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Autore: Opalix    03/08/2007    16 recensioni
“Ai miei tempi sono stata chiamata in molti modi: sorella, amante, sacerdotessa, maga, regina. Ora in verità sono una maga e forse verrà un giorno in cui queste cose dovranno essere conosciute. Ma credo che saranno i cristiani a narrare l’ultima storia…” Marion Zimmer Bradley – “Le nebbie di Avalon”.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Draco/Ginny
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
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Dunque siamo arrivati alla fine. Mi dispiace per averci messo più del previsto, ho un pessimo rapporto con i finali, sia emotivamente che a livello “tecnico”, quindi abbiate compiacenza. È stato un capitolo piuttosto difficile da scrivere, come vedrete è abbastanza complesso far quadrare tutto senza ambiguità… e comunque gran parte di ciò che leggerete è tale per merito (o colpa) della mia efficientissima beta, Chiara-Spugnetta-Kid-Weasley.
Buona lettura!

CAPITOLO 12: PHOENIX TEARS

Capisci, Sabine? Non hai colto l’avverarsi della profezia?
“L’isola di smeraldo nasconde il segreto che solo il dolore potrà avvicinare.”
Colta alla sprovvista dal centauro che, senza rendersene conto, si era rivolto a lei con il suo vero nome, Ginny aveva risposto con la prima parola che le era venuta in mente: “Io sono dolore.”
Myosotis. Il piccolo unicorno azzurro… era lui il segreto. E ancora: era lui la luce, quella che ci avrebbe salvati… ma a che prezzo, bambina mia, a che prezzo!
E nel frattempo, era arrivata la notte… e io sapevo, non so come, dove avrei trovato colei che cercavo. Guidata dalle ali nere del drago che volava sul cielo di Hogwarts, come a pattugliarne instancabile le torri, raggiunsi l’entrata del Giardino dei Fiori Notturni.

Philippe: “Are you flesh, or are you spirit?”
Isabeau: “I am sorrow.”
From “LadyHawke” (film, 1985)

Hermione varcò la soglia floreale del giardino, ascoltando il tenue e armonioso ronzio prodotto dai fiori scarlatti che pendevano, muovendosi languidamente nell’aria notturna, sulla sua testa. Sul verde scuro della vegetazione spiccava una macchia di chiarore azzurrognolo, immobile, eppure pulsante di vita; avvicinandosi attraverso il tunnel Hermione riuscì a riconoscere la forma di un giovane unicorno, accucciato ai piedi dell’altalena che cigolava pigramente. Sull’altalena, le gambe raccolte al petto, stava la figura pallida di Ginny, i capelli ormai lunghissimi che cadevano come una cascata insanguinata sul candore del vestito. Al suono dei suoi passi, Ginny scese dall’altalena con un movimento aggraziato e le corse incontro; l’unicorno si alzò a sua volta e mosse qualche passo con la sua andatura regale ed elegante, quasi volteggiasse invece di camminare… il corno emanava bagliori argentati alla luce della luna, oltre la spalla di Ginny.
Hermione abbracciò stretta l’amica – la sorella – mentre un nodo di lacrime, bloccato in gola, le impediva di parlare. Era magra Ginny, magra e gracile come una sottile ballerina di vetro soffiato; l’ampia veste dalle cintura intrecciata di pelle di cervo che si annodava sul fianco, tipica dei maghi irlandesi, nascondeva la sottigliezza della sua vita, ma non la fragilità delle sue spalle nude, bianche quasi quanto la veste. Gli occhi scuri non erano cerchiati o gonfi, ma la pelle attorno alle lunghe ciglia era così traslucida e sottile da lasciar intravedere le minuscole vene azzurrine.
“Non mi dona la vita notturna, vero?” ironizzò, notando con quanta accortezza Hermione la stesse fissando.
“Oh, Ginny…” mormorò Hermione, senza sapere se ridere o piangere.
Rimasero in silenzio per un po’, camminando nell’erba alta fino al gazebo. Myosotis le seguì a pochi metri di distanza, quasi che volesse vegliare su Ginny ma non si fidasse abbastanza dell’altra ragazza per avvicinarsi di più.
“L’ultima volta che sono stata qui, questo luogo era pieno di fiori bianchi…” mormorò Ginny. Anche la sua voce era cambiata, più roca, più sommessa… come se non fosse più abituata ad usarla. Hermione, nonostante l’emozione di rivedere l’amica, viva, se non in salute, non riusciva a distogliere gli occhi dal giovane unicorno che si stava accucciando di nuovo vicino ai piedi di Ginny.
“Ginny… lui…”
Ginny sorrise, debolmente.
“Lui è la luce… è quello per cui il fato mi ha spedita in Irlanda. Non so quale sia il suo destino, ma so che è necessario per chiudere il cerchio. Amica mia, ti presento Myosotis.”
Myosotis.
Non ti scordar di me.

Un rintocco lugubre di campane sembrò scandire quelle poche sillabe – cinque parole che erano un nome e, insieme, una preghiera. Le parole gracchianti di Calì fecero da eco a quella sensazione viscida e fredda che le stava mozzando il respiro, la sensazione che fosse tutto deciso, che non ci fosse nulla di rimasto da fare… se non aspettare. E ricordare.
No… non dimenticheremo quel sangue. Non ci dimenticheremo di lui.
“Non ti scordar di me…”
C’era tanto dolore, tanta angoscia nel mormorìo di Ginny, che Hermione non trovò il coraggio di parlare. La rossa allungò una mano e l’unicorno spinse il muso elegante sulle sue dita, lasciandosi sfiorare dalla carezza leggera. Era un gesto così intimo, così dolce, che per un istante Hermione si sentì quasi di troppo in quel giardino fatato, circondato da secolari rampicanti, pieno di profumi che la notte amplificava, illuminato dall’intermittente danzare delle fate tra le foglie e, ora, dal chiarore ultraterreno dell’unicorno.
“Il Giardino di Isanhild non si è più aperto mentre eri via, Ginny… ormai è diventato il tuo giardino, è a te che risponde.”
Ginny sollevò il viso e aspirò il profumo dolciastro delle campanule rosse, persa in ricordi segreti che Hermione non avrebbe mai condiviso. Lo scintillìo delle fate sui suoi capelli, li accendeva di bagliori di fuoco, lo stesso riflesso ardente delle piume della fenice… non sembrava più nemmeno completamente umana.
“Tutto è cominciato qui…” mormorò, abbracciando con lo sguardo la volta di foglie del gazebo, con i suoi riccioli di ferro battuto. Sul pavimento e sul sedile dell’altalena c’erano ancora le coperte che Draco aveva lasciato lì, più di un anno prima. “Tutto sta per finire, in un modo o nell’altro, giusto?”
Hermione la osservò per qualche istante, cercando di scegliere il modo per dirle ciò che stava per accadere. Maledizione, ma perché doveva toccare sempre a lei?!?
“Mi sei mancata così tanto…” Le parole rotolarono fuori dalle labbra di Ginny, e passò un istante prima che Hermione si rendesse conto di non averle pronunciate lei stessa, tanto facevano eco ai suoi stessi pensieri. “Anche tu. Prima Ron. Poi tu… mi sentivo così sola…”
Era dannatamente ingiusto, da parte sua, e lo sapeva. Ginny era stata davvero sola laggiù in Irlanda, senza nessuno al suo fianco se non il ricordo di un ragazzo il cui cuore batteva, incatenato da una maledizione crudele, nella bestia feroce che volava sulle loro teste. Lei aveva vissuto solo metà della sua vita in quell’anno maledetto, la metà oscura, senza la compagnia di nessuno. Ed Hermione non riusciva a trovare di meglio che frignare di essersi sentita sola? Ma Ginny sorrise, con dolcezza, sorprendendola ancora. “Mi mancava anche Ron. Non avevo nessuno a parte il cavallo con cui parlare.”
“Ginny…”
La voce si ruppe nella gola di Hermione, che dovette respirare forte e schiarirsi la voce.
“Ginny, ne valeva la pena? Ne valeva la pena per lui?” le chiese.
Questa volta la rossa non sorrise. “Hermione che stai dicendo…?”
“Ti sto chiedendo se tutto quello che hai passato… se ne è valsa la pena. Devo saperlo, o non posso andare avanti” ribadì, mentre il tono di voce si faceva più sicuro.
“Hermione…” sospirò Ginny, “non ho avuto scelta! Se anche non l’avessi amato, il mio destino era questo.”
“No. Se tu non l’avessi amato, tutto questo non sarebbe successo: la maledizione non avrebbe funzionato, tanto per cominciare.”
“Allora hai già la tua risposta, non credi?”
“No… ti sto chiedendo se lo ami, adesso.”
“E come potrei aver smesso?” Ginny si alzò in piedi e la sua fragilità sembrò scivolarle dalle spalle come un mantello leggero: improvvisamente sembrò alta, lontana e luminosa quanto la luna stessa. “Sai già la risposta, Hermione. Perciò dimmi dove vuoi andare a parare.”
Hermione sospirò, frugando nella tasca dei jeans; un bagliore color sangue sfuggì alle sue dita prima che la mano si aprisse rivelando un piccolo pugnale d’argento dall’impugnatura tempestata di piccoli rubini. La finitura dell’oggetto era delicata e ricordava un groviglio di rami d’edera intrecciati; la fine cesellatura e il filo perfetto della lama non lasciavano alcun dubbio sulla provenienza del pugnale: era un manufatto praticamente senza prezzo, dalle misteriose caratteristiche magiche.
“Argento dei goblin” commentò Ginny, “Dove l’hai preso?”
“Draco. Me l’ha dato oggi.”
Un lampo di dolore, di invidia rabbiosa ed impotente, passò negli occhi scuri di Ginny. Era tremendamente ingiusto, era un’eresia che lei, Hermione, avesse potuto vedere Draco, guardarlo negli occhi e sentire la sua voce, mentre a Ginny questo era negato da tanto tempo, così tanto tempo... è strano come la gente pensi che il tempo sia tanto quando “non si può più contare”: Ginny avrebbe potuto dire, lì su due piedi, il numero esatto delle lunghissime notti che erano passate da quella notte, l’ultima in cui era stata con Draco.
“Come… come sta?” chiese Ginny con voce tremolante. La domanda sarebbe suonata sciocca senza quel desiderio, quella dolcezza infinitamente triste nascosta in quella pausa imbarazzata tra le parole.
“Come te,” rispose semplicemente Hermione, e in quelle poche sillabe c’era racchiuso tutto ciò che Ginny voleva sapere. “Non vuoi sapere perché mi ha dato quest’arma?”
“Sono cresciuta tra le superstizioni dei maghi, Herm. L’argento, in particolare l’argento forgiato dai goblin, è l’unico metallo in grado di uccidere lupi mannari, vampiri, salamandre… e fenici. Le fenici non possono risorgere dalle proprie ceneri se ad ucciderle è stata una lama d’argento.”
Lo sguardo di Ginny si era fatto lontano, come se le parole terribili che aveva appena pronunciato non la riguardassero, fossero una semplice lezione imparata a memoria. Hermione sospirò.
“Ci sarà un’eclisse domani, Ginny… una notte senza il giorno… è domani che la profezia potrebbe avverarsi, è domani che tu e Draco potreste trovarvi di nuovo in forma umana, entrambi, per sfidare chi ha formulato la maledizione.”
La rossa spalancò gli occhi e scrutò Hermione, il cui viso risplendeva, pallido e preoccupato nell’ombra, illuminato soltanto dal chiarore di Myosotis che si rifletteva sulla lama lucente nella sua mano.
“E allora… perché…”
“Durante l’eclisse gli incantesimi che proteggono Hogwarts si romperanno: il castello sarà vulnerabile. È già successo in passato. Dobbiamo aspettarci un attacco in quelle ore.” Hermione spalancò la bocca cercando inutilmente le parole, poi la richiuse e strinse le labbra con forza prima di bisbigliare “Draco sarà là per affrontare suo padre, Ginny. Se tu non riprendessi forma umana, o se la maledizione non potesse essere spezzata… e lui fosse morto…” deglutì a fatica, mentre gli occhi le si riempirono di lacrime. “Lui non vuole che tu sia imprigionata per sempre in questa vita a metà.”
Ginny annuì e abbassò la testa, celando il suo viso dietro la cortina di morbidi capelli rossi.
“Ginny…”
“Ho capito.”
“Ginny, è per questo che ti chiedevo se ne è valsa la pena per lui!! Lui non ha il diritto di prendere questa decisione per te! Non ha il diritto di… di chiedermi questo!”
Hermione stava piangendo senza ritegno e Ginny alzò lo sguardo.
“Ne ha il diritto, Hermione. Se tu morissi e non potessi prenderti più cura di Ron, vorresti che rimanesse per sempre in quel letto, eternamente addormento, senza nemmeno più la speranza di poterti vedere al risveglio?”
“Ginny… no! No, io… ma non posso!”
“Puoi. Amare una persona significa sopportare il peso delle decisioni che si prendono anche per lei. E forse è vero, hai ragione, lui non ha il diritto di chiedere a te di uccidermi se le cose dovessero andare male. Ma io? Io ho il diritto di chiederti questo favore, amica mia?”

“Morire, dormire, sognare forse…”
Shakespeare
“Amleto”

E fu dalle alte finestre profilate di ferro battuto della grande sala di Hogwarts, che osservammo, spaventati ma determinati, il sole oscurarsi, l’aria diventare fredda e densa di paura come all’arrivo di un dissennatore… ma era la nostra paura a mozzarci il fiato, non una paura creata da oscuri spiriti, era una paura reale, tangibile: la paura per l’uomo o la donna al nostro fianco, la paura di poterlo guardare in viso per l’ultima volta in quella livida penombra che sapeva di morte e catastrofi. Sentimmo gli scudi magici che proteggevano Hogwarts, vibrare come lunghissime corde di un’arpa, l’aria tremò, e infine capimmo di essere, per la prima volta, indifesi…
Si, tesoro, c’ero anch’io quel giorno. Dovevo esserci, capisci?
Avevo portato Ron nel sotterraneo, protetto dagli stessi incantesimi che, lo sapevo, sarebbero svaniti durante l’eclisse, ad Hogwarts come nella casetta. Non c’era speranza di proteggerlo meglio di così. Del resto l’eclisse non sarebbe durata in eterno… e se Hogwarts fosse caduta… Ginny aveva ragione, no?Come potevo chiedere che Ron restasse in vita quando non c’era più alcuna speranza per noi in questo mondo?
E così anche io ero là, in prima fila al fianco di Harry. Al mio posto. Nella mano la bacchetta che mai mi aveva tradito in quegli anni, e in tasca sentivo il peso del coltello d’argento attorno al quale Draco aveva stretto le mie dita.
All’oscurarsi del cielo il pianto della fenice risuonò una volta, colmo di malinconia e attesa, tra le torri del castello. E poi accadde: ombre nere si materializzarono nella stanza, circondandoci, e i lampi rossi degli schiantesimi illuminarono l’enorme sala. E fu soltanto urla e luce, per un tempo che a noi sembrò eterno.

“Fire falling from the sky
Rage of god is coming down
Armaggeddon's drawing nigh
Sinner cry ! Heathen die !”
“The Seven Angels” from “Avantasia – The Metal Opera, part II” (2002)

Ginny corse lungo il corridoio, sfiorando appena il pavimento, quasi che avesse ancora ali piumate al posto delle braccia; il vestito candido si impigliò nella lancia imbracciata da una vecchia armatura, strappandosi, ma lei nemmeno se ne accorse.
Arrivata alla sala grande si fermò ansimante sulla soglia, osservando la scena della battaglia con il terrore negli occhi. Draco era lì, proprio davanti a lei. I lunghi capelli biondi ondeggiarono nell’aria, mentre il braccio eseguiva un movimento circolare ed elegante per portare la bacchetta, ferma nella mano destra, in posizione di attacco: di fronte a lui, Lucius Malfoy era crollato in ginocchio ansimante, il petto squarciato per tutta la sua lunghezza da un taglio netto e profondo, negli occhi l’espressione di un folle che, nonostante tutto, ha capito di essere arrivato al traguardo.
“Perché, padre…” sillabarono le labbra secche del ragazzo, “Perché?”
Lucius rispose con una risata gorgogliante di sangue e un bagliore di pazzia scintillò negli occhi in cui quelli del figlio si rispecchiavano alla perfezione. Tutta la nobiltà di portamento, la fine eleganza che contraddistingueva il suo casato, sembrava essere scivolata via da quel volto distorto da una follia omicida ed insensata. Merlino… a questo aveva portato quell’odio, quella guerra, quell’ossessione per la purezza del sangue che un tempo, nella sua mente di bambino, Draco aveva condiviso! Il viso di Draco si contorse in una smorfia di doloroso disgusto, e la mano si strinse, ferma, attorno alla bacchetta: sapeva quel che doveva fare, ci aveva pensato per un anno, un mese e un giorno… aveva atteso quel momento. Ma non aveva resistito alla tentazione di chiedere perché. Perché, maledizione, perché mi costringi a fare questo?
“Draco!” strillò Ginny, lanciandosi verso di lui.
Gli occhi grigi e freddi di Draco si staccarono per solo un istante da ciò che rimaneva del padre, e si spalancarono come per raccogliere in un solo sguardo l’intera immagine di Ginny – la sua Ginny - che gli correva incontro. I suoi lineamenti duri e impenetrabili erano più adulti dell’ultima volta che l’aveva visto, ragazzo cresciuto troppo in fretta, tra i fiori magici del giardino… un taglio si apriva sullo zigomo, e gocce di sangue rotolavano sulla guancia, come lacrime, per cadere e perdersi sulla stoffa nera del mantello. Senza bisogno di parlare, solo con ciò che i loro occhi riuscivano a dire gli uni agli altri, in silenzio, Ginny gli si aggrappò al collo per non cadere mentre la mano destra si posava su quella di lui che impugnava la bacchetta.
Insieme. In forma umana.
Lucius Malfoy emise ciò che avrebbe dovuto essere un grido, di delusione e di rabbia divorante nel vedere lei, nel vederli insieme, davanti a lui, vivi. Cercò di rimettersi in piedi e puntare la bacchetta verso il figlio che lo aveva sfidato e che aveva deluso lui e l’intero casato, secondo il suo pensiero ormai distorto… ma Ginny lo prevenne. “Stupeficium!” gridò, e la bacchetta di Draco rispose al suo comando come avrebbe risposto a quello del suo legittimo proprietario. Lo schiantesimo lanciò il mangiamorte qualche metro indietro, mandandolo a cadere di schiena sui gradini; sbattè la testa sulle pietre e giacque, finalmente immobile, mentre una pozza di sangue scuro si allargava velocemente tra i capelli biondi.
Draco si irrigidì, espirò pesantemente e chiuse gli occhi per un istante. Era finita. Era sua padre… ma era un assassino, un uomo in grado di condannare il proprio figlio, il proprio stesso sangue ad una vita maledetta, dimezzata, per sempre. Era un pazzo, un folle omicida. Era morto, l’avevano affrontato insieme e l’avevano vinto. Morto.
Erano liberi.
Strinse Ginny a sè, incredulo di rivederla di nuovo, e in quel momento un chiarore azzurro illuminò le loro figure abbracciate: Myosotis, che aveva seguito Ginny nel castello, era fermo sulla porta della stanza, gli zoccoli argentei immersi, come un triste presagio, nel sangue di Lucius Malfoy.

La stanza sembrò pietrificarsi. Il chiarore dell’unicorno illuminò, pulsante, l’intera sala ed ogni uomo, donna o cadavere che si ammassava in essa: le bacchette si abbassarono e mille occhi si spalancarono, sconvolti. Un unicorno… la creatura più pura, più innocente, la creatura che più di tutte aborriva la violenza, l’odio e la malvagità di cui quel luogo era impregnato fino alle fondamenta, di cui quelle pietre, scure nella penombra, ormai sembravano imbevute. Un unicorno era lì, in quella sala, la testa elegante sollevata come in un gesto di naturale orgoglio, senza paura, gli occhi intelligenti spalancati e colmi di qualcosa che somigliava molto alla pietà.
Lo splendore fuori posto di quella bestia incantevole sembrava aver pietrificato tutti… tutti, tranne lui.
Ginny guardò con orrore il viso deforme dell’Oscuro Signore sconvolgersi in una selvaggia risata, incurante del chiarore sovrumano di Myosotis al cui confronto la sua pelle appariva grigia, quasi verdastra. Ai suoi piedi, Harry si contorceva, piegato da una Cruciatus; la camicia, strappata sulla schiena e sul petto, era inzuppata di sangue e anche il viso distorto dal dolore era ricoperto di tagli. Luna, in lacrime, era trattenuta da due mangiamorte, costretta a non volgere il viso davanti alle torture del suo Harry Potter.
Probabilmente Voldemort non sapeva che gli Horcrux erano stati distrutti. Tutti.
Probabilmente non sapeva di non potersi permettere di giocare al gatto col topo, con Harry. Perchè era proprio quello che stava facendo, stava giocando: stava dimostrando di essere un mago migliore, anzi il miglior mago vivente; stava provando a tutti coloro che avevano osato dubitarne di poter giocare con quel piccolo, arrogante ragazzino che si era permesso di mettersi in mezzo alla sua scintillante strada verso il potere e l’immortalità. Poteva torturarlo e godere del suo dolore, finalmente.
Probabilmente Voldemort non sapeva. Ma in fondo non importava perché stava comunque vincendo, a quel dannato gioco: aveva ridotto Harry ad un ammasso dolorante e coperto di sangue, che difendeva quel brandello di vita con la forza della disperazione, nemmeno più in grado di muovere correttamente la bacchetta.
Perchè, dannazione! Non era così che doveva andare!
Harry avrebbe dovuto avere qualcosa, qualcosa in più che gli avrebbe permesso di sconfiggere Voldemort! Avrebbe dovuto vincere!
Come se avesse udito i pensieri di Ginny, o forse attratto da qual chiarore che sembrava emanare pace e dolcezza, Harry alzò la testa incontrando prima lo sguardo di lei, poi quello pietoso e buono dell’unicorno alle sue spalle. Il verde incredibile dei suoi occhi sembrava più vivido che mai in quella luce, e c’era qualcosa in quegli occhi, qualcosa che implorava. Aiuto, perdono… o forse entrambi.
Proprio in quel momento Voldemort puntò deciso la bacchetta verso il suo corpo raggomitolato e sulle sue labbra piatte iniziarono a formarsi le sillabe dell’anatema che uccide. Era finita. Quasi ne fosse consapevole, le palpebre di Harry si chiusero.
“Nessuno può aiutarti, Potter. Dobbiamo salutarci, finalmente. Avada Kedavra!”

Il rumore degli zoccoli aveva risuonato argentino contro le pietre della sala, nella breve, velocissima corsa di Myosotis verso Voldemort. La luminosità che la creatura emanava si era intensificata, diventando quasi accecante, come l’ultimo bagliore agonizzante di una stella che muore.
Ginny aveva urlato. Uno strillo acuto, incredibilmente straziante, che aveva riempito la sala, accompagnando l’impennarsi dell’unicorno davanti alla bacchetta del più grande mago oscuro di tutti i tempi… un unicorno rampante che l’anatema che uccide colpiva, implacabile, in pieno petto. E poi, nel breve silenzio che segue il tonfo sordo di un corpo morto che cade a terra, la luce si spense.

Il singhiozzo di Ginny echeggiò nella sala ammutolita, seguito dal breve grido, soffocato e disumano, di Voldemort, che crollava quasi in ginocchio, le mani convulsamente schiacciate sulle tempie.
Aveva ucciso un unicorno: il sangue scintillante di quel sacrificio, come argento liquido, usciva dalla bocca semiaperta dell’animale, allargandosi in una pozza di luce sulle pietre. Calì gridò, portandosi le mani agli occhi come se la luminosità di quel sangue la stesse accecando.
Il sangue brilla…!
Voldemort schermò con una mano gli occhi rossi da serpente e si risollevò per puntare nuovamente la bacchetta contro Harry. Non si sarebbe arreso. Schiavo della sua stessa follia, non sarebbe mai, mai, riuscito a cogliere il senso e l’entità del particolare potere racchiuso in un sacrificio. La comprensione di quella magia avrebbe continuato a eluderlo, spingendolo a compiere, ancora e sempre, lo stesso errore.
“Avada Kedavra.”
Harry sollevò gli occhi tristi sulla luce verde che lo stava investendo, come in attesa… ma la luce non arrivò mai a toccarlo: un calore diffuso e sovrumano sembrò avvolgerlo come uno scudo, fu invaso da una serenità silenziosa e rassicurante, in cui nulla importava se non il riflesso lontano di quella luce verde che si avvicinava, per poi rimbalzare immediatamente e allontanarsi nella stessa direzione da cui era venuta. Ancora una volta.

Quando riuscì di nuovo a vedere il mondo reale e a sentirne tutto il devastante dolore, Harry sollevò la testa e le spalle con uno sforzo sovrumano, e si ritrovò al centro di una sala scura, muta e immobile, colma di cadaveri coperti di neri mantelli e maschere argentee, piena di persone che amava… vive, e in lacrime. A separarlo dal corpo immobile di Lord Voldemort c’era la sagoma elegante e composta di un unicorno: era così bello, anche nel gelo della morte, che si sarebbe potuto dire addormentato, non fosse stato per quel sangue denso ed argenteo che gli usciva dalla bocca, quel sangue dagli straordinari poteri per cui tanti uomini non avevano esitato ad uccidere. Vicino a quel candore immobile, il corpo di Lord Voldemort sembrava un viscido verme nero e velenoso, un ammasso di resti immondi che contaminava ogni cosa, anche nella morte.
La vita aveva abbandonato quel corpo.
E non esistevano più Horcrux per conservare intatta quella coscienza, quell’essenza che l’aveva mantenuto in una parvenza di vita più di vent’anni prima.
Era morto.
Lord Voldemort era finalmente, innegabilmente… morto.
Harry fissò quegli occhietti rossi, iniettati di sangue e di malvagità, fissi nel nulla, con ancora i riflessi di quella verde maledizione che aveva inflitto così tanti lutti a così tante famiglie… e che aveva avuto la meglio su di lui, alla fine. Soltanto la magia nera intrisa della sua malvagità manteneva intatto quel corpo che avrebbe dovuto decomporsi da tempo. Harry puntò la bacchetta contro il cadavere e mormorò: “finite incantatem.”
E ciò che era stato Lord Voldemort svanì in una piccola nube di polvere.

“Siamo vivi, pesti e sepolti ma vivi. E da fuori giungono i rumori di chi sta scavando per estrarci dalle macerie.”
Giorgio Faletti
“Io uccido”

Con un debole sospiro, accompagnato dall’ululato di dolore dei mangiamorte ancora in vita, Harry si accasciò contro la schiena ampia e morbida del cadavere di Myosotis. Le macchia di sangue sui brandelli di camicia erano ormai grumi gocciolanti e ciò che restava della pelle di Harry era pallido come la morte. Luna si divincolò e gli fu accanto, mormorando parole confuse tra le lacrime e i singhiozzi; Harry le prese la mano e tentò di stringerla tra le dita. Stava morendo; ed era troppo debole anche per dirle addio.
Il frusciare di una veste sul pavimento lurido, accanto a loro, costrinse Harry e Luna a sollevare il viso. Ginny si era avvicinata in silenzio, con una mano accarezzava il fianco ormai freddo di Myosotis, ma il viso era rivolto verso di loro, con i grandi occhi scuri pieni di lacrime e di pietà.
“Non vedo più nulla…” mormorò Harry, a voce così bassa che soltanto le due ragazze al suo fianco riuscirono ad udirlo, “eppure l’eclisse dovrebbe essere finita…”
Era vero. L’eclisse si stava allontanando, e un vago chiarore ricominciava a riempire la stanza: ci sarebbero voluti alcuni minuti prima che il giorno ritornasse di nuovo tale.
Anche Hermione si avvicinò e crollò in ginocchio accanto all’amico, trattenendo un singhiozzo con la mano premuta sulle labbra.
“Mi dispiace…” mormorò Harry, guardando il viso di Luna, sconvolto dal pianto.
“No! No…” Luna scosse la testa, lanciando occhiate imploranti a Ginny ed Hermione, gli occhi azzurri spalancati dal terrore, “No! Ti prego…”
Ginny chinò il capo, e lasciò che le lacrime scorressero copiose sulle sue guance; alle sue spalle Draco, si era avvicinato e le aveva posato una mano sulla spalla, in un gesto di conforto. Mentre alzava il braccio per andare a stringere quella mano, una lacrima scivolò via, brillando nella luce che sorgeva di nuovo, per cadere sul petto squarciato di Harry.
La ferita sfrigolò come colpita da gocce di olio bollente, Harry si inarcò, la bocca spalancata in un muto grido di dolore, e poi… più nulla. Ci fu soltanto lo strillo sconvolto di Luna e di Hermione quando videro che, sotto le macchie di sangue rappreso, la pelle di Harry era pulita e intatta, come se non fosse mai stato ferito. Harry riprese a respirare e decine di paia di occhi si puntarono sulla figura bianca di Ginny.
“le lacrime della fenice…” fu il mormorio confuso che percorse la sala, mentre Ginny si alzava e abbracciava stretto il ragazzo biondo alle sue spalle.
In quel momento i raggi di un sole più splendente che mai inondarono la grande stanza e Ginny alzò il viso verso di essi, assaporando ad occhi chiusi la calda carezza che non sentiva da più di un anno; una gioia incredula le pulsava nel cuore, e le braccia di Draco la stringevano, viva e umana.
Quando aprì gli occhi, la luce dentro la sala era così abbacinante da costringerla a chiuderli di scatto e riaprirli più lentamente. Ma non erano solo i suoi occhi abituati all’oscurità a non sopportare la luminosità del sole: tutti i presenti si schermavano il viso con le mani. I raggi si riflettevano sulla piccola pozza di sangue argenteo dell’unicorno, come su uno specchio in grado di amplificarne mille volte l’intensità. I bagliori riflessi sembravano scorrere sulle pietre del pavimento e delle pareti, inondandole di luce bianca e accecante.
La luce di cento stelle brilla in quel sangue! Fa rivivere le fondamenta del mondo!
Myosotis… era la luce. La luce che aveva salvato la vita di Harry. La luce che Ginny aveva portato con sé dall’Irlanda. La luce che si era spenta. Ma il suo sangue continuava a brillare e riportava alla vita le fondamenta annerite del mondo, del loro mondo: di Hogwarts.
Mentre lo stupore sembrava aver tolto a tutti la capacità di muoversi, il rumore di un coltello d’argento che cadeva sulle pietre risuonò nel silenzio, ed Hermione si alzò di slancio per abbracciare Ginny, in lacrime.
Lacrime di gioia... per la prima volta da tanto, troppo tempo.

“In love, howsoever it is manifest, we are greater than the sum of our part.”
Jaqueline Carey
“Kushiel’s Chosen”

EPILOGO: ALL FOR LOVE

“When there's love inside
(I swear I'll always be strong.)
Then there's a reason why.
(I'll prove to you we belong.)
I'll be the wall that protects you
From the wind and the rain,
From the hurt and pain.”
“All for Love” from “I tre moschettieri” (film, 1993)

Ginny entrò in silenzio nella piccola stanza soffusa di luce in cui Ron riposava; qualcosa della fenice nel cui corpo aveva vissuto sembrava esserle rimasto addosso, in quel modo strano e silenzioso di muoversi, in quell’inclinazione pensosa del capo che rendeva illeggibili i suoi occhi scuri. Accarezzò la fronte di Ron, osservandolo intenta; le sue condizioni erano immutate, come il suo viso, che sembrava non portare i segni del tempo trascorso.
Draco si appoggiò al muro, dietro di lei, mentre Harry, Luna e Calì restarono in piedi sulla soglia, spettatori frementi, negli occhi una preghiera a tutti gli dei e a nessuno in particolare. L’aria nella stanza era densa di aspettativa, ben più di quella sarebbe stato sensato concedersi , ma nessuno di noi sembrava poterlo evitare, in fondo non eravamo che ragazzi, esseri umani. E l’essere umano è fatto per filare ostinato il filo della speranza ed attaccarsi ad esso, con violenza e caparbietà, non appena quel filo sottile sembra acquistare un poco di spessore tra le sue dita… anche se spesso è soltanto un’illusione.
Mormorai qualche parola, puntando la bacchetta in diverse direzioni, e il chiarore degli incantesimi si affievolì fino a sparire. Ginny mi guardò in viso, terrorizzata all’idea di aver concesso a se stessa di cedere ad un’idea che poteva rivelarsi soltanto un sogno, ma io le feci cenno di calmarsi; sembrava più piccola e insicura di quanto l’avessi mai vista, eppure l’esperienza della maledizione sembrava averle lasciato un alone di solennità che mi impediva di sentirmi ancora materna nei suoi confronti. Era una donna come me, forte quanto e più di me, una sorella che amavo e rispettavo, con cui confrontarmi, con cui parlare, con cui… sperare.
“Sei pronta?” le chiesi.
Ginny annuì e aprì le dita strette a pugno, porgendomi una minuscola boccetta di cristallo. Lacrime di fenice. Le
sue lacrime.
Presi la boccetta e ne versai alcune gocce nella flebo di Ronald, poi non potei fare altro che stringere la mano di Ginny… e attendere.
Il momento in cui le palpebre di Ron si mossero, per la prima volta dopo così tanto tempo, è sfocato nella mia mente: troppo intenso, troppo emozionante per essere ricordato. I suoi occhi blu riempiono tutta la mia mente nel momento in cui cerco di ricordare. Ma ricordo quel calore attorno a me, il calore di mani che senza toccarmi riuscivano a darmi sostegno, il calore di sguardi che sembravano non poter contenere la felicità, non tutta insieme, non tutta in quello stesso momento.
C’era Ginny al mio fianco, e Draco alle sue spalle, stretti in una abbraccio sollevato e felice. C’era Harry con la sua piccola Luna appesa al collo che saltellava di gioia. C’era Calì, le mani sulle labbra che per una volta non avevano pronunciato orrendi avvertimenti. C’ero io… e c’era Ronald. Insieme.

Ci sarebbe così tanto da raccontare, di quel giorno, e dei giorni che vennero dopo, e dopo ancora. Ci sarebbe una vita intera da raccontare. Ma la parte che ti ho raccontato è quella che non puoi leggere sui libri di storia, quella che è stata giudicata troppo complessa, troppo intensa, troppo leggendaria per le vostre giovani orecchie. La parte che ti ho raccontato è quella che ci ha insegnato quanto ciò che hai nel cuore abbia davvero il potere di farti superare ogni cosa. È la parte che deve essere ricordata, e raccontata prima che il mondo la consegni all’oblio, o alla… leggenda.

LEGEND:

THE END

Bene, asciugatevi quelle goccioline dagli occhi che sembrate tutte dei rubinetti rotti… scherzo! Comunque: e anche questa è finalmente finita… no, non ci sarà un seguito, e no, non ho altre fanfiction in mente. Ma non dico niente, perché tutte le volte che ho detto “questa è l’ultima” dopo due mesi avevo già di nuovo le dita alla tastiera: le classiche ultime parole famose. Perciò stavolta non fiaterò, se non per ringraziare tutte: questa storia in sé non ha né originalità né particolare stile, ma è stato divertente scriverla e soprattutto è stato un piacere scriverla per voi!
Come al solito mi farebbe piacere avere un’impressione complessiva sulla storia, anche da parte di chi magari normalmente legge ma non commenta. E come al solito rompo le scatole per ricordarvi quelli che secondo me sono lavori più belli e più originali, anche se meno salutari per le pareti del vostro stomaco… se per caso passate a leggere Trapped o Frost at Midnight, beh, fatemi sapere che ne pensate!
Un saluto e un abbraccio a tutti!
Opalix

Le dediche:
A Chiara, in primis, perché senza il tuo sostegno non ce l’avrei fatta a finire ‘sta COSA. E soprattutto non ce l’avrei fatta a risvegliare Ron dal suo stato di vegetale inoffensivo. Ma la solidarietà Weasley ha trionfato ancora. Ti voglio bene, bredina.
A Savannah, per farle un sacco di COMPLIMENTI. Sei il nostro orgoglio!
A Euridice … no, a te niente, non hai arfato a sufficienza stavolta. Ne riparliamo alla fine del PEZZO che manca. E ricordati che ti voglio bene lo stesso anche se non hai un capside carino e un bel DNA ricombinabile come lambda.
A GIU, ossia la mamma, per farle gli auguri di compleanno!

I ringraziamenti:
Aurora: no, niente magia, altrimenti la avrei usata per più alti e nobili scopi (scrivere la tesi, fare un sacco di soldi, farmi apparire in mano quelle decolleté di Sergio Rossi che si fanno adorare in vetrina… ^__^ Scherzo!). Grazie
Saty: darling, la scena finale alla Etienne Navarre sul cavallo ha fatto arfare anche altre persone di mia conoscenza… l’avevo scritta apposta, gh! Spero che ti sia piaciuta questa conclusione! Baci!
Seyriu: l’idea che un bambio possa essere traviato in tenera età con i miei deliri mi spaventa. Mah… comunque tranquilla, cara, il PEZZO che manca sarà scritto e pubblicato in tempi semi-ragionevoli. Un bacio e grazie!!! Fammi sapere se questo ti è piaciuto!
Thaiassa, Curiosità, Jaly Chan, Brix89: Grazie!!!!

Il Declaimer:
Niente di mio. Tutto di altri. Questa volta anche la storia. Gh.

   
 
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