Buonasera fandom meraviglioso!
Per prima cosa, grazie mille per le recensioni all’ultima
storia, siete
dolcissime e risponderò ad ognuna, prometto!
Per quanto riguarda questa one-shot, è un’altra di
quelle storielle iniziate
tempo fa e mai finite…fino ad oggi!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.
Half
of my heart (or strange reciprocity)
*
Quando a Sherlock offri un
sorriso, la sua
risposta è uno sguardo letteralmente sconvolto.
Se ne sta sulle sue, e lo vedi pensieroso e teso, come se fosse
impegnato in
una veemente lotta interiore tra due fazioni opposte e in cui sembra
non possa
esserci vincitore.
Si morde il labbro, sposta il microscopio lontano da lui e annuisce tra
sé e
sé, aprendo pian piano ognuna delle porticine che compongono
il suo immenso
Mind Palace. Probabilmente è perso in un dibattito con
sé stesso sui probabili
significati di quel sorriso, su cosa avessi voluto intendere, su cosa
mi
aspettassi, se magari volessi un favore, o se covassi dentro di me una
richiesta
imbarazzante come quella di qualche giorno fa. Un semplice sì ad un invito a pranzo di
Mycroft, comunque, niente di così tanto
terribile, almeno a mio avviso.
Continua a guardarmi ed è teso, non vuole deludermi ma
neppure accontentarmi,
sente dentro di sé che dovrebbe farsi perdonare per i nuovi
buchi alla parete,
o per il tavolino da tè per metà carbonizzato, ma
dall’altro lato è palesemente
terrorizzato dal motivo, secondo lui incomprensibile,
per il quale gli
rivolgo quel sorriso. Almeno dopo la furiosa lite di cinque giorni fa.
Non se
lo spiega, ed una sensazione così corroborante che quasi mi
sento in colpa per
un momento. Per fortuna, non dura più di
quell’istante.
Il tormento continua ancora, è una delle cose più
divertenti che io
abbia mai visto, ed ecco che compare sul suo viso quella vastissima
gamma
d’espressioni che pone il primo passo al lento cammino che
conduce al declino,
a quel pot-pourri di labbra piegate
all’ingiù, occhi che guardano un punto fisso oltre
le mie spalle, e mani che
non fanno altro che tormentare la molla della penna a sfera che tiene
tra le
dita. Quel cammino che può solo portare a due soluzioni,
ovvero a Sherlock che
afferra il cappotto e accampa qualche scusa per uscire di casa e
Sherlock che
corre verso di me, scuotendomi e chiedendomi di spiegargli le mie
intenzioni.
Questa volta, però, sembra leggermente più
motivato, come se per qualche motivo
lo avessi profondamente offeso e lui non volesse darmi la soddisfazione
di
vederlo arrendersi.
Adesso è seduto sulla sua sedia, ma è chino in
avanti in procinto di togliersi
pian piano la maschera, sperando fino all’ultimo di poterne
fare a meno, ma
visibilmente infastidito. La mia espressione poi, volutamente angelica
e
profondamente strafottente, è mirata soltanto a spingerlo
fino al punto di non
ritorno, alimentando il suo malumore come lo sbuffo di un soffietto sul
fuoco
ardente di un caminetto.
“John” dice poi all’improvviso e capisco
di aver vinto, ancora una volta. “Sei
un essere spregevole”.
Fingo uno stupore splendidamente genuino, che mi fa ben sperare per le
mie doti
d’attore, come se non avessi la minima idea del
perché mi avesse apostrofato a
quel modo. Le nocche di Sherlock schioccano minacciosamente e il mio
partner si
assicura che io stia guardando mentre lascia scivolare le mani sulle
sue cosce,
tenendole ferme ma afferrandosi nervosamente il tessuto dei pantaloni
costosi.
Forse, in passato, il suo disappunto mi avrebbe fatto desistere quasi
immediatamente, adesso, invece, ho quasi preso gusto a stuzzicarlo fino
al
limite. So per certo che non mi accadrà nulla. Forse un paio
di giorni di
sciopero della parola da parte sua, ma dopo giorni e giorni di
incessante
ciarlare, un po’ di silenzio sarebbe stato una manna dal
cielo.
“Sherlock, che cosa dici?” chiedo, fingendomi
innocentemente sorpreso. “Cosa ho
fatto, di grazia?”.
Sherlock lascia andare i suoi pantaloni, che ormai hanno bene impresse
le forme
delle sue unghie sul tessuto, e si alza dalla sedia, scompigliandosi i
capelli
già disordinati e vagando per il salotto come
un’anima in pena.
“Lo sai bene perché, piccolo subdolo
manipolatore” Sherlock sibila, risentito.
“Sai bene quanto mi infastidisca ma continui a
farlo!”.
Mi sento crudele e terribilmente cattivo
quando decido di non demordere e continuare la mia piccola recita, ma
non posso
reprimere un vaga sensazione di inquietudine quando lo vedo fermarsi
davanti
alla poltrona, in piedi davanti a me ancora seduto. Ha gli occhi che
sprizzano
scintille infuocate, e voglia la vicinanza o la lieve incertezza sulle
sue intenzioni
che mi coglie all’improvviso, sento un certo calore invadermi
da capo a piedi,
come se improvvisamente mi fossi avvicinato ad una fonte di calore
invisibile.
“Io non ho fatto niente, Sherlock” dico, ma mi
accorgo di sembrare meno
convinto. Vorrei scoppiare a ridere, ma mi concedo ancora qualche
minuto. “Cominci
a perdere colpi, amico. Vedi cose che non esistono”.
Conosco le doti fisiche di Sherlock, l’ho visto e
più volte invidiato per
quell’agilità che io non avevo mai raggiunto
nemmeno dopo l’addestramento
militare, ma mai avrei creduto fosse capace di piombare addosso a
qualcuno con
la stessa velocità con cui si getta su di me, le mani sui
miei avambracci e il
suo naso a un centimetro dal mio. Mi sta studiando, come in un ultimo
disperato
tentativo di anticipare le mie mosse. Rimango impassibile, almeno per
quanto
riesco con la sua faccia quasi incollata alla mia, ma resisto.
Dopo qualche secondo, sotto forma di un sospiro stizzito e uno sguardo
offeso,
assisto alla sua disfatta.
“Dillo, forza! Cosa vuoi? Cosa cerchi di farmi capire? Cosa
desideri che
faccia?” Sherlock sbotta, tirandosi su e tornando a
tormentare le ciocche scure
tre le dita. “Vuoi che mi prostri ai suoi piedi chiedendo
perdono, vero? Che mi
offra come accompagnatore nella serata
shopping di Mrs. Hudson per scusarmi di aver appiccato un
incendio sulle
scale? Dimmelo!”.
L’unica cosa che vorrei è scoppiare a ridere fino
a farmi venire mal di pancia,
ma resisto, per il suo bene e soprattutto per la mia
incolumità.
“Sherlock…” provo a dire, cercando di
sedare la sua agitazione. “Credo tu abbia
frainteso”.
“No, John, tu mi hai sorriso
dopo
giorni che non lo facevi. Dal giorno della lite, per
l’esattezza” lui dice, e
mette le mani sui fianchi, indeciso su dove sedersi, se
sedersi o rimanere in piedi, o mettersi a fare qualcos’altro,
o
continuare quella conversazione o qualunque
cosa.
Riesco quasi a vedere la confusione nel suo cervello, che mi figuro
sempre come
un gigantesco appartamento pieno di cianfrusaglie sparse qua e
là, senza alcun
ordine o criterio.
“E allora?” io dico, continuando con quel tono
cordiale e allegro che lo manda
in fibrillazione. “E’ solo un sorriso”.
“Non è solo un sorriso
John” Sherlock
mi dice, quasi gridando, questa volta. “E’ quel
particolare sorriso. Quello mirato
a farmi sentire bene, a farmi sentire che ci sei e che mi apprezzi e
tutte
quelle tue tipiche smancerie” socchiude gli occhi poi,
squadrandomi. “Quello
mirato a farmi sentire in colpa per
qualcosa”.
A quel punto, raggiunto il mio scopo principale e ottenuta la mia
incontrastata
vittoria sul Consulting Detective,
decido di abbandonare le armi e concedergli una giusta tregua e una fine dignitosa. Sorrido ancora, un
sorriso che non so come lui leggerà ma che io coloro con un
pizzico di
comprensione e con un po’ di allegria. Un sorriso colmo di
simpatia sincera e
di un leggero senso di colpa per averlo stuzzicato in quel modo. Un
sorriso
pieno un profondo, profondissimo
affetto.
Spero che lui capisca e che questa volta il messaggio arrivi al
destinatario senza
cambi di rotta improvvisi. Spero che lui comprenda fino in fondo quanto
qualunque nostro litigio mi scivoli addosso dopo il rancore del primo
momento.
Spero che lui si accorga quanto sia importante per me.
Lui non mi stacca gli occhi di dosso, ma non dice nulla, rimanendo in
un
religioso silenzio di contemplazione. Fissa le mie labbra, e la cosa mi
imbarazza alquanto, ma non dico niente e nemmeno lo esorto a mirare lo
sguardo
verso altri lidi. Mi piace, in fondo, avere i suoi occhi su di me,
nonostante
sia bene a conoscenza di ciò che lui adora guardare,
cadaveri o scene del
crimine in primis, ma mi piace pensare di essere una delle sue
eccezioni. L’unica.
“Mi dispiace che tu abbia pensato questo, Sherlock”
dico infine, e scopro che
la mia voce è flebile, quasi timida. “Ma il mio
sorriso era un’offerta di pace,
in realtà. Di scuse” ammetto, e non vedo
l’ora di conoscere la sua reazione.
Lui apre gli occhi e socchiude le labbra, in un’espressione
stupita che cerca
in tutti i modi di reprimere, come se fosse qualcosa di riprovevole e
imbarazzante oltre ogni immaginazione. Poi tossicchia, tentando di
riacquistare
compostezza, e torna a guardarmi con un’espressione seria che
però non gli
riesce perfetta come al solito.
“Scuse?” è la sua unica domanda.
“Scuse” io asserisco, e sorrido di nuovo. Non
riesco a farne a meno. “Forse ho
esagerato, quel giorno. Dopotutto, l’incendio non
è stato il peggiore dei
tuoi incidenti. E fino ad
oggi non hai combinato più nulla” lo lodo, e lo
vedo fremere come un bambino
davanti ad un bel voto a scuola. “Sei stato bravo”.
Sherlock pare pensoso e scrolla le spalle, aprendo e chiudendo la bocca
come se
volesse dire qualcosa ma non riuscisse a trovare le parole adatte. Non
è
qualcosa da Sherlock, è una difficoltà
assolutamente non da lui, e non posso
che esserne felice. L’eccezione,
mi
ripeto ancora. E’ una speranza un po’ egoista, ma
non posso fare a meno di
assaporare il gusto dolce di quel pensiero.
Il mio migliore amico sembra optare per uno sguardo serio e posato,
come se
volesse apparire sicuro di sé e allo stesso tempo ancora
contrariato con me, un
po’ come a volermi dire silenziosamente qualcosa simile ad un
ma certo che sono stato bravo, ovviamente
avevo ragione e non c’era bisogno che me lo dicessi tu.
“Beh, era anche ora che ci arrivassi” è
quello che dice. “In effetti, la tua
sfuriata è stata davvero infantile”continua,
senza contraddirmi in nulla e senza neppure accennare ad un qualunque ma figurati John, è tutta colpa mia
di
circostanza. Non m’importa, comunque. Sono più che
felice così.
“Detto da te è altamente significativo,
Sherlock” rispondo, e sono ironico e
tagliente abbastanza da attirare totalmente la sua attenzione prima
rivolta a
qualcosa ai piedi del tavolino da caffè. “La
prossima volta, quando sorriderò,
metterò un cartello a neon con scritte le mie reali
intenzioni”.
Sherlock emette un suono gutturale senza nemmeno aprire la bocca,
qualcosa tra
un grugnito e un mugolio d’assenso.
“Sarà meglio” dice, come se gli fosse dovuto.
“Non posso sempre starti dietro in tutte le tue stramberie,
John”.
Detto questo, mi lancia un’occhiata furtiva e decide che
è soddisfatto
abbastanza della conversazione per tornare in cucina. Si siede al suo
solito
sgabello, l’unico superstite della pseudo-bomba esplosa in
cucina un mese fa, e
torna a guardare nel microscopio, in qualunque diavoleria si trovi
all’interno
del vetrino.
Io mi rilasso nuovamente contro la spalliera del divano e ridacchio tra
me e
me, pensando alla situazione assolutamente surreale, e totalmente priva
di
senso logico, che ho appena affrontato insieme al mio coinquilino. Poi
penso
alla vita che avevo prima, alla noiosa, sciocca, monotona
quotidianità che mi
stava uccidendo, dopo la guerra, e mi accorgo di quanto io adori tutto
questo.
Di quanto io ami questa mia seconda
chance.
Guardo Sherlock, che adesso è concentrato a regolare lo zoom
del microscopio, e
capisco che lui ha percepito i miei occhi su di lui. Dura un secondo,
è
impercettibile, più veloce di un lampo ma è
impossibile da confondere.
Sherlock sorride.
E non c’è perla rara, gioiello prezioso o
qualunque altro costosissimo regalo
che io potrei apprezzare di più di quel gesto
così semplice e istintivo. Perché
la felicità del mio migliore amico, la consapevolezza di
aver suscitato in lui
un interesse, una sorta di piacere,
è
il dono più bello che io possa desiderare.
Sa benissimo che ho visto, che non mi è sfuggito, che ho
carpito quei pochi
secondi imprimendoli a fuoco nella mia mente, senza la minima
possibilità di
poter dimenticare. Ho catturato quel veloce sorriso come una farfalla
nel mio
retino.
“Sentimentale” Sherlock sbuffa, ma vedo benissimo
che non è arrabbiato, né
offeso e tantomeno contrariato.
“E’ colpa tua” rispondo io senza
esitazione, afferrando un giornale dal cesto e
fingendo di trovarne la lettura interessantissima. Quando poi crede che
io non
lo guardi, che io sia concentrato sulle poche righe di un articolo di
cui non
ho neppure inteso l’argomento principale, sorride
di nuovo.
E io sento il cuore arrivarmi in gola, pervadendomi da capo a piedi di
un
calore meraviglioso e speciale.
E questa giornata, mi ritrovo a pensare, non sarebbe potuta finire in
modo migliore.
Quando a Sherlock offri un
bacio, lui ti
risponde con un brusco cenno del capo.
Siamo sdraiati sul letto, sul quello che è stato il mio letto che ora mi piace considerare
come nostro, e tengo stretto
Sherlock a me, con le gambe allacciate al
suo bacino e le sue a circondare il mio in un caldo abbraccio.
Le mie mani vagano sulla sua schiena, disegnando figure indistinte
sulla pelle
liscia e leggermente segnata da cicatrici più vecchie e
troppe più nuove,
mentre le sue sono al mio viso, passando i polpastrelli su ogni piega
del volto
come se avesse bisogno di memorizzare ogni più piccola
scabrosità del mio viso,
ogni imperfezione e perfezione,
soffermandosi
sulle zone che reputa più affascinanti e degne di un maggior
approfondimento.
Percepisco il tocco ruvido delle sue dita sulla fronte, che percorrono
tutte le
rughe d’espressione con delicatezza, facendomi sentire lusingato di tanto interesse e allo
stesso tempo simile ad una
strana cavia da laboratorio.
Ma so benissimo, Sherlock è fatto così, che non
c’è alcuna freddezza e nessun
subdolo fine scientifico nelle sue
azioni. Almeno, non in questo momento.
“Sono più profonde qui, vicino agli
occhi” sussurra all’improvviso,
socchiudendo i suoi per studiare meglio quella determinata parte del
mio volto.
Continua a toccarla, cercando di percepirne ogni segreto.
Io ridacchio, spostando la mia carezza alle sue braccia solide,
percorrendo il
lieve avvallamento dei bicipiti.
“Sorrido molto di più” è la
mia risposta, che gli provoca un sorrisetto ilare e
ironico allo stesso tempo, come se la giustificazione da me fornitagli
non si
basasse su un così solido fondamento scientifico.
“Tu dai la colpa al tuo sorriso?” mi chiede, e il
tono della sua voce è appena incredulo
e suona leggermente come una presa in giro per la mia
ingenuità. “Forse invece,
è perché stai invecchiando, mio caro”.
Sapevo benissimo che sarebbe andato a parare su quel punto, lui che
adorava
alimentare il suo ego con i complimenti della gente che non faceva
altro che
lodare il suo viso giovanile e particolare, che fuorviava quasi sempre
chiunque
fosse ignaro della sua vera età. Tutti quanti finivano
sempre, inevitabilmente,
con l’attribuirgli almeno cinque anni in meno di quanti ne
avesse veramente.
“Oh, senti chi parla” lo punzecchio, attirandolo
ancora più vicino e godendo
del suo gemito leggero provocato dall’improvvisa vicinanza.
“Quello che verrà
sempre scambiato per un ragazzino”.
Lui ride, e si crogiola nel calore dei nostri corpi premuti assieme,
appoggiando la fronte alla mia e guardandomi con occhi curiosi.
“Invidioso” commenta, pensando di pungermi nel vivo.
“Oh per niente. Io almeno sembro un uomo adulto, vissuto,
pieno di esperienza”
questa volta rivolto la
situazione a mio favore, stuzzicandolo su uno dei suoi punti deboli, la
gelosia. “Avrei file di ragazzi e ragazze dietro a
quest’ora, se non fossi già
impegnato con te”.
Il suo viso si colora di un rosso acceso, diventando quasi comicamente
fosforescente in meno di un minuto, facendolo assomigliare ad un buffo
personaggio stereotipato da fumetto per bambini. Non posso fare a meno
di
ridere quando vedo quel repentino cambio di realtà sul suo
volto, quasi fosse
uno schermo televisivo sul quale cambiare canale, o espressione, a
proprio
piacimento.
“Oh, scusa se faccio un torto al mondo pretendendoti
tutto per me” la sua fronte si stacca dalla mia e incrocia le
braccia, come un
bambino col broncio. Sento il mio cuore che batte
all’impazzata, come durante
lo sprint iniziale di una corsa olimpionica, e in quel momento mi
ritrovo
davanti ad uno dei motivi principali per il quale amo
quell’uomo più della mia
stessa vita. E’ capace di provare
così tanto, è capace di racchiudere in poche
parole così tanti sentimenti da
sembrare una moltitudine di persone racchiusa in una sola. E’
semplicemente
unico. E’ semplicemente Sherlock.
Io rido e incrocio una mano con la sua, che all’inizio
respinge il mio tocco,
per arrendersi –senza nemmeno poi tanta fatica- appena due
secondi dopo.
L’altra mia mano percorre la sua schiena con dolcezza fino a
fermarsi sul suo
collo, attirandolo in un bacio pieno di quell’amore che in
quel momento mi
pervade, fino al midollo.
Lui è schivo sulle prime, fa il prezioso come poco prima lo
han fatto le sue
dita corteggiate dalle mie, e
ritrae
le sue labbra porgendomi la guancia come magra e insoddisfacente
sostituta.
Accarezzo la pelle sensibile della mascella con la bocca, fino a salire
sugli
zigomi sottili e taglienti che tanto mi fanno impazzire, e lo vedo
soccombere
man mano alla mia subdola manovra d’attacco.
Piano piano lo vedo tornare a rivolgere lo sguardo al mio, le mie
labbra che
cercano nuovamente le sue, trovando molta meno ritrosia e sempre
più un mutuo
interesse, ancora poco abilmente mascherato da algida freddezza, fin
quando
finalmente non raggiungo il mio agognato traguardo.
Si lascia baciare con trasporto, lui che fino a pochi secondi prima
voleva
sembrare offeso, partecipando con
passione, dedizione e profondo desiderio. Sento la sua lingua sfiorare
dolcemente
le mie labbra e le consento il passaggio, la mia già pronta
ad darle il
bentornato con piacere immenso.
Dopo qualche minuto passato letteralmente a colmare
ogni dimenticanza sulla conoscenza reciproca delle nostre
bocche, mi separo
da lui a malincuore, per pura necessità
d’ossigeno.
Accolgo il suo viso tra le mie mani e sorrido, fissandolo negli occhi
azzurri
quasi completamente scuriti dall’eccitazione intensa. Lo
vedo, dopo un’iniziale
esitazione, ricambiare il mio gesto.
“Lo sai che sono tuo” gli assicuro,
perché non voglio che abbia mai nessun
dubbio, perché capisca che i miei scherzi sono solo tali e
senza alcun
fondamento di verità. “E che non vorrei essere di
nessun’altro”.
I suoi occhi brillano come gemme bagnate di sole e inaspettatamente si
mette a
ridacchiare, scuotendo la testa come per redarguirmi.
“Oh beh, non ho mai avuto nessun dubbio su questo,
John” mi prende nuovamente
in giro, fingendo di non essere mai stato davvero colpito dalla mia
galeotta
affermazione di poco prima. Tipico di Sherlock, capovolgere
completamente le
situazioni portandole a suo favore.
Sospiro, conscio di non potere nulla contro la furbizia e
l’innegabile astuzia
del mio compagno.
“Oh, lo avevo immaginato sin da subito” la mia voce
è inevitabilmente
sarcastica, e so benissimo che lui ne ha colto benissimo la sfumatura.
Non
sembra desideroso di continuare lo scherzoso battibecco comunque, come
se fosse
–stranamente- soddisfatto anche così.
Tossicchia, con fare importante.
“E la scusa del sorriso non regge” mi
bacchettò, con l’espressione altezzosa di
chi la sa molto più lunga di te. “Il tuo
è bellissimo,
non dovresti attribuirgli certe ingiuste colpe”.
Mi fingo quasi dispiaciuto per un secondo, e sinceramente colmo di
rimorso per
aver osato fare un torto a quella mia, a detta di Sherlock, tanto
affascinante
caratteristica, ma non riesco a mantenere la concentrazione incentrata
su
quella recita per molto tempo ancora.
Non posso fare a meno di avvicinarmi di nuovo a lui, abbracciandolo e
stringendolo a me con quanta più forza riesco a trovare, e
lui sembra
sinceramente stupito ma felice di quel mio gesto spontaneo e sentito.
“Non è affatto colpa sua infatti,
Sherlock” sussurro al suo orecchio, mentre la
mia schiena è percorsa da brividi provocati dal lento
solletico del suo dito
indice sulla colonna vertebrale.
Lui s’irrigidisce appena, colto di sorpresa.
“E allora di cosa, John?” lui domanda, curioso.
Strano che non fosse riuscito a
dedurlo da sé. “Ammetti di star
invecchiando?”.
Io rido e lo colpisco con una certa forza, ma senza ovviamente fargli troppo male, nell’area
più morbida tra i
fianchi e sopra il coccige, mordendo allo stesso tempo il lobo del suo
orecchio
con una dolce pressione dei denti.
“Oh no. In realtà, è colpa
tua” confesso e lui, questa volta, rimane congelato
nel nostro abbraccio. Probabilmente sta pensando chissà
cosa, sono propenso a
credere che il suo cervello stia elaborando pensieri sulla falsariga di
‘la vita con me lo stressa
così tanto da
farlo invecchiare precocemente’, ‘cosa
sto facendo?’,
‘sarà davvero colpa
mia?’ e per qualche secondo, lascio che viva nella
consapevolezza che io
stia pensando davvero qualcosa del genere. Giusto per una mia piccola
soddisfazione personale.
Quando mi sento abbastanza soddisfatto da ritenere di poter mettere
fine a quel
piccolo scherzo, mi avvicino nuovamente al suo viso, ma questa volta,
prima che
lui possa parlare, lo zittisco con un dito sulle labbra e rimango a
fissarlo,
le fronti nuovamente poggiate l’una contro l’altra.
“E’ colpa tua” ripeto ancora,
sussurrando. “perché è grazie a te che sorrido di
più”.
Lui ride, enormemente sollevato, e io non posso fare a meno di
regalargli, e regalarmi un altro
tenero bacio.
Quando a Sherlock offri la vita lui ti ripaga con la morte.
Avevo pensato a quell’eventualità per mesi, prima
di decidere finalmente di
darmi una mossa e ponderare una volta per tutte i pro e contro della
mia
importantissima decisione.
Non era certo il momento più adatto per una cosa del genere,
con il processo di
Moriarty in atto e tutta l’inevitabile polvere sollevatasi
intorno a Sherlock,
ma il pensiero che avrei potuto distrarre il mio compagno da quella
spirale di
intrighi, enigmi e giochi psicologici tipici del suo arcinemico,
mi allettava più di quanto forse sarebbe stato lecito.
Sherlock amava quella situazione,
per
quanto intricata e dai risvolti più inquietanti di quanto ci
saremmo mai
aspettati, e io ero più che consapevole che una distrazione
forse non sarebbe
stata la cosa più gradita, in quel momento. Fatto stava che
non riuscivo
davvero ad aspettare, a dirmi ‘John,
lascia che passi un po’ di tempo e andrà tutto bene’
perché per un motivo o
per l’altro, sentivo di non potermi permettere altre attese e
altro tempo
inutile.
Qualcosa mi diceva che se davvero ero certo, sicuro delle mie
intenzioni, la
cosa migliore da fare era agire subito, senza pensarci ulteriormente,
senza
nessun ripensamento.
Ero passato in negozio e avevo speso ore,
ma letteralmente più di centoventi
minuti
di fila a scegliere qualcosa che a Sherlock potesse davvero piacere
senza che
sentisse la necessità di stroncare la mia scelta con una
delle sue battutine
acide e fuori luogo.
Neanche sapendo come fosse stato possibile che il commesso non si fosse
spazientito tanto da mandarmi direttamente a quel paese dopo
l’ennesimo cambio
di decisione, uscii finalmente da quel luogo dove probabilmente mi
sarebbe
stato interdetto l’accesso per il resto dei miei giorni,
soddisfatto e sempre
più deciso ad andare avanti.
Il giorno dopo, ero stato ad un passo
dal fargli quella fatidica domanda, ma davvero vicino, molto
più vicino di
quanto avrei creduto di poter arrivare con un solo misero giorno di
preparazione psicologica per quel discorso. Non dovevo ritirare un
Nobel, o un
Pulitzer o chissà quale importantissimo riconoscimento ma ci
tenevo a fare
bella figura con l’uomo che amavo e che avrei amato per tutto
il resto della
mia vita.
Vicinissimo alla meta, Sherlock aveva poi deciso che la figura di Jim
Moriarty
necessitasse dell’assoluta priorità molto
più di me e delle mie smancerie distraenti,
quella sera.
Non ce l’avevo fatta. Non avevo avuto il coraggio di
controbattere anche se ero
furioso, anche se dentro di me ribollivo di rabbia e frustrazione verso
il mio
compagno, perché me lo aveva sempre detto nonostante mi
fossi illuso che le
cose sarebbero potute cambiare. Il lavoro
viene prima.
‘Riproverò domani’ mi dissi,
cercando di sbollire l’ira e la profonda delusione.
‘Andrà meglio,
andrà tutto bene’.
Il giorno dopo poi, Sherlock morì.
Sono seduto su una delle scale del mio appartamento.
Fisso una crepa profonda nel muro di fronte a me e non riesco a
distogliere
l’attenzione, come se dal seguire quella scalfittura sottile
e disseminata di
pittura secca dipenda la mia vita, la mia sanità mentale.
Più probabilmente,
perché so che una volta spostato lo sguardo da quella
inutile e stupida
distrazione, tutto tornerà a travolgermi. E io non so se
potrò sopportare un
peso del genere prima di soccombere anch’io.
Non sono pronto. Sono debole, svuotato.
Non provo niente, in questo momento.
Solo una sensazione estremamente piatta, come quel millesimo di secondo
in cui
colpisci qualcosa violentemente e il primo impatto fa talmente male
che,
paradossalmente, quasi sembra non esserci dolore. Quello che sento in
questo
momento è solo la stessa sensazione, soltanto molto, troppo, prolungata. Penso che se
arrivasse qualcuno e mi colpisse
con un coltello, non sentirei nulla.
Probabilmente, appena metterò bene a fuoco la situazione,
comincerò ad urlare
così forte che Mrs Hudson crederà che i muri
possano crollare da un momento
all’altro. E certamente mi metterò a colpire il
muro, a lanciare oggetti sulla
cazzo di poltrona del mio cazzo di coinquilino bastardo e
piangerò, oh sì,
perché è –era-
un maledetto
guastafeste e io dovrei odiarlo, dovrei maledirlo fino alla fine dei
miei
giorni e invece lo amo come lo amavo prima e anche di più.
Sono un idiota. Aveva ragione. Probabilmente, lo sono sempre stato.
Una porta sbatte giù in strada, e sento i passi di un uomo
che si allontana
lungo la strada discorrendo animatamente con qualcuno al cellulare.
Vorrei scappare
via anche io, vorrei afferrare io
il
mio telefono e gettarlo per terra fino a ridurlo in mille piccoli pezzi
come se
così io possa cancellare ogni traccia di ciò che
è successo, di ciò che mi ha
detto, del suono metallico della sua voce attraverso
quell’apparecchio.
Un nuovo rumore giunge alle mie orecchie, la porta che si apre questa
volta è
quella del 221B e non è uno sconosciuto a comparire in fondo
alle scale, ma Gregory,
intento a guardarsi intorno con aria smarrita.
L’ispettore, o qualunque cosa sia lui al momento, fissa il
corridoio e si
stringe nel suo giaccone troppo largo che probabilmente nemmeno gli
appartiene,
e si strofina le braccia come se avesse freddo e non riuscisse in alcun
modo a
riscaldarsi. I capelli sono scompigliati e bagnati di pioggia, e i suoi
occhi
sono rossi e gonfi, le guance umide e lucide. Alza gli occhi e incontra
i miei quasi
immediatamente, ma non riesce a mantenere lo sguardo nonostante io veda
quanto
ci stia provando. Lo capisco, non insisto e non ho la minima intenzione
di spingerlo
a parlarmi, se non vuole. Le sue sarebbero solo parole di cordoglio, e
non è
affatto di quello che ho bisogno adesso.
“John” lui sussurra, all’improvviso.
Adesso l’incantesimo è rotto. E’ tutto
di
nuovo reale. “John, mi
dispiace
tanto” aggiunge e vedo qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che
non riesco a
capire ma che probabilmente, è solo dettato dalla mia mente
confusa. Sembra pieno
di rimorsi, come se quello che è successo fosse colpa sua.
So perché si sente
responsabile e posso capirlo. Lo consolerei, se fossi lucido e
coerente. In
questo momento però, non m’importa di niente e di nessuno.
Non gli rispondo mentre lui avanza a piccoli passi verso di me,
strisciando i
piedi nelle scarpe basse e infangate e sedendosi sulla scala accanto a
me. Non
faccio caso alla sua figura, anche se in fondo al mio cuore, sotto il
dolore,
sotto la perdita, l’odio, e la rabbia
c’è un piccolo posticino anche per lui. Sembra
leggermi nella mente e posa una mano sul mio ginocchio, tentando di
trasmettere
un conforto che non sortisce alcun effetto, in me.
Rovisto nelle tasche, cercando di respingere il profondo panico
che sento crescere dentro ogni secondo di più, e
tiro fuori
una scatoletta di velluto blu, quella che a quest’ora sarebbe
dovuta essere tra
le mani di Sherlock, e non certo nelle mie.
La apro, incurante che Greg sia ancora lì a guardare e che
ora stia
inevitabilmente fissando le mie mani chiedendosi se è
davvero quello che crede. Non lascio la sua
curiosità digiuna
ancora per molto e apro la scatoletta, rivelando la semplice fascia
d’oro
bianco che essa contiene.
“E’ troppo semplice, lo so” dico, senza
sapere neppure perché lo faccio. “Ma è
l’unico tipo di gioiello che avrebbe mai accettato di
indossare”.
Non incontro più lo sguardo di Gregory, perché
non voglio leggere la pena, la
commiserazione, lo sguardo da ‘io
soffro come te’.
Per quanto lui possa comprendere
non riuscirà mai a capire davvero cosa io provi.
“E’ molto bello” comunque dice, e non mi
sarei mai aspettato quelle parole.
“Gli sarebbe piaciuto”.
Mi ritrovo a sorridere, senza alcuna gioia, in un gesto meccanico come
sbattere
le palpebre. Gli sarebbe davvero piaciuto, forse. Non potrò
mai saperlo, e
questo sarà un altro rimpianto che mi negherà il
sonno. Non dico niente. Non ci
riesco. Sfioro ancora la scatola e il metallo freddo, gelido come ora
lo è
l’uomo a cui esso era destinato.
“Avrebbe detto di sì” Greg sussurra, e
la mano sulla mia gamba si stringe in un
pugno, in un gesto di estrema impotenza. “Non dubitare mai di
questo”.
Fa male, non fa bene. Per quanto Greg sia convinto che l’idea
di quel sì, che
l’immagine di Sherlock che
accetta quell’anello e tacitamente acconsente a legarsi a me
per tutta la vita
possa alleviare almeno un po’ ciò che provo, quel
pensiero è soltanto un
ulteriore affondo della lama che sta squarciando il mio cuore a poco a
poco.
“Non importa più, ormai” io finalmente
parlo di nuovo, ma è una voce totalmente
diversa dalla mia quella che lascia le mie labbra. “Qualunque
cosa avesse
risposto”.
Lascio la scatola accanto a Greg, sullo scalino di nuovo freddo, e non
mi volto
indietro a riprenderlo o a rivolgere un gesto di saluto a Greg.
“Non serve più a nulla” aggiungo, prima
di sbattere la porta dietro di me.
Immagino cosa sarebbe potuto succedere se Sherlock avesse deciso di
rispondere no, alla mia proposta.
Un secco rifiuto,
un freddo diniego.
Magari andrà meglio. Magari
lenirà la mia
sofferenza.
Ma nemmeno sotto quella prospettiva, il cuore fa meno male.
Quando a John
offri una piccola parte di te, lui ti ripaga con tutto
sé stesso.
Non ho mai avuto paura di nulla in vita mia.
Non ho mai avuto timore dei ragazzi più grandi a scuola,
quelli il cui maggiore
divertimento era rivolgermi minacce per farmi sentire diverso
e inadeguato; non
ne ho avuta quando ho iniettato cocaina nelle mie vene per la prima
volta,
totalmente conscio delle possibili conseguenze.
Non ho temuto niente la prima volta che ho accarezzato la morte, con la
lama di
un coltello affondata nel mio torace troppo
vicina al mio cuore.
Non avevo nulla da perdere, allora. Non m’importava della mia
famiglia, ero scappato da loro per
un motivo ben
preciso, e soprattutto non m’importava della mia stessa vita.
Morire facendo
qualcosa che amavo, che mi faceva sentire bene e, paradossalmente, vivo era la prospettiva più
bella del mondo.
Adesso, seduto sulla mia vecchia poltrona a Baker Street, quella che
John non
ha neppure spostato di un centimetro, come fosse anch’essa
una lapide
commemorativa nell’enorme mausoleo che è il 221B,
io ho paura.
Ho paura che il mio migliore amico, il mio compagno, l’unico
uomo che io abbia
mai amato possa essere cambiato. Sono spaventato, perché so
che potrebbe
rifiutarmi, non volermi mai più vedere una volta superato
quell’iniziale shock.
E, cosa più orribile, so che ne avrebbe tutto il diritto e
che non potrei
affatto biasimarlo.
Mi passa una tazza di tè, e alcune gocce finiscono
irrimediabilmente sul
piattino a causa del tremore delle sue dita. Io la afferro prima che
cada e
sfioro appena le sue dita, per sondare le acque, per capire se trovi il
mio
tocco disgustoso come in fondo
dovrebbe. Non lo fa.
Beve un sorso della sua bevanda e non mi guarda, ma anche senza
incrociare i
suoi occhi posso capire cosa stia succedendo nella sua mente.
Vorrebbe cacciarmi via, lo so bene, ma allo stesso tempo è
combattuto perché
sono tornato, e sono venuto da lui prima di chiunque altro e ho pianto
davanti
a lui come non avevo mai fatto con nessuno. Forse teme che io sia un
fantasma,
che sia un incorporeo prodotto dei suoi incubi notturni e della
conseguente
insonnia. Così rimane lì, senza aver detto
nemmeno una parola, senza aver
alzato neppure un dito su di me per lenire la sua frustrazione e dar
sfogo
all’ira rinfacciandomi quanta poca fiducia avevo avuto in lui
a non dirgli
niente.
“Vorrei ucciderti, lo sai?” mi coglie di sorpresa
pronunciando quelle parole
prima che potessi prevederlo. Chiudo gli occhi e annuisco.
“Ne avresti diritto”.
“Oh sì, ne avrei” lui dice, stringendo
le labbra fino a renderle livide. “E
anche se non lo avessi, lo farei comunque”.
Posa la sua tazza di tè sul tavolino accanto alla poltrona
perché non riesce
più a berne, e soprattutto, non riesce a tenere la mano
abbastanza ferma da
poter reggere la tazza senza versarne il contenuto. Stringe le mani in
pugni
saldi e le tiene sulle cosce, ancora fissandomi.
“Dimmi solo una cosa, Sherlock” poi mi domanda,
quando invece mi sarei
aspettato che cominciasse a sfogarsi. “E’
stato…necessario?”.
La domanda mi spiazza e non è una cosa a cui sono abituato,
nemmeno un po’. Non
succede spesso che quello che la mia mente elabora come giusta
progressione di
un discorso o di una situazione si riveli poi completamente diversa da
come essa
ha programmato. John però, è sempre un eccezione.
“Lo è stato” ammetto, ed è la
verità. Io lo so bene, lo sa Mycroft, lo sa Molly
e presto lo saprà anche John. “O non ti avrei mai
e poi mai lasciato
all’oscuro”.
John accenna un sorriso e scuote la testa, ma non capisco se
è una silente
approvazione delle mie parole o una sarcastica conseguenza al fatto che
non
creda minimamente a nessuna di esse.
Dal canto mio, so di essere nel giusto. So che gli ho aperto il mio
cuore come
non ho mai fatto con nessuno.
“Valeva la pena, quindi?” aggiunge ancora, a voce
bassa. Credo non riesca fisicamente
a parlare con tono più alto.
“Valeva la pena farmi soffrire per anni, per poi ricomparire
nell’esatto
momento in cui credevo di aver recuperato le redini della mia
vita?”.
Mi ero messo nei suoi panni per quanto avevo potuto, cercando di
immaginare
come si fosse sentito, cosa avesse provato, come fosse riuscito a
ricomporre i
pezzi della sua intera vita senza soccombere sotto il peso di ogni
ricordo.
L'avevo visto, con Mary. L'avevo visto sorridere, felice come nei
nostri giorni
insieme, sereno, ed ero tornato a
casa nel tentativo di portaglielo via senza remora alcuna.
Ma lei era arrivata in seguito.
Lei era stata solo l'ancora a cui John si era aggrappato per non affogare. Io, invece, ero sempre stato l'onda, la marea, la
corrente.
E adesso, per quanto ingiusto, sono tornato per travolgerlo ancora
senza
possibilità di salvezza.
"C'è una ragazza" John dice, come se avesse appena aperto
una
finestra sui miei pensieri. "so che lo sai".
Annuisco, negare e mentire non servirebbe a nulla, e lui sospira
combattuto
stringendo ancora i pugni tanto da farsi male.
Non so come dirgli la verità, non so come dirgli che non
m'importa, che io sarò
suo per il resto dei miei giorni e che non mi arrenderò fin
quando vivrò. Non
so come dirgli che ormai ho il suo
cuore e lo custodisco gelosamente nel mio come la cosa più
preziosa che io
possieda e che mi dispiace, che i miei sentimenti non sono cambiati e
che
nonostante ciò che gli ho fatto, credo
nel suo amore.
Lo aspetterò per tutta la vita, se sarà
necessario. Se mi concederà solo un
bacio quando entrambi saremo vecchi e stanchi, io sarò
felice.
"Lo so" esclamo, alla fine. "Lo so e non m'importa".
Non è quello che avrei voluto dire ma non ho potuto
controllare la lingua che
ormai non risponde più al mio cervello. Lui, stranamente,
non sembra colpito
più di tanto.
"Tipico di te" lui sussurra e vedo che sta cercando di mantenere la
sua voce ferma. "Tornare e accampare pretese".
Ha ragione, lo so. Non ho la forza di raccontare il motivo per cui
sento di
avere ancora tutti i diritti del mondo, perché lui neppure
lo immagina. È
normale che parli così, lo avrei fatto anch'io se lui avesse
fatto male a me
come io ne ho fatto a lui.
"Lei mi da tanto, Sherlock" dice ancora, alzandosi e dirigendosi
verso la mia poltrona. Si ferma in piedi di fronte a me e io lo fisso,
dritto
negli occhi. "Tu mi hai dato solo dolore, incubi e notti passate a
chiedermi perché".
Chiudo gli occhi e capisco che il tempo del silenzio sta per finire.
Tocca a
me, in quel momento. Ho paura, ma devo farlo.
"John" bisbiglio, lieto che questa volta ci sia davvero lui ad
udirlo.
"Ti vedo cadere" lui mi dice, interrompendomi. "Ogni santa
notte, quando chiudo gli occhi. Cadi e giaci lì, senza
rialzarti".
Mi ricordo quando Mycroft mi lasciò gli appunti della sua
terapista, pieni di
note scarabocchiate su mancanza di fiducia e predisposizione al
somatizzare le
proprie angosce.
"Mi dispiace" dico, non posso aggiungere niente di più di
questo.
"Io non avrei mai voluto arrivare a questo".
"Ma ci sei arrivato" è la sua risposta. "E ora vieni qui e
mi
chiedi di...dimenticare gli ultimi tre anni".
I suoi occhi sono lucidi adesso, segno che la sua buona
volontà sta vacillando
pericolosamente vicino ad un punto di non ritorno.
"Sì" dico. Nessun'altra parola avrebbe lo stesso impatto,
per me. Sì sì
sì vorrei che tu dimenticassi e mi
dicessi che mi ami come il giorno in cui ti ho lasciato.
La sua espressione è colma di ironia e frustrazione,
visibilmente sorpreso
della mia schiettezza.
"Oh" esclama. "certo".
Rimane ancora lì in piedi e non aggiunge altro, il che, da
un lato, mi fa ben
sperare. Mi illude che voglia sentirmi parlare ancora, che voglia
essere convinto, che abbia bisogno
che io gli
dia la sicurezza che questa volta andrà tutto per il verso
giusto.
“Cos’hai da darmi, Sherlock?” poi mi
domanda, abbassando lo sguardo e tirando
su col naso. Si impone di trattenersi ancora, anche se io vorrei
davvero che si
sfogasse, che mi sputasse addosso tutto il suo odio e il suo
risentimento.
Mi ha chiesto cosa ho da offrirgli. Penso, penso a ciò che
sono adesso e non
trovo una risposta abbastanza soddisfacente da potergli dare. Sono
ancora un
uomo morto, e come tale io non esisto più.
Sono indebolito, il mio volto è segnato inevitabilmente da
ciò che ho dovuto
passare e non ho nessuna sicurezza, nessuna garanzia, nulla di prezioso
o
significativo abbastanza da spingerlo a lasciare quella donna e la
sicurezza di
un rapporto sereno, per ritornare ad una vita imprevedibile e instabile
con me.
Decido di rispondere con l’unica cosa che davvero posso dire
con certezza, con
l’unica sicurezza che possiedo in quel momento.
“Io non ho niente” dico, senza staccare nemmeno per
un momento gli occhi dai
suoi. “Ho solo quel che resta del mio cuore. Ed è
tuo”.
Lui respira profondamente, come se qualcuno gli avesse messo le mani al
collo e
lui non riuscisse a respirare correttamente. Rilascia finalmente i
pugni e i
suoi palmi riposano contro le cosce tese, ancora tremanti. Il suo
silenzio
alimenta la mia paura, ravviva quel fuoco di terrore che rischia di
bruciare
ogni mia speranza, convincendomi che è finita, che non
tornerà mai, che siamo
giunti alla fine della corsa. Che qualunque cosa fosse esistita tra noi
è ormai
destinata a rimanere qualcosa di passato, antico, dimenticato.
Prima che possa accorgermene, prima che possa anche solo trasformare in
parole
una qualunque delle mie paure, lui frena ogni mia possibile mossa.
Si muove e mi sovrasta con il suo corpo senza che io possa comprendere
prima cosa
stia per fare, portando un braccio a cingermi le spalle e una mano ad
attirare
il mio viso al suo.
Baciarlo dopo tanto tempo è come raggiungere
un’oasi in pieno deserto, come
tornare a respirare dopo ore ed ore sott’acqua, come tornare
a vedere la luce
dopo aver percorso un sentiero oscuro. Mi sento così bene che ho timore che sia tutto un sogno
e che presto mi sveglierò
da solo in un albergo a Lhasa.
Le sue labbra sono esattamente come le ricordavo, come tante volte le
avevo sognate
e desiderate. Il bacio è esigente ma a me va bene
così, come se John volesse
recuperare in quella sola sera anni e anni di dolorosa mancanza. La sua
lingua
si intreccia con la mia e scivola nella mia bocca esattamente dove lui
sa, non
lo ha mai dimenticato, mi piace sentire la sua carezza. Le sue mani
vagano nel
frattempo, passando dalle spalle ai miei capelli, stringendoli con
dolce foga,
fino a scendere alle mie braccia e alle mie mani, che intreccia
saldamente con
le sue.
Mentre ancora mi bacia, la mia testa prende a girare vorticosamente per
l’euforia e la felicità di quel momento, e
approfondisco ancora il bacio,
affamato di John come non mai.
Improvvisamente sento qualcosa di umido scivolare tra i nostri volti e
mi
accorgo che sta piangendo, il suo petto scosso da singhiozzi
silenziosi. Non mi
separo da lui né lo spingo a dirmi cosa non va o qualunque
altro inutile
convenevole, ma mi limito ad abbracciarlo, a tenerlo stretto a me come
un
bambino da consolare. Alla fine le nostre labbra si separano e lui
affonda il
viso contro la mia spalla, bagnando la mia camicia e stringendo i pugni
intorno
alle maniche, con forza.
“Ti amo, John” sussurro contro i suoi capelli.
Bacio poi la sua fronte, mosso
dall’amore più forte
che io abbia mai
provato. “Ti amo e tu mi stai dando più di quanto
avrei mai potuto desiderare”.
Lui singhiozza ancora, contro la mia spalla, ma alza finalmente lo
sguardo.
L’espressione nei suoi occhi mi fa male ma allo stesso tempo
mi rasserena, mi
solleva, mi fa sentire bene come non succede ormai da troppo tempo. I
suoi
occhi sono rossi e umidi di pianto, ma sulla sua bocca
c’è il bocciolo del
primo vero sorriso che avessi visto quella sera sulle sue labbra.
“Mi basta, sai, Sherlock?” riesce a sussurrare, la
voce roca e instabile.
“Perché insieme a ciò che resta del mio
potremmo ridar vita ad un solo cuore”.
E’ la cosa più bella che mi abbia mai detto, e
finalmente non ho più paura. Ho
temuto tanto e, per la prima volta in vita mia, ho pregato altrettanto
intensamente perché tutto potesse andare bene. John
è l’unico per cui io
l’abbia mai fatto e sarà, probabilmente,
l’unico per cui mai lo rifarò.
“Uno basta” mi ritrovo a dire, mentre lui cerca di
nuovo le mie labbra. “In
fondo, i nostri, sono
sempre stati un cuore solo”.
Nessuno dei due parla ancora e qualcosa mi dice che non lo faremo
neppure per
quel che rimane della sera. Ci sarà tempo per parlare, per
spiegare, per rimettere
a posto ogni più piccolo tassello del puzzle, ma non
è questo.
Pian piano sento John soccombere alla stanchezza di quella sera,
finalmente
sereno, finalmente libero da tutte le angosce e i rimorsi che lo
avevano
tormentato nei giorni passati. Mi dispiace per Mary, e mi sorprende il
fatto
che io abbia pena per lei davvero, ma
John è destinato a me come lo è sempre stato in
passato e sempre lo sarà.
Respira dolcemente, ancorato al mio corpo e rannicchiato contro il mio
petto, e
non m’importa se domani mi sveglierò dolorante e
indolenzito: non ho intenzione
di muovermi, non ho intenzione di fare assolutamente nulla se non
guardare il
viso del mio John per tutta la notte.
Forse sognerà ancora, e probabilmente accadrà a
breve, quando il sonno diverrà
più profondo, ma sono pronto ad affrontare
quell’eventualità.
Probabilmente sarò io il protagonista di quel sogno, come
succede ogni giorno.
Probabilmente cadrò
ancora questa
notte, ma stavolta non giacerò in terra inerme e in una
pozza di sangue scuro.
Non rimarrò fermo mentre lui stringerà il mio
polso alla ricerca di un battito
inesistente.
Questa volta, io aprirò gli occhi e afferrerò la
sua mano.