cose che, sopratutto ai bambini delle elementari, facevano parecchia paura. Una di loro aveva persino un piercing, sul naso, e il che incuteva terrore, sopratutto addosso a una ragazzina di tredici anni.

Berry e Jules erano così: due creature del male, come le definiva l'intera scuola.

Erano gemelle, e l'unica cosa che le distingueva era il piercing di Jules.

Jessica non aveva niente in comune con loro, se non il voler rubare la merenda e pestare i primini.

Già, perché lei tentava di essere carina come le sue amiche, ma il problema era che non ci riusciva per nulla.

Anche se dall'aspetto tenebroso, le due gemelle erano piuttosto carine, Jessica invece non lo era affatto.

I primi segni dell'acne si notavano sul suo viso rotondo, in particolar modo sulla fronte, che però copriva con la frangia. Poi si metteva sempre dei vestitini rosa o viola, gonne ampie e piene di pizzi e merletti: una cosa oscena indosso a lei. Per di più, oltre ad essere enorme, era pure bassa, e le ballerine che tanto amava la facevano sembrare peggio di ciò che già era.

Insomma, Jessica nonostante fosse estremamente brutta, aveva come amiche due belle (e paurose) gemelle, con cui si divertiva parecchio.

Per Abbey la scuola era un inferno: era continuamente presa in giro dalle compagne, anche se non sempre le cose gliele dicevano di persona, ma lei sapeva bene quali erano i motivi.

Principalmente per il suo abbigliamento, scialbo, da maschio, e con i vestiti spesso più grandi della sua taglia. Non era affatto alla moda, e per questo veniva spesso rifiutata dalle altre ragazzine. Poi lei era silenziosa, non parlava con nessuno, forse per timidezza, forse per chissà quali altri motivi. Figurarsi poi con i maschi, loro erano una razza a parte.

L'unica amica che aveva si chiamava Annie, ed era la figlia dei Douglas.

L'aveva conosciuta quando era piccola, alle prime volte in cui gli zii la mandavano a prendere il latte alla fattoria.

Lei si svegliava sempre per prima, assieme a suo padre, e accorreva alla stalla per mungere le mucche, di cui si divertiva molto a spremere le mammelle per trarne il bianco e dolce nettare con cui faceva colazione.

Una mattina Abbey era arrivata lì, e, non sapendo a chi domandare per il latte, era andata nella stalla a cercare qualcuno che l'avrebbe forse aiutata.

Lì incontrò Annie, i capelli ricci raccolti in un'enorme chignon e la camicia da boscaiolo rossa, che come sempre stava mungendo Molly, la più giovane delle mucche, e sorpresa si avvicinò a parlare con la nuova cliente.

Buongiorno” aveva detto con un sorriso mentre con la manica della camicia si era asciugata delle gocce di sudore dalla fronte. “Io sono Annie Douglas, hai bisogno di qualcosa?”.

E fu così che, senza alcun preavviso, era cominciata una lunga amicizia, che si era protratta poi negli anni a venire.

Frequentavano la stessa scuola, ma in classi differenti, quindi si potevano vedere solamente a ricreazione, e, ovviamente, la mattina prima di cominciare.

Annie era una ragazza tremendamente carina, il che metteva in imbarazzo Abbey, che a confronto si sentiva uno schifo.

L'amica aveva lunghi capelli rossi, come il fuoco, e i suoi occhi erano del colore della cioccolata.

Abbey era sempre stata una ragazza priva di qualsiasi interesse, ma Annie le fece scoprire mondi incredibili e sensazionali, e tutto semplicemente passando diversi pomeriggi in camera sua con una pila di libri colorati.

Ogni tanto gli zii di Abbey la lasciavano uscire di casa, e quando lei lo faceva il posto che preferiva era la casa della sua migliore amica.

Non parlava con nessuno al di fuori di lei, perché nessuno era capace di capirla a quel modo.

E tra i loro tanti passatempi, quello che preferivano era leggere.

Annie aveva una libreria enorme, dalla quale ogni tanto sceglievano un libro, che si divertivano a leggere ad alta volte imitando e creando le voci di ogni personaggio.

La piccola Abbey si divertiva enormemente a passare i pomeriggi in questo modo con la sua cara amica.

Era una di quelle amicizie durature, che si ricordano negli anni, quelle che in genere esistono solo nelle storie. Eppure la loro era un'amicizia leale e sincera, proprio come quelle nei libri.

Come Frodo e Sam, del Signore degli Anelli.

Abbey adorava quel libro, e una volta aveva detto a Annie: “Noi saremo amiche per sempre vero? Proprio come Frodo e Sam?”

Certo!” le aveva risposto lei. “Anche se la loro amicizia viene distrutta, alla fine, perché Frodo se ne va via.”

No, non è vero!” aveva replicato Abbey “Frodo rimarrà per sempre il migliore amico di Sam, anche se poi parte per non fare più ritorno. Loro si vorranno bene in eterno, e la loro impresa verrà narrata e tramandata di generazione in generazione tra gli Hobbit della Contea, e fra tutti i popoli della Terra di Mezzo!”

Sì, hai ragione tu!” aveva detto con un sospiro l'amica. “Noi saremo come Frodo e Sam, qualsiasi cosa accada! Anche se un giorno ti trasferirai in un paese lontano e io dovessi rimanere qui a mungere le mucche ogni santa mattina!”. Disse infine mettendosi a ridere.

Si scambiarono un gesto simbolico: incrociarono i loro diti mignoli e dissero una semplice, ma incisiva parola: “Promesso”.

E alla fine le cose andarono davvero così: per molti anni Abbey e Annie sarebbero rimaste amiche.

Fino ad una mattina.

La mattina in cui ha inizio la nostra storia, e che cambiò la vita di ogni cittadino della piccola Tollensford.

 

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Messaggio dall'autrice:

Salve a tutti amici, vecchi e nuovi! Questo è un racconto originale, da cui spero (prima o poi) di tirarne fuori un libro decente.

Molte delle cose descritte qui fanno parte della mia vita (o ne hanno fatto parte in passato), ed è da molte delle mie esperienze che ho tratto spunto per questo racconto (sono poche comunque eh, non pensate che la mia vita sia uguale a quella di Abbey ahahah!).

Il nome Abbey lo avevo usato per un personaggio di un vecchio libro che avevo cominciato a scrivere quest'estate, che però non ho mai terminato perché non mi convinceva affatto.

Mi dispiaceva lasciare nel dimenticatoio quel nome, così come il personaggio a cui era legato, quindi l'ho tirato fuori, anche se la Abbey dell'altra storia non ha niente a che vedere con questa piccola e insicura ragazzina.

Spero comunque che vi piaccia, e che possa risultare un minimo interessante!

Mi sono sforzata molto per trovare un'idea nuova da scrivere, anziché fare le solite fan fiction, e devo dire che è stato parecchio difficile perché l'ispirazione non arrivava.

Ma ad un tratto, come un fulmine a ciel sereno, mi ha colpita, e quindi eccomi qui a scrivere.

Penso che la maggior ispirazione me l'abbia data l'ultimo libro della maestra Rowling, “Il seggio vacante”, che ho cominciato a leggere giusto in questi giorni.

E letto così il primo capitolo può sembrare molto simile, ma vi assicuro che in realtà non ha nulla a che vedere con questo libro.

Poi, cosa che avevo fatto solo una volta (con il vecchio racconto della vecchia Abbey e un altro, quello sui Protettori), non ho scritto in prima persona. Ho una paura boia di scrivere in terza persona, spesso per via dei tempi verbali (ho sempre avuto 4 in grammatica, che vi aspettate? Ahahah!).

Comunque per ora l'ho messo sotto One-shot, non so se pubblicherò il resto, si vedrà ;)

Spero di non aver fatto troppi errori, e che la storia, come già detto vi piaccia.

Un bacione a tutti!

Alli

 

p.s: I personaggi e le situazioni sono tutte di fantasia e inventate dalla sottoscritta, pertanto non siete autorizzati in alcun modo a farne uso senza la mia autorizzazione.

   
 
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