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Autore: AstronautOnTheMoon    13/01/2013    1 recensioni
Lavoro da molto tempo a questa storia, parla di una ragazza che viene spesso picchiata dalla madre, di un adolescente che ha fatto un solo, singolo errore:dire la verità e ora deve pagarne le conseguenze. Spero vi piaccia.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Mia madre
 

" E ti vengo a cercare 
anche solo per vederti o parlare
perché ho bisogno della tua presenza
per capire meglio la mia assenza."


Girai il foglio, calma come durante ogni compito in classe di italiano, nei temi non sono mai stata brava, ma ho sempre scritto tutto il necessario per superare la sufficienza; lessi con calma le nere lettere marcate e racchiuse tra due leggere e svolazzanti, ma ordinate virgolette: “parla del tuo rapporto con i genitori.”

Subito mi venne da ridere, come è possibile che in seconda superiore mi venga richiesto un tema del genere? Immediatamente questa “allegria” si trasformò in triste sconforto e la mente si affollò di una matassa di domande: devo essere sincera o mentire? A che scopo mentire? Tanto questo lo leggerà solo la prof! E se arrivasse alle orecchie di mia madre? Sarei fottuta! Tanto ormai, la mia vita fa già abbastanza schifo così, cosa ci può essere di peggio?
Ma ero tanto stupida quanto ingenua e non capivo che infondo la mia vita non era poi tanto male, che la mia vita era un bijou se confrontata a quella che oggi conduco. Se potessi vorrei tornare indietro e consegnare un tema falso, o non consegnarlo proprio.

 

Avevo dieci anni quando tutto cominciò, mio padre ha sempre girato tutta l'Italia per lavoro e l'ho sempre visto solo durante i week-end e io rimanevo sempre sola con mia madre.

Ero tornata da scuola, mi ero fermata a chiacchierare a scuola con le mie amiche -che ora non ho più- e avevo fatto tardi, rientrai in casa, salutai e mi sedetti a tavola, tranquilla.

Subito mi ringhiò: “Dove sei stata? Cosa hai fatto? Perché hai fatto tardi? Ero in pensiero!”. Erano troppe le domande a cui rispondere, mi sentii girare la testa e la voce non uscire.
Sentii la sua mano fredda sul mio viso, poi la mia guancia fu invasa da migliaia di minuscole fiaccole di fuoco ardente, spente dalle lacrime repentine; in sottofondo sentivo mia madre che mi diceva che ero un disastro, perché in casa non facevo niente e scuola non mi impegnavo, mi diceva che ero come zio Luca -morto per una dose eccessiva di droga-, mi diceva che ero un danno, un frutto di un finto amore e tante altre grida simili che mi fecero più male di quel primo di una lunga serie di schiaffi.

Mi obbligò a finire il pranzo, poi corsi in camera mia e piansi abbracciata a l'orso Lino, che era il mio pupazzo preferito.

 

La mia camera è ciò che più mi manca di quella casa che tanto ho maledetto, di quella casa che tanto ho odiato. Non era grande, ma era MIA. Io avevo scelto i mobili bianchi, io avevo deciso di dipingere le pareti di viola scuro e io avevo attaccato i poster delle mie band preferite.

 

Avevo lividi strani sulle braccia, sulle gambe e sul busto, erano lunghi e affusolati.

Nessuno li vide mai, fino a che non fui separata da mia madre, ma questo avvenne dopo.

 

Schiaffi come quello ci furono, erano sempre più forti e a minor distanza l'uno dall'altro, fino a che per ogni no arrivava, quando ormai non fecero più effetto arrivò il manico della scopa.

Era l'inizio della prima superiore, liceo classico, prima verifica di greco dell'anno – e della vita – vengono riconsegnate: ho preso 6.

Io già mi immaginavo le sue mani fredde sulla mia pelle bianca, il dolore dei lividi neri, e l'odio delle sue parole, io avevo già progettato tutto mentalmente, ma niente andò come mi aspettavo.

Mi sedetti a tavola come ogni volta, le dissi il voto, lei divenne viola in viso, ma non disse niente.

Andò nella stanza affianco.

Io avevo paura, molta paura, il cibo non lo toccai e non pensai nemmeno a mangiare, ormai ero abituata a saltare il pranzo. Ero seduta sulla sedia e tremavo sia dentro che fuori.

Tornò un paio di minuti dopo con un manico di scopa.
Si mise davanti a me, il manico di scopa tra le mani, tirò indietro le braccia e con tutta la forza che aveva in corpo lo scagliò contro di me, riuscii ad evitarlo ma mi prese la sulla mano destra.

Un dolore ceco e silenzioso mi percorse.
Non urlai nemmeno, perché in quel momento il problema principale era che mi madre si stava già abbassando per raccogliere il bastone.

Uscii di corsa, presi il motore e andai lontano, avevo paura di tornare a casa, avevo paura di cosa mi sarebbe successo, avevo paura degli insulti che mi avrebbe tirato contro, avevo paura!

Verso sera non avevo ancora toccato pranzo da colazione, ma non mi preoccupavo, non avevo fame, non mi interessava mangiare, andai dalla mia migliore amica e quella santa di sua madre mi ospitò a dormire lì, suo padre è medico e mi visitò la mano e mi disse che non era niente di grave, bastava un po' di ghiaccio, una buona pomata e tanta pazienza.

Rimasi lì un'altra notte e poi chiamò a casa della mia amica mia mamma dicendo che mi dovevano riportare a casa che li avrebbe denunciati per sequestro di persona.

 

La prima cosa che notai appena arrivata a casa fu la bottiglia di rum vuota sul tavolino della sala e il manico di scopa appoggiato al suo fianco sul divano.
Stava dormendo.
Aveva bevuto.
Sgattaiolai in camera cercando di fare meno rumore possibile e chiusi a chiave la porta.

Quando mi svegliai la mattina seguente per andare a scuola per fortuna dormiva ancora.

Il fatto passò come tanti altri sotto il silenzio delle nostre conversazioni.

 

Ma la mia vita non è -o era?- un incubo solo a casa ma anche a scuola non andava meglio.

 

Alle elementari eravamo tutti uniti, ridevamo e piangevamo tutti insieme, ma alle medie le cose non sono state così rosee.

Tutti venivano da una stessa scuola: io ero l'intrusa, colei che rovinava tutto, quella di troppo, ero quella evitata, insomma: la sfigata.
Tutti mi prendevano in giro perché non avevo sempre voglia di ridere e scherzare, tutti mi odiavano perché non sono mai stata bella come loro, ero chiamata secchiona, ma loro non sapevano perché studiavo tanto, loro non sapevano niente.

Mi dicevano che ero una sfigata che se andavo a scuola mi avrebbero picchiata, che non ero degna di stare in quel mondo, che ero solo un danno, un errore, che ero grassa, che meritavo solo la morte.

La prima media la passai con la testa alta, ma con la schiena piegata.

Dicevo “il prossimo anno tutto cambierà!” mi sbagliavo.

Così ho iniziato a credere in ciò che mi dicevano.
Credevo di non essere degna di vivere.

 

Un giorno ero solo a casa e feci una cosa di cui mi pentii per sempre, lo feci solo una volta e solo quella volta bastò per peggiorare una situazione orrenda.

Nella mia mano destra c'era un taglierino e il mio braccio sinistro era bianco sotto la luce del neon del bagno, quasi si confondeva con la carta su cui era appoggiato.

Tirai su col naso, avvicinai la lama che rifletteva come l'armatura di un cavaliere che era lì per salvarmi, i miei movimenti erano lenti e la mano incerta e dubitante.

Poi uscì il sangue, era di un colore rosso acceso rassicurante, era come se mi dicesse tranquilla, non pensare alla tua vita di merda, al dolore che hai dentro, ci sono io che pulisco e assorbo ogni tristezza, sorridi, te puoi perché raccolgo io il tuo peso.

Stetti molto tempo in uno stato di trans a osservare il liquido rosso, senza credere di averlo fatto davvero e in un strano misto di soddisfazione e tristezza, poi lo disinfettai e lo coprii con un braccialetto.

Non lo feci mai più, ma solo un taglio, se scoperto, basta per essere chiamati emo, depressi, per essere odiati più di prima.

 

Ho sempre amato l'estate perché tutta la tensione che c'era durante l'inverno spariva magicamente, a casa era sempre un inferno perché mia madre trovava sempre da ridire sui voti, ma comunque passava piuttosto tranquilla, era come una tregua durante una battaglia infinita.

Inoltre non dovevo vedere nessuna delle persone che odiavo, di quei compagni di classe che hanno finito di distruggere la mia esistenza.

Quel testo lo scrissi, fui sincera.

Non avrei dovuto farlo, perché entrarono in mezzo gli assistenti sociali e io fui portata via.

Sono in una casa grande, bella, ho tre fratelli simpatici che capiscono la mia situazione, ma sono lontana dall'unica amica che abbia mai avuto e anche dalla donna che più ho odiato e amato allo stesso tempo.

Perché mi ha picchiato, mi ha fatto soffrire, ma io le volevo bene, bene veramente.

Ora è passato quasi un anno e non mi è mai stato permesso vederla.

Crederete che sono matta perché io dovrei odiare quella donna, ma cosa ci posso fare? Infondo è sempre mia madre.

  
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