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Autore: Inessa    12/01/2013    14 recensioni
Arthur non aveva mai viaggiato, ma aveva visto così tanti studenti stranieri nella sua vita da sentirsi del tutto in diritto di dire che lui non aveva bisogno di andare in giro per il mondo, perché era il mondo ad andare da lui.
Merlin Emrys non si era mai fermato nello stesso posto per più di sei mesi.
[1^ classificata al concorso "Merthur is the way" di Layla84]
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
- Questa storia fa parte della serie 'Appunti di viaggio' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Nota principale: Questa storia partecipa al concorso “Merthur is the way” di Layla84 sul forum di EFP. Il gioco stava nell’inserire da uno a cinque prompt presi da un pacchetto al buio ed io ho pescato: labbra, incantesimo, coperta, treno, scuola. Con un altro pacchetto al buio si sarebbe ottenuto un personaggio, ed io ho avuto Hunith (che infatti è un po’ calata dal cielo e si vede XD). Il limite del concorso era di 5000 parole, ma questa, col permesso di Layla, è più lunga. In ogni caso, se avessi dovuto scriverla indipendentemente (avevo in mente l’idea di fondo da un po’), sarebbe stata MOLTO più lunga, ma non ho le forze per riprenderla in mano e difficilmente in genere riesco a riprendere storie che in qualche modo sono complete, quindi eccola qua.

Nota secondaria: Suppongo che “ero troppo ubriaca quando ho finito questa storia a causa di un good byeparty in ostello” non conti, quindi no. Also, è una sorta di metafora del finale della serie.
 




The Song Of The Wandering Sorcerer And The Sleeping Prince
br>



 

Allora nei momenti di solitudine
quando il rimpianto diventa abitudine,
una maniera di viversi insieme,
si piangono le labbra assenti
di tutte le belle passanti
che non siamo riusciti a trattenere.

Le passanti – Antoine Paul






La Avalon School of English, diretta dalla famiglia Pendragon ormai da generazioni, era una delle più rinomate scuole d’inglese britannico per stranieri di Londra. L’edificio che la ospitava, un bel palazzo antico nel quartiere di Westminster, era suddiviso in quattro piani. Il primo piano era il paradiso dei Pendragon, il secondo era suddiviso in miniappartamenti in cui vivevano gli insegnanti, il terzo ospitava la mensa ed alcune aule ed infine al quarto piano si trovavano le rimanenti aule, laboratori ed una fornitissima mediateca.

Arthur Pendragon era nato a Londra ed aveva sempre vissuto al primo piano dell’edificio. Quando era più giovane, prima di finire gli studi universitari, aveva condiviso con suo padre e la sorellastra Morgana l’appartamento più grande. Quando, poi, aveva iniziato a lavorare a tempo pieno nella scuola come insegnante, raggiungendo l’indipendenza economica, aveva deciso di trasferirsi in uno degli appartamenti vuoti, in cui in genere venivano ospitati professori universitari che una volta erano stati grandi amici di suo padre, quando si trovavano a passare da Londra.

Tutta la vita di Arthur verteva intorno alla Avalon School of English e se qualcuno avesse chiesto al giovane docente dove vedeva se stesso nell’arco di dieci anni, lui, ritenendo la domanda scontata e al limite dell’assurdo, avrebbe risposto che si vedeva a vivere esattamente lì, al primo piano di un bel palazzo antico nel quartiere di Westminster, a dirigere la scuola che aveva diretto suo padre e il padre di suo padre prima di lui. E il padre del padre di suo padre e così via.

Arthur non aveva mai viaggiato, ma aveva visto così tanti studenti stranieri nella sua vita da sentirsi del tutto in diritto di dire che lui non aveva bisogno di andare in giro per il mondo, perché era il mondo ad andare da lui.



Anche Merlin Emrys era nato a Londra e viveva al secondo piano dell’edificio che ospitava la Avalon School of English da due settimane. Prima di allora aveva vissuto al quarantottesimo piano di un grattacielo in periferia di Tokyo per tre mesi. Prima di allora in un dormitorio (post-)sovietico a L’vov per sei. Prima ancora in un Bed&Breakfast di Roma per cinque mesi. E a Barcellona. E Istanbul. E New York. E Berlino. E Lappeenranta. Ma era cresciuto a Ealdor, un paese di duemila anime fuori Londra, finché non aveva deciso di voler vedere il mondo.

Non aveva mai progettato di insegnare la propria lingua madre, era semplicemente successo. Non aveva nemmeno studiato per farlo, semplicemente ci si era ritrovato. Dopotutto, l’unica cosa che aveva imparato nei pochi mesi che aveva frequentato il college, era parlare francese, anche se paradossalmente non aveva mai vissuto in Francia, e finlandese, più o meno. Era bastato mettere un po’ insieme i metodi che per lui erano stati più efficaci, aggiungerci qualcosa di suo, divertirsi, e sfidare il destino.

Merlin Emrys non si era mai fermato nello stesso posto per più di sei mesi, e non aveva mai progettato di fermarsi del tempo a Londra, ma un giorno Hunith, sua madre, gli aveva telefonato a Tokyo e gli aveva ordinato di tornare immediatamente in Inghilterra, se non voleva che gettasse nell’immondizia il suo letto, la sua collezione di francobolli dal mondo, i suoi libri e la sua posta di mesi. Merlin aveva sospirato, ma era pur vero che non vedeva sua madre da anni, nonostante promettesse periodicamente di andarla a trovare, ed era più che legittimo che la donna fosse passata alle minacce pur di rivederlo.



I mondi di Arthur Pendragon e Merlin Emrys si erano scontrati per la prima volta in un uggioso pomeriggio di Londra nella direzione della Avalon School of English. La scuola si era improvvisamente ritrovata senza un insegnante e con un corso in partenza la settimana successiva e Gaius, il vecchio professore di inglese settoriale (farmaceutico) aveva accennato al fatto che suo nipote fosse in cerca di lavoro e avesse molta esperienza.

Arthur aveva accettato di sottoporre Merlin – e, davvero, non c’era dell’ironia nei loro nomi? – ad un colloquio, nonostante emergesse chiaro e lampante dal suo curriculum che il ragazzo non avesse la formazione solitamente richiesta dalla scuola per gli insegnanti. Ma Merlin aveva davvero un sacco di esperienza e delle lettere di referenza assolutamente entusiaste. E loro avevano urgente necessità di trovare un altro insegnante.

E, Arthur assicurava, la sua assunzione non aveva assolutamente nulla a che fare con il fatto che le labbra di Merlin Emrys si incurvassero così quando sorrideva sornione nel pronunciare le sue piccole provocazioni dirette contro di lui.



Merlin, Arthur avrebbe scoperto presto, era difficile da ignorare, per quanto impegno qualcuno potesse metterci. Era goffo ed un po’ rumoroso, ma bastava la sua presenza per illuminare magicamente i corridoi della scuola anche nelle giornate più piovose. Gli studenti erano letteralmente incantati e, alla fine di ogni corso, lo riempivano di regali e lettere di ringraziamento. Più di una volta gli era capitato di vedere delle ragazze piangere nel dirgli addio, mentre Merlin prometteva loro che un giorno magari si sarebbero visti nelle loro città. E non lo diceva come spesso si improvvisano queste vaghe promesse, giusto per rendere la separazione meno dolorosa, ma lo ipotizzava come se un viaggio a Dubai o a Hong Kong o da qualche parte in Venezuela fosse sulla sua lista di cose da fare insieme alla spesa e alle lezioni del mattino.

Arthur non lo capiva e, pur con una certa riluttanza, ammetteva a se stesso, la cosa lo infastidiva.

* * *

La seconda volta i mondi di Arthur Pendragon e Merlin Emrys si scontrarono una sera fredda di gennaio, nell’appartamento del primo.

Arthur telefonò all’altro per dirgli che aveva pronti i documenti per lui e che, come stabilito, poteva andare a firmarli e prendere la sua copia nel giro di un quarto d’ora.

“In questo momento sono fuori, Arthur, non rientrerò prima di mezz’ora,” rispose Merlin suonando appena trafelato. Lui roteò gli occhi: la totale mancanza di rispetto di Merlin per gli orari stabiliti gli era ormai familiare. Un paio di volte in quelle poche settimane aveva dovuto riprenderlo perché, passando davanti alla sua aula ad orario di lezione già inoltrato, aveva visto gli studenti ancora seduti ad aspettarlo.

“Non di più, Merlin, ho del lavoro da fare,” concesse infine. Se Merlin non era in casa, era inutile impuntarsi.

“Altrimenti cosa farai, Arthur?” e, Dio, se Arthur non era riuscito ad immaginare la curva delle sue labbra piene mentre lo diceva, “Mi chiederai di venire da te in ginocchio?”

La combinazione dell’immagine delle labbra di Merlin e dell’immagine dello stesso Merlin in ginocchio lo turbarono decisamente più del dovuto e, nell’arco di pochi millisecondi, la sua mente era pericolosamente piena di fantasie assolutamente fuori luogo.

“Merlin, sono il tuo superiore, non puoi rivolgerti a me con quel tono!” urlò invece al telefono.

La risata impudente di Merlin raggiunse il suo orecchio, contagiosa come se l’avesse avuto davanti.

“A dopo, Arthur, mi farò perdonare.”

Quando, dopo ben un’ora, Merlin bussò alla sua porta, Arthur lo guardò scettico dalla testa ai piedi, con una certa aria di superiorità.

“Hai imparato a camminare sulle ginocchia?”

Merlin, per tutta risposta, gli porse uno dei due bicchieri di carta di Starbucks che teneva in mano, “No, ma ti ho portato un caffè per farmi perdonare,” disse senza scomporsi, “So che ne sei dipendente.”

Accettando di buon grado la bevanda ancora calda, Arthur lo fece accomodare sul suo divano e, dopo che Merlin ebbe firmato i documenti pronti per lui, rimasero a lungo a scoprirsi a vicenda. Merlin gli raccontò della sua vita da vagabondo, del suo aver vissuto in mille posti ed aver conosciuto tantissime persone con cui era rimasto in contatto. Gli mostrò il suo památník, il suo “libro dei ricordi”, un’usanza boema che aveva appreso da un amico italiano: un quaderno (più di uno, ormai) dai fogli bianchi che faceva firmare dalle persone che incontrava in giro per il mondo e che difficilmente avrebbe rivisto. Era un modo per fissare le esperienze, racchiuderle su carta, riviverle ogni tanto mentre lo risfogliava.

Merlin era un uragano. Parlava a raffica, gesticolava un sacco ed era molto espressivo e il suo volto avrebbe potuto illuminare la stanza mentre parlava dei suoi viaggi. Arthur, standolo a sentire, aveva la sensazione di essere sul punto di cadere vittima del suo incantesimo, come avevano fatto i suoi studenti, e non era molto sicuro di essersi poi opposto più di tanto affinché ciò non avvenisse. Se pensava che quando avevano avuto il colloquio lo aveva ritenuto instabile, incapace di mettere radici, di portare a termine lunghi progetti, inquieto…

“Spesso mi sento dire che sono instabile, per questo sento la necessità di muovermi,” disse Merlin dopo qualche secondo di silenzio, come se gli avesse letto nel pensiero, mentre sorseggiavano una birra.

“Lo avrei pensato anch’io,” ammise Arthur sinceramente, “Ma tutto sommato credo ci voglia una grande stabilità interiore per avere il coraggio di chiudere così in fretta dei capitoli felici della tua vita, dire addio, ricominciare a costruirsi da zero in una realtà nuova. Non è da tutti accettare così i cambiamenti.”

Dopo quelle parole scese di nuovo il silenzio. Merlin lo guardò a lungo, come se gli stesse leggendo dentro, ed Arthur ebbe l’impressione, eccitante e terrificante insieme, che, per la prima volta, qualcuno fosse davvero in grado di farlo.

A quella sera ne erano seguite altre. Arthur Pendragon e Merlin Emrys erano come due campi magnetici, così opposti da non poter fare a meno di attrarsi a vicenda. La tensione tra di loro ci aveva messo poco a farli esplodere, e, quasi senza sapere come, Merlin una mattina si era risvegliato in un letto non suo, sentendosi piacevolmente caldo e confortevole, con il peso del corpo nudo di Arthur spalmato addosso.

Anche a quella mattina erano seguite altre mattine: lenzuola piene di briciole, coperte rubate e sorrisi assonnati, spesso affondati nella confortevole piega del collo di Arthur.

Arthur, che aveva una passione per le labbra di Merlin che sfociava nella dipendenza, a giudicare dal suo continuo osservarle, rincorrerle, baciarle delicatamente o morderle fino a farle diventare ancora più rosse e piene, e che Merlin era sempre più che felice di soddisfare.

“Dio, la mia regola numero due è sempre stata non andare mai a letto con uno dei miei insegnanti,” aveva detto un giorno Arthur, mentre cadeva indietro sul materasso, il corpo ricoperto di sudore.

“E la numero uno?” aveva chiesto Merlin sorridendo, sollevandosi dalla posizione poco confortevole che aveva tenuto fino a quel momento tra le gambe dell’altro.

“Non andare mai a letto con uno dei miei studenti!”

Tutto stava andando all’apparenza perfettamente, finché la loro bolla, fatta di sesso, lunghe chiacchierate e attenzioni reciproche, non era scoppiata.

“Finalmente vado a Mosca,” aveva annunciato una sera Merlin, dal nulla, con un bicchiere di vino in mano, seduto sul suo letto e con le dita che distrattamente disegnavano cerchi sulla coscia di Arthur coperta dai jeans.

L’altro, sdraiato sulle coperte con le braccia intrecciate sotto la testa, si era girato in silenzio, l’espressione impassibile.

“Lësha, il ragazzo russo del mio corso avanzato, mi ha dato degli ottimi consigli ed ho trovato una scuola, mi ha anche aiutato a prenotare… vari mezzi di trasporto per arrivare a Mosca senza vendermi un rene.”

“Sono felice per te… suppongo,” aveva detto Arthur, spiazzato di fronte all’entusiasmo di Merlin. Cosa credeva? Che solo perché avevano preso a scopare Merlin non se ne sarebbe mai più andato? Tic tac. I sei mesi stavano per scadere. E Cenerentola sarebbe scappata via dal principe.

* * *

Il giorno prima della partenza di Merlin, Arthur si era ritrovato un quaderno dall’aspetto familiare in bilico sulla maniglia della porta del suo appartamento. Non c’era nessun biglietto, ma non aveva bisogno di particolari istruzioni per sapere che quello era il památník di Merlin e che lui era appena entrato nella lista di “persone che difficilmente rivedrai nella vita”. Si chiuse la porta alle spalle, accese la lampada accanto al divano, e vi si sedette sopra. Aprì il quaderno e, sulla prima pagina, in quella che riconosceva come la grafia di Merlin, lesse:
 

"Sono arrivato qui come uomo senza patria.
Sono privo di ogni onore concesso ad un individuo
per virtù di identità tribale, istruzione, traguardi, talento o destino. Sono l'Umanità.
Sto qui, baciato dai raggi della mia grandissima gloria umana: come Ogni Uomo...
arrivo, gloriosamente anonimo, senza emblema nazionale
o passaporto, senza certificato di nascita o diploma..."


J. Tuwim




Arthur aveva sospirato, stropicciandosi stancamente gli occhi con una mano.

* * *

“Sì, mamma, ti ho detto che è tutto sotto controllo, non è la prima volta che parto!” ripeté Merlin tenendo il telefono tra la spalla e l’orecchio, mentre tentava alla meglio di piegare delle magliette.

“Oh, credimi, questo lo so, tesoro!”

“Ti prego, mamma, non iniziare! Lo sai che poi mi sento in colpa!”

Sentì il suono della risata di sua madre giungergli un po’ sfalsata, “Lo sai che mi fa piacere che tu faccia qualcosa che ami, solo che mi ero abituata a vederti così spesso e…” poteva quasi vederla, mentre il suo sorriso si incurvava un po’ diventando triste,“Mi mancherai, tutto qui.”

“Lo so, mamma,” sospirò, sperando di non farsi sentire, “Anche tu,” disse stancamente riappianando un po’ i vestiti in valigia.

“Pensare che stavolta mi era quasi sembrato che stessi valutando di restare… Arthur come l’ha presa?”

Merlin fece una smorfia. Eccolo lì, l’elefante in mezzo alla linea telefonica.

“Bene, perché avrebbe dovuto prenderla diversamente?”

“Mmmhm, non so, avevo avuto l’impressione…”

“Era stata un’impressione sbagliata!” disse un po’ più scorbuticamente di quanto avrebbe voluto, “Scusa, è che… non è che solo perché stiamo bene insieme lui adesso mi chiederà di restare ed anche io avrò il mio posto tra le nebbie del cielo sull’Avalon School!”

“Ci hai pensato, vedo,” persino a distanza poteva sentire il tono saputo di sua madre.

“Pensato a cosa?” domandò con una punta di esasperazione.

“Al fatto che potrebbe chiederti di restare…”

“No, mamma, non ci ho affatto pensato, era per dire!”

“E cosa non hai pensato di rispondergli, tesoro, mentre non ci pensavi?”

“Mamma, devo chiudere, non ho ancora finito di fare le valigie!” buttò lì infine, sperando che quel supplizio finisse.

“Tesoro, ascoltami, adesso,”Merlin roteò gli occhi, “E non roteare gli occhi come se fossi una vecchia rimbambita,” si guardò intorno come se la donna potesse materializzarglisi improvvisamente davanti, “Arthur ti tiene in grande considerazione, e magari non ti chiederà mai di restare perché non vuole tarparti le ali, ma, al di là di questo, riconsiderare cosa può renderti felice non è un segno di debolezza, anzi.”

Merlin si sedette sul letto, passandosi una mano tra i capelli.

“Stai attento, domani, e mandami un sms quando arrivi.”

“Va bene, mamma, ciao, e… grazie,” concluse stancamente.

“Ti voglio bene, tesoro.”

“Anche io,” sussurrò prima di chiudere la telefonata. Lanciò il telefono sul letto e poi si lasciò cadere anche lui sulle lenzuola, mentre le parole di sua madre gli ronzavano insistentemente in testa.

* * *

“Quindi è la fine, eh?” domandò Arthur entrando senza bussare in camera sua, proprio mentre, accovacciato sul pavimento, finiva di chiudere la valigia, “A che ora hai il volo domani?”

Sospirò prima di rispondere, sollevando lo sguardo solo per un attimo, senza incontrare quello dell’altro, “Alle 9, da Stansted,” poi, tentando di metterci dentro un po’ d’ironia, aggiunse, “Il che vuol dire che praticamente tra un paio d’ore dovrò essere alla Victoria station per prendere il treno. Poi da Tallin prenderò un autobus per San Pietroburgo e da lì un treno per Mosca. Treni russi, non vedo l’ora!”

Arthur non rispose al sorriso e non roteò gli occhi al sentire i dettagli di quello che gli sembrava più un viaggio della speranza. Rimase a guardarlo come per imprimersi in mente la scena di lui che se ne andava. Merlin decise che non era quello che voleva dal loro potenziale ultimo incontro. Non voleva frasi smozzicate, insignificanti, convenzionali, imbarazzo.

“Non dirmi che sei venuto per dirmi addio,” disse alzandosi ed avvicinandosi all’altro. Se erano i loro ultimi momenti insieme, voleva che fossero intensi, non un inutile susseguirsi di minuti vuoti.

“No,” rispose Arthur portandogli con naturalezza una mano sul volto, sfiorandogli col pollice prima gli zigomi, poi le labbra. Sorrise, facendole muovere sotto il suo polpastrello in un bacio silenzioso. Arthur rispose al sorriso, consapevole del fatto che Merlin stesse stuzzicando la sua fissazione per la sua bocca.

“Volevo restituirti questo,” disse l’ormai ex datore di lavoro, porgendogli il suo quaderno, “Come previsto, non sono riuscito ad essere molto originale.”

Merlin lo afferrò e fece pressione sulla calamita per aprirlo, ma la mano di Arthur glielo impedì, “Promettimi che lo aprirai solo dopo essere salito sul tuo treno sovietico.”

Annuì, stringendosi al petto l’oggetto. Adesso avrebbe avuto un pezzo di Arthur da sfiorare nei momenti di nostalgia anche se, conoscendo il soggetto in questione, forse ci aveva scritto qualcosa sulla falsariga di “Hai imparato a camminare sulle ginocchia?”

Sentì Arthur schiarirsi la voce, “Hai bisogno di una mano o hai finito con le valigie?”

“Ssst,” sibilò Merlin, sentendo che quello non era che un tentativo di riempire il silenzio malinconico che si era venuto a creare, “Niente convenevoli, ti prego,” gli portò le mani sulle spalle, “Solo…”

Le mani di Arthur si avvolsero con naturalezza attorno alla sua vita, e Merlin dovette strizzare gli occhi per evitare che la sua mente si focalizzasse su cose come “Questa è casa.”

“Stringimi, ti prego,*” sussurrò infine con un filo di voce, circondando le spalle forti di Arthur con le braccia, affondando il viso tra la pelle calda della sua nuca, il naso tra i capelli biondi, senza aspettare che lui rispondesse.

Arthur obbedì, ed entrambi si strinsero forse più del necessario, come se respirare fosse ormai diventato superfluo. E, in ogni caso, chi ci sarebbe riuscito?

“Chiedimi di restare,” lo pregò in un bisbiglio, prima ancora di realizzare che tra il suo subconscio e la sua bocca c’era stata una qualche connessione che lui non aveva autorizzato. Doveva essere stato il calore di Arthur, la sensazione del suo petto contro il suo, il profumo della sua pelle, quella vocina insistente dentro la sua testa che gli ripeteva insistentemente “Mai più, mai più.”

L’altro lo allontanò da sé, portandogli le mani sulle braccia e stringendolo all’altezza dei bicipiti, ma non disse nulla.

Merlin annuì semplicemente. In quel momento si sentiva fragile come non era mai stato.

“Potresti venirmi a trovare,” disse poi ridendo per spezzare la tensione.

“Chissà,” Arthur si chinò lievemente, facendo incontrare le loro fronti, “Non eri tu Mr. Ehi-io-non-sono-mai-triste-prima-di-una-partenza? Scommetto che domani a quest’ora ti sarai dimenticato di tutto e sarai solo super eccitato per il tuo nuovo inizio.”

Merlin non rispose, sapendo che se avesse aperto la bocca avrebbe potuto dire qualcosa di impulsivo di cui un giorno si sarebbe pentito. Portò le labbra sulla mandibola leggermente ruvida di Arthur, lasciandogli una scia umida di baci fino all’angolo della bocca. Strofinò leggermente il viso contro il suo, desiderando ardentemente che quel lieve strato di barba gli bruciasse la pelle almeno fino al mattino dopo, che Arthur lo mordesse e lo segnasse per i giorni a venire, che gli rimanesse addosso il più a lungo possibile.

“Sono sicuro che potrei essere super eccitato anche adesso, se ci impegnassimo,” sussurrò contro il suo orecchio.

Arthur rabbrividì contro di lui, “Oh, e io credo di riuscire ad inventarmi qualcosa,” disse prima di baciarlo finalmente dritto sulle labbra.

* * *

La notte in autobus fu una delle più lunghe della sua vita. Merlin si lasciò andare contro lo schienale del sedile, mentre la voce dell’hostess finiva di annunciare che avevano finalmente raggiunto il confine e li invitava a prepararsi a mostrare agli ufficiali la pagina del passaporto contenente i loro dati e quella su cui era incollato il visto. Dopodiché, sarebbero dovuti scendere dall’autobus, portando con sé tutti i bagagli, inclusi quelli nel bagagliaio, ed effettuare ulteriori controlli a terra. La sua vicina di sedile, una donna russa piuttosto ingombrante - che non aveva fatto che russare per tutto il tragitto, sin da quando erano partiti da Tallinn e le luci in cabina si erano spente – si svegliò di soprassalto con un singulto ed iniziò a rovistare dentro la borsa in cerca del proprio passaporto.

L’hostess effettuò un primo controllo veloce dei documenti e, nel vedere il passaporto europeo di Merlin, gli consegnò una carta d’immigrazione, chiedendo in un inglese dal leggero accento slavo se sapesse come compilarla. Lui annuì in silenzio e fece scattare la penna.

Così quella era la frontiera terrestre. Aveva sempre viaggiato in aereo, per muoversi da uno stato all’altro, ed era sempre stato dell’idea che varcare il confine per via terrestre sarebbe stato più eccitante. Varcare il confine russo, poi, lo faceva un po’ sentire il protagonista di un vecchio romanzo, con quella lieve eccitazione da guerra fredda nelle vene. Il fatto che tutto intorno non fosse che neve, foreste, luci fredde e divise verde militare amplificava la sensazione.

L’ufficiale addetto al ritiro dei passaporti era una ragazzina dai capelli rosso fiammifero, le unghie perfettamente decorate e le fattezze infantili che l’immaginario comune attribuiva alle donne slave e che stridevano come delle unghie su un vetro con l’atteggiamento forzatamente militaresco ed i movimenti eccessivamente rigidi e veloci con cui la ragazza afferrava i passaporti, guardava le fotografie e poi le confrontava con la persona che aveva davanti.

Guardando fuori dal finestrino vide altri ufficiali che aprivano il cofano anteriore di un’automobile e con una lampada tascabile ne controllavano ogni cavità. Sospirò e poggiò la fronte sul vetro freddo del finestrino, ripensando alla prima volta che aveva messo piede in territorio straniero, all’eccitazione, alla voglia di conoscere, alla sensazione di avere il mondo tra le mani e di essere sul punto di fare l’esperienza della propria vita. L’ultima convinzione era stata talmente forte che, ai tempi, si era preso una sbandata colossale per il primo uomo dell’età giusta che gli si era presentato davanti, ovvero il proprietario del ‘divano’ che lo avrebbe ospitato in Danimarca, Lancelot, che poi si era rivelato molto etero ed anche molto fidanzato.

Sorrise al ricordo.

Chiedimi di restare.

Stavolta non lo aveva programmato. Non aveva programmato per niente di innamorarsi, di un asino borioso e viziato su tutti, eppure il solo pensiero di Arthur, del suo sorriso, della sua espressione mentre gli faceva capire con un solo sguardo che non gli avrebbe mai tarpato le ali, perché Arthur era esattamente così testardo e altruista, gli faceva sentire un macigno all’altezza del petto.

Arthur, su tutti, che non si era mai mosso da Londra e che aveva vissuto tutta la sua vita nello stesso edificio in cui lavorava.

Arthur, che senza mai avere messo piede fuori dal suolo inglese sapeva cucinare una paella perfetta e del sushi fantastico ma non era in grado di beccare la giusta dose per fare un tè bevibile.

Arthur, che quella mattina aveva finto di dormire mentre lui lasciava la sua stanza alla Avalon school, per risparmiare loro un addio doloroso, lasciandogli come ultimo ricordo di sé i suoi lineamenti rilassati, le linee della sua schiena nuda ed i capelli biondi che brillavano sotto un raro sole invernale.

Si passò le mani sulla faccia, frustrato. Quello che aveva sempre voluto dalla vita era vivere il mondo, varcare frontiere, sperimentare l’emozione e la tristezza di vedere notti bianche e giorni neri… eppure, mentre sollevava il viso per guardare negli occhi l’ufficiale di frontiera che metteva l’ennesimo timbro sul suo passaporto, pensò che per una volta avrebbe voluto essere lui quello che restava a guardare da terra gli altri che si allontanavano. Si domandò cosa vedessero nei suoi occhi mentre verificavano la sua identità per la terza volta nell’arco di venti minuti, perché lui, in quel momento, non si sentiva per niente la stessa persona che, a diciotto anni e un giorno, aveva guardato l’obiettivo del fotografo “senza sorridere, se la foto ti serve per il passaporto.”

* * *

A dispetto di quanto potesse pensare Arthur, il treno non era affatto sovietico. Aveva viaggiato su treni migliori, ma anche peggiori, e tutto sommato sembrava abbastanza pulito. Lësha aveva avuto ragione nel consigliargli i platzkart, che costavano meno delle cuccette “all’occidentale”, ma sicuramente erano più comodi dei posti a sedere, e lui era stanco morto.

Eppure Arthur aveva ragione, iniziava a sentire di nuovo l’eccitazione della scoperta. Il treno era strapieno dei soggetti più differenti, nessuno dei quali sembrava porsi particolari problemi nel dormire di fronte agli altri mentre sbavava sul cuscino o cambiarsi in abiti da notte. Qualsiasi che fosse la posizione, si aveva sempre qualcuno di fronte, dato che i platzkart erano disposti su due livelli, che richiamavano vagamente dei letti a castello, gli uni di fronte agli altri, con una fila perpendicolare sul fianco opposto del treno. Di fronte a lui una mamma dagli occhi tristi stava spogliando uno dei suoi due bambini; l’altro, già in pigiama, si rotolava nello spazio limitato del letto superiore. Si chiese come mai fossero da soli e come mai la donna fosse così malinconica. Se anche lei avesse dovuto lasciare indietro qualcuno.

A lui pure era toccato un letto sul livello superiore. Parte del bello di viaggiare in situazioni nuove era poter osservare gli altri, attaccare bottone con quelli che masticavano un po’ l’inglese (in quel momento, pochi, in realtà, o così gli era sembrato) e in ogni altra situazione avrebbe preferito trovarsi in basso, libero di vedere, piuttosto che raggomitolato in un letto troppo corto per lui incollato al tetto di un treno. Ma in quel momento la prospettiva di raggomitolarsi e dare la schiena al mondo gli sembrava quella più allettante.

Sospirò e si decise a prepararsi per la notte, disponendo le lenzuola che erano state distribuite poco prima sulla pelle marrone del sedile, leggermente rigata in alcuni punti. Solo allora si accorse che, diversamente che a tutti gli altri, a lui non era stata data una coperta. Avrebbe dovuto sfidare la fortuna, lasciando i bagagli incustoditi, per cercare una delle hostess e chiederla.

Ho freddo, mi hai rubato le coperte. Di nuovo!

È il mio letto, Merlin, non ho rubato niente a nessuno!

Prese un respiro profondo e decise di lasciar perdere. Fuori la temperatura era di -25 gradi, ma i treni erano riscaldati. Avrebbe potuto fare senza, pensò sdraiandosi con tutti i vestiti indosso ed avviando il suo lettore di ebook.

Più tardi, quella notte, avrebbe rimpianto quella decisione, quando tutti ormai si erano messi a dormire e dal finestrino entravano talmente tanti spifferi che dubitava sarebbe cambiato molto se fosse stato effettivamente aperto. La debole luce del treno gli faceva intravedere le sagome delle foreste di betulle completamente imbiancate e poteva quasi scorgere le particelle d’aria immobili e fredde, sospese nell’atmosfera. Provò a stringersi di più il lenzuolo attorno al corpo, ma era del tutto inutile e le gambe gli facevano male per essere state tante ore ferme in una posizione poco confortevole e per giunta al gelo.

Si mise a sedere e si decise a fare un tentativo e bussare nello stanzino delle hostess. Percorse velocemente il corridoio del treno, tentando di non inciampare nei bagagli di qualcuno. C’era poca luce e tutti i passeggeri erano imbacuccati nelle loro maledette coperte e apparentemente dormienti. Un ragazzo e una ragazza pomiciavano allegramente dividendo lo stesso posto, complice il buio e l’incoscienza generale. Tornò pochi minuti dopo a mani vuote sul suo letto, frustrato ed infreddolito. Supponeva che un corso d’inglese rapidissimo alle hostess delle ferrovie federali russe fosse fuori discussione.

“Mi hanno rubato la coperta, stupido asino, e stavolta non sei stato tu,” digrignò tra i denti.

Afferrò la borsa che teneva sotto la testa a mo’ di cuscino per cercare una felpa e si imbatté nel suo památník.

Promettimi che lo aprirai solo dopo essere salito sul tuo treno sovietico.

Come aveva fatto a dimenticarlo? Lo aprì con mani un po’ tremanti, dimenticando d’un tratto il freddo che aveva sentito fino a poco prima. Una parte di lui voleva conservare le parole di Arthur, avere l’illusione di averne davvero ancora un po’ per sé. Si sentiva come se leggere quello che gli aveva scritto fosse un modo per chiudere definitivamente i ponti con i mesi passati, con lui.

Sfogliò le pagine lentamente, ripercorrendo con la mente i ricordi intrappolati nell’inchiostro. Alcuni dei volti delle persone che gli avevano lasciato un pensiero erano ancora nitidi nella sua mente, altri erano ormai sfocati. Di alcuni ricordava solo dei particolari, gli occhi, i capelli, il modo di vestire. Il pensiero che presto avrebbe potuto dimenticare gli occhi o la bocca o i capelli o gli abiti perfettamente stirati di Arthur gli sembrava impossibile, ma la probabilità che un giorno succedesse era così alta da fargli male.

Aveva ormai gli occhi lucidi quando arrivò ad una dedica che prima, era sicuro, non c’era. Riconobbe la grafia di Arthur ed il cuore iniziò a battergli più furiosamente nel petto.

Si passò un dito sotto gli occhi umidi, tentando di asciugarli con le nocche per avere una visione più nitida.


Credo di averti rubato di nuovo la coperta.

A.

P.S.: MECTA 034




Rilesse di nuovo le poche parole che aveva davanti.

“Che diavolo…”

P.S.: MECTA 034



No, si rifiutava di pensare una cosa simile. Si sentiva il battito del cuore nelle orecchie, mentre afferrava il proprio biglietto per verificare che MECTA # indicasse effettivamente quello che lui pensava indicasse.
 


MECTA 017.



Si alzò di scatto e percorse il corridoio velocemente, in direzione opposta rispetto a come aveva fatto prima, seguendo l’ordine crescente dei platzkart. Al diavolo i bagagli, pensò sussurrando i numeri che gli scorrevano davanti agli occhi. Il numero 34, essendo pari, doveva essere una delle file inferiori.

Quando finalmente lo individuò, era vuoto e sopra c’erano due coperte ancora piegate ed evidentemente non utilizzate. Le lenzuola però erano state stese sul sedile. Si passò una mano tra i capelli, chiedendosi cosa diavolo significasse tutto ciò, mentre la delusione gli piegava le spalle. Sapeva che non avrebbe dovuto farsi particolari illusioni, ma vedere quel letto vuoto era stato come perdere Arthur per la seconda volta.

“È stata la stessa cosa che ho provato io stamattina quando ho visto la tua stanza vuota,” disse una voce alle sue spalle, in inglese. Era stato appena un sussurro, ma nel silenzio del sonno altrui gli era arrivato chiaro e nitido alle orecchie.

Merlin strinse i pugni, tentando di preparare la sua mente ad una nuova possibile delusione. Forse era stato solo uno scherzo del suo subconscio a fargli sentire quella voce e a farla somigliare così tanto a quella che bramava. Chiuse gli occhi e si voltò lentamente, abbracciandosi mentalmente per ripararsi da una qualsiasi amara sorpresa.

Aprirli e ritrovarsi davanti Arthur, in jeans e maglietta, i capelli biondi un po’ spettinati e una tazza di tè in mano fu la cosa più bella e dolorosa che gli fosse mai successa nella sua vita.

“Mio Dio,” pensò portandosi le mani al volto. Non era in lacrime che voleva affrontare un momento del genere, ma la paura di averlo perso per sempre, il freddo, lo sconforto, il terrore di avere fatto una scelta sbagliata e poi la tensione dopo aver letto il quaderno, la delusione del letto vuoto e adesso il sollievo di avere Arthur davanti, in carne ed ossa, in tutta la sua meraviglia erano troppo da sopportare.

“Non esagerare, Merlin, è solo una coperta,” sussurrò la voce di Arthur, improvvisamente più vicina.

Merlin rise, scuotendo la testa e tentando di asciugarsi gli occhi con una manica.

“Asino,” rispose guardandolo in viso, “Che ci fai qui, Arthur? Non siamo a Londra.”

“Questo l’ho notato quando il treno è partito con cinquanta minuti di ritardo,” Arthur roteò gli occhi, “Sono venuto a chiederti una cosa,” disse portandogli le braccia attorno alla vita. Merlin si lasciò andare, affondando il viso nel suo petto, inspirando il profumo ed il calore dell’uomo che aveva imparato ad amare.

“Resta con me,**” la sua voce calda gli arrivò alle orecchie e sentì il petto di Arthur vibrare sotto il suo viso mentre pronunciava quelle tre parole.

Si allontanò e sollevò lo sguardo a cercare quello dell’altro, che lo guardava serio come aveva fatto sere prima, mentre lui finiva di preparare i bagagli.

“Perché non-“ iniziò a dire, ma Arthur lo interruppe.

“Non volevo sfruttare la tua indecisione prima della partenza, non era giusto nei tuoi confronti. E poi progettavi questo viaggio da così tanto tempo... Senza contare che… sarebbe stato facile per me chiederti di rinunciare a tutto mentre io stavo a guardare. Andiamo, Merlin, tu fai couch surfing,” risero insieme, “È una cosa folle dal mio punto di vista e io forse non la farei mai,” unì le loro fronti, “Come potrei chiederti di cambiare? Non voglio che cambi, Merlin, voglio che tu sia sempre tu.***”

Merlin strinse di più la presa sulla sua maglietta, aspettando che Arthur continuasse.

“Potrei essere io a seguirti,” disse Arthur fra i suoi capelli, “Restare con me non significa restare a Londra, voglio solo che siamo insieme, Merlin,” concluse stringendolo di più a sé.

“Ho girato il mondo così tanto,” sussurrò Merlin trovando il coraggio di guardarlo negli occhi, “Aspettando un motivo per restare; non avrei mai immaginato di trovarlo nella stessa città in cui sono nato… dovrò ringraziare mia madre per avermi minacciato affinché tornassi a Londra.”

Risero insieme.

“Io ho già mandato dei fiori ad Hunith per ringraziarla,” ammise Arthur inaspettatamente, “Ehi, se li è meritati!” tentò di difendersi mentre Merlin gli dava un pizzicotto sulla spalla e poi si abbassava finalmente a baciarlo.

Si baciarono a lungo, col poco romantico sottofondo del russare attorno a loro e dello sferragliare del treno, complice il buio e la lampada rotta sopra la loro testa. Reimpararono l’uno il sapore dell’altro, accarezzandosi leggermente sopra i vestiti, riassaporando la vicinanza ed apprendendo quanto fosse consumante la sensazione di essersi ritrovati e che non si sarebbero mai più lasciati.

“Dio, mi erano mancate le tue labbra,” sussurrò Arthur mordendogliele per rimarcare il concetto.

“Non sono passate nemmeno quarantotto ore, Arthur,” rispose Merlin sorridendo, per non ammettere che anche a lui era mancato Arthur, gli era mancato tutto di lui nelle ore e nei minuti e nei secondi che erano trascorsi da quando aveva lasciato la scuola la mattina precedente.

Poco dopo, mentre guardavano il mondo da un platzkart sul livello inferiore di un treno (post-)sovietico, stretti l’uno all’altro, il petto di Merlin attaccato alla schiena di Arthur, sotto le loro due coperte, scambiandosi promesse che Dio solo sapeva se sarebbero mai riusciti a mantenere, Merlin pensò che, finalmente, tutti i pezzi erano al posto giusto ed il mondo da allora in poi avrebbe davvero iniziato ad avere un senso.

* * *

Per la gioia di Hunith, Arthur Pendragon e Merlin Emrys erano tornati a Londra, ma avevano affittato insieme una casa in periferia, in un quartiere residenziale che ricordava un po’ la pace di Ealdor, ma ad un passo dalla frenesia della City. Avevano avviato anche un programma di scambio di docenti alla Avalon School, cosicché per qualche mese l’anno entrambi, spesso insieme, ma a volte anche no, potessero insegnare in luoghi diversi. Quindi, Arthur Pendragon e Merlin Emrys, pur avendo residenza fissa a Londra, avevano vissuto a New York e prima di allora a Nuova Delhi, e prima ancora a Belgrado, e ancora prima ad Budapest e così via. Ed avevano fatto couch surfing talmente tante volte da aver perso il conto.

Pareva che l’incantesimo del mago vagabondo, infine, fosse riuscito a risvegliare il principe che giaceva ad Avalon. Che fosse previsto un “vissero felici e contenti” anche per i maghi e per i principi, lo avrebbe rivelato solo il tempo.


The end.




* e ** sono entrambe frasi che, rispettivamente, Arthur e Merlin pronunciano nella 5x13, ma io in questa storia le ho invertite, così che Merlin ha in bocca le parole di Arthur e vice versa.

*** parole di Arthur nella 5x13. Anche la frase delle ginocchia, ovviamente.



Altre note:

Il památník, usanza ceca, esiste davvero, ed io l’ho appresa (e copiata, sia nella fic che nella real life xD) da Riccardo. Il mio quaderno attualmente ha la scritta che ha quello di Merlin, ma è ancora il primo che ho, mentre Rick quando l’ho visto quei cinque anni fa ne aveva già completato uno!

I platzkart sono davvero il metodo più economico e più comodo per andare in treno da Mosca a Pietroburgo o vice versa, e sono tipo così.

Tutte i riferimenti alla frontiera terrestre russa sono realistici, giusto XD compresi i quattro controlli nell’arco di venti minuti.


   
 
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