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Autore: tako1983    15/01/2013    0 recensioni
Questa storia parla di alcol. nessuna grande storia, infatti, è mai iniziata con un insalata.
Questo racconto di alcune pagine parla di una mia esperienza autobiografica, in cui assieme ad altri amici, abbiamo messo in piedi una delle feste più devastanti di sempre. Il ricordo di un adolescenza al massimo, la tragicomica situazione di una festa e dei suoi irresponsabili partecipanti... Buona lettura!
Genere: Comico, Parodia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le feste non sono tutte uguali. Alcune sono memorabili, altre vengono si perdono rapidamente nell’oceano di esperienze adolescenziali. Questa, però, andò oltre. Perfino alle aspettative di chi l’aveva pensata. E già lo si capiva da piccoli dettagli, di quel pomeriggio di Luglio in piscina. Lo sentivo, che sarebbe successo qualcosa di catastrofico e indimenticabile. E tutto per una telefonata da nulla.

Io e altri tre amici eravamo sdraiati sui lettini, sfiniti dall’impegnativo far niente della sera prima. C’era Torna, ormai affermato nel mondo delle discoteche, un uomo della notte. Da sempre astenuto da qualsiasi vizio, sapeva organizzare eventi in cui restava l’unico in grado di ricordarli. Poi c’era Sabo, sempre irrequieto e in cerca di emozioni forti. E sapeva essere estremamente divertente nel farlo. Infine Mauri, sempre pronto a cogliere qualche opportunità per fare casino in giro. Purché si parlasse di camion e tangenziali. Ognuno ha le sue fisse.

Si ride con poco; e tra birra e sigarette arriva l’ora di decidere la serata. A un certo punto suona il mio cellulare. Era una telefonata della nonna: la mia casa in campagna era libera per un intero weekend. Ecco un opportunità per fare qualcosa di veramente forte il sabato sera. Oltre 150 metri quadrati in cui sfogare la nostra creatività, pensai. Poco dopo, ecco un bisogno incontenibile di orinare. Probabilmente è colpa della birra. Forse è un segnale del mio corpo, anticipatore di un pericolo imminente. Oggi so che era la seconda, il mio corpo non mente mai.

Torna e Mauri, intanto, stavano già radunando un piccolo esercito. Sembrava che stessero organizzando la liberazione di Parigi: trenta conferme in meno di due ore. Dato che ogni sollevazione va festeggiata, ci vuole qualcuno che sappia comprare le cose giuste. Per questo, a Sabo toccò occuparsi della spesa. Trecento euro di alcolici e cena facoltativa. Ecco lo spirito giusto, pensai.

Una settimana dopo, arriva la serata tanto attesa. Siamo circa trenta persone, pronte e cariche per divertirsi. Sento che c’è qualcosa di sbagliato, mentre affronto le salite delle colline con Torna e il baule pieno di alcolici fino all’orlo. Tra la salita e la spesa, il motore stenta a far salire il tachimetro. Sembriamo due contrabbandieri in fuga verso il confine. Già dall’inizio la serata è eccitante, può solo migliorare. In quel momento, pensai che forse eravamo tutti un po’ troppo eccitati. Questa sera non berrò, pensai, e andrà tutto bene. Doppio errore in un solo pensiero. Mi ero sopravvalutato. Oppure avevo sottovalutato tutti gli altri, difficile dirlo. Arrivati alla casa, io e pochi altri scendiamo per scaricare viveri, bevande e attrezzatura. E’ una bella serata, calda al punto giusto. La casa è su due piani, con due saloni ampi uno sull’altro: sembra nata per ospitare feste. Se la casa potesse parlare, il giorno dopo avrebbe voluto essere un monolocale.

Io e Torna prepariamo il bar, mentre Sabo e Mauri montano tutte le attrezzature: luci, consolle, cd, cibo e bevande. Poco dopo aver preparato la sala, arrivano i primi del gruppo. Digi, Bono, Giunchi, Licia, Laura e Francesca. La delegazione di Borello al completo. In quell’orgia di saluti, io sono già intento a convincermi che riuscirò a gestire la situazione. E’ una prova di responsabilità mia, come degli altri. Eppure sento un presagio di tragedia inevitabile. Striscio fuori dal mio pensiero per tornare ad essere vagamente socievole, mentre continua ad arrivare gente. Prima gli invitati, poi amici degli invitati. Quando alla porta si presentano amici di amici, ecco che sento di nuovo quella sensazione di disagio. Quasi al livello delle previsioni del tempo, ci sono le mie sensazioni. A quel punto, dissi chiaramente:”Ragazzi, cerchiamo di non rompere nulla. Divertiamoci pure ma senza fare casino. Io stasera non bevo, voglio controllare come vanno le cose”. E continuava ad arrivare gente.

Si apre la serata con un brindisi generale, mentre Sabo mette su un po’ di musica, in veste di DJ. Alcuni restano in disparte, altri in mezzo alla sala a ballare. Io mi faccio un paio di bicchieri; tanto per sciogliermi un po’. Elisa e Patty si fanno direttamente una bottiglia a testa. Si beve come se non ci fosse un domani. E dire che domani, il problema sarebbe stato l’oggi. Mauri, Giunchi e altri iniziano a provarci con le tipe. L’atmosfera si scalda. Iniziano le tequila sale e limone e i waikiki. Intanto, Digi e la sua ragazza decidono di imboscarsi in una delle stanze chiuse al pubblico. Controllare trenta persone sempre più ubriache, non è una cosa da poco. Se lo sei più di loro, è una cosa da stupidi.

Dopo un paio d’ore, alle undici circa, la situazione è già assurda. Sembra un ritrovo di ergastolani evaso da un carcere. Le donne, ormai ai limiti della loro lucidità, ballano e lanciano oggetti ovunque. Sabo, dopo aver rinunciato a restare recluso dietro la consolle, si getta nella mischia ed alza la posta. Una cassa di giocattoli, trovata rovistando nella cantina, diventa la cosa più interessante della serata. Soprattutto la mazza da baseball. Io avevo già rinunciato a gestire la situazione e mi stavo affidando a qualcuno più in alto, nella speranza di limitare i danni della mandria, ormai fuori controllo. Barcollando, arrivo alla finestra e vedo sul patio Sabo ed altri che giocano a baseball con tutto ciò che trovano: giocattoli, sedie, vasi. L’importante è che si possa rompere. Improvvisamente, mi rendo conto di quanto non fossimo pronti per organizzare una serata simile. Siamo un branco di animali in calore, penso. Sento il bisogno di sedermi, come se tutto l’alcol che avevo bevuto, improvvisamente, reclamasse il prezzo. Attraverso la sala, verso il divano, e finalmente mi stendo. Chiudo gli occhi e continuo a sentire le risate, la musica e i salti di tante persone. Venti, o forse trenta; non ne sono più sicuro. Sulla bocca mi appare un sorriso compiaciuto, mentre i pensieri si fanno sempre più confusi. Dopodiché, arriva il buio più nero.

Mi risveglio avvolto in un tappeto, nel salone inferiore. Tutto normale, penso. La mia camicia e i miei pantaloni erano fradici, e in testa avevo una strana poltiglia bianca. Mi sentivo come se tutte le macchine nel parcheggio mi avessero investito. La testa era pronta ad esplodere ed ero convinto che la mia mano destra avesse quattro dita. Ma che cazzo è successo qui, penso.

Dopo aver ritrovato l’equilibrio, mi avvicino alle scale. Cerco nelle tasche il cellulare, per dare un orario a quello scenario. A fatica, trovo qualcosa: farina e puntine. Mi è davvero sfuggita di mano, la situazione. Nell’altra tasca, un telefono: segna le otto. Ma non era mio. Lo rimetto in tasca e salgo le scale a fatica. Subito noto Patty legata alla ringhiera, che dormiva come se fosse sul letto più comodo del mondo. Non curarti di loro ma guarda e passa, diceva Virgilio. L’ansia, però, stava crescendo. Dante se l’era solo immaginato il suo inferno, io il mio no. Prima di entrare nella sala della festa, sento il bisogno di orinare. Raggiungo il bagno a fatica e, aprendo la porta, vedo uno spettacolo degno dei migliori film horror. Qualcuno, durante la serata, è riuscito a vomitare dal soffitto fino alla parete di fondo, in unico glorioso getto. Il mio primo pensiero è stato di farmi il segno della croce. Mi avvicino al vespasiano, evitando la melma gocciolante, e urino con disinteresse; è difficile scegliere qualcosa su cui disperarsi. La testa era altrove e avevo paura di aprire la prossima porta.

Ritorno verso il salone e, superando Patty con indifferenza, apro la porta della camera da letto. C’era stato qualcuno qui e si era divertito alla grande. Non riuscivo a ricordare chi fosse, la testa mi faceva ancora male. Cammino per la stanza, in cerca di danni o indizi; tutto era normale, un po’ in disordine forse ma nulla di cui preoccuparsi. Le lenzuola di seta, fatte a mano da mia bisnonna, avevano delle strane macchie. Avvicino lo sguardo e vedo: sperma. Qualcuno le aveva trovate più interessanti dei fazzoletti. Davvero un gesto amichevole. Chiudendomi dietro le porte, attraverso il corridoio e mi decido ad aprire la porta della sala principale. La stanza era immersa nel buio irreale degli scuri. Accendo la luce e davanti a me, trovo una scena degna dei migliori ammutinamenti; con tanto di caduti sparsi qua e la.

Cammino lentamente, con la mente annebbiata, cercando di valutare i danni. E come me la sarei potuta cavare con mia nonna. Già la sentivo urlarmi contro, mentre la sua casa si trasformava in un bordello. Alla mia sinistra, vedo Bono con la scopa in mano, che cerca di spazzare al meglio delle sue capacità. Spazzava lo stesso cumulo di vetri rotti e cibo masticato contro l’angolo del muro. Stavo per togliergli la scopa in mano, poi pensai che era meglio lasciarlo lì. Uno in meno da tenere occupato. Nel sentirmi camminare, alcuni aprirono gli occhi. Sul tavolo centrale, Elisa dormiva a pelle di leone. Si alza di scatto, come quando qualcuno ti lancia un secchio d’acqua fredda in faccia. “Devo andare in bagno”, dice. A vomitare o a urinare, immagino. Sto per dirgli di stare attenta alla melma, quando penso che probabilmente nemmeno se ne accorgerà. Mentre avanza verso le scale, i suoi stivali fanno un rumore inquietante. Con la faccia perplessa di uno che ha appena sbattuto contro un albero in un deserto, si toglie una scarpa e la rovescia. Mi fissa con uno sguardo assente, mentre mezzo litro di succo d’arancia esce dallo stivale. Ovviamente, sul mio pavimento. Sento salire una furia cieca, per cui decido di scendere in cortile a prendere una boccata d’aria, ignorando la ragazza scalza. E quella legata.

Scendo le scale e apro a fatica la porta d’ingresso. Quattro catenacci e due serrature, e nonostante questo mezza Cesena era stata qui durante la notte. Il sole è già alto, la luce mi ferisce la vista. Faccio un passo oltre la porta, per poi urtare un cumulo di filtri impilati ordinatamente davanti all’ingresso. L’odore di canna nell’aria è ancora forte. Mi avvicino per capire meglio: qualcuno ha riprodotto una piramide egizia davanti alla porta di casa mia. Dal lato artistico non c’era nulla da dire, però mi interessava sapere chi fosse venuto a fumare quel patrimonio in marijuana. Non potevano essere stati gli invitati, erano troppo pochi. Ai miei piedi c’erano filtri sufficienti per cinquanta canne. Alzo di poco gli occhi, e vedo un campo di battaglia: giocattoli rotti, vasi frantumati, sedie distrutte. Qualcuno aveva perfino lanciato un comodino dalla finestra. Mi gratto la nuca, con un espressione vergognosamente ebete. Stavo cercando delle risposte. E non riuscivo nemmeno a ricordare, se almeno mi fossi divertito.

Su per il sentiero che conduce alla casa, sento le ruote di una macchina. Corro verso il parcheggio per vedere se era qualcuno in grado di spiegarmi la situazione, o semplicemente un altro imbucato in ritardo. Era la macchina di Sabo. Come Bono, che ancora stava spazzando sullo stesso punto inutilmente, anche lui si era mosso a compassione. Si avvia verso di me, con un sorriso soddisfatto stampato in volto, l’andatura lenta e barcollante di chi ha passato la notte in bianco più memorabile della sua vita. In mano stringe un cabaret di cornetti e brioche. Io lo fisso con lo sguardo di chi ha appena visto un profeta e sta aspettando delle risposte. Sabo passa oltre con uno sguardo assente, apparentemente senza notarmi. A questo punto lo seguo, aprendogli la porta per precauzione. Ha l’aria di uno che pensava di passarci attraverso. Non mi pare il caso di aggiungere un cabaret di paste alle schifezze che sono già in terra. Ci avviamo per le scale ed entriamo nel salone. Dopo esserci seduti sul divano, in mezzo ai superstiti che si aggirano smarriti tra i resti della festa, aspetto una parola. Non arriva.

“Che cazzo è successo stanotte?”, gli chiedo con uno sguardo stranamente soddisfatto e un espressione da pluriomicida. “È stata la festa più figa della mia vita, Tako. Non ci siamo mai divertiti tanto”. A quel punto, volevo capire se il “ci” di cui stava parlando, coinvolgesse anche me. Gli chiedo tutti i dettagli; e me li da, oltre ogni immaginazione. Distruzione selvaggia di giocattoli, oggetti e mobilio, mentre l’alcol scorreva a fiumi. A metà serata, poi, arrivò Lori con il suo gruppo: gli autori della scultura nell’ingresso. Per tutta la notte, c’è stato un via vai di gente, amici e conoscenti. Qualcuno se n’era andato a casa a notte fonda, i più resistenti hanno tirato avanti fino a crollare. “E poi c’eri tu”, mi disse. Il mio sguardo era già perso nel vuoto, mentre mi sentivo come il caffè ordinato al bar solo per usare il bagno. Stavo mentalmente facendo una stima dei danni, quando quell’ultima frase arrivò come uno schiaffo per riportarmi alla realtà. Sabo mi raccontò in dettaglio cosa mi venne fatto dopo che persi il controllo.

Mentre l’atmosfera si scaldava e i coltelli cominciavano a infilarsi nei mobili, io ero seduto sul divano completamente fuori combattimento. Allora lui e altri cominciarono a trasformarmi nella mascotte della serata: maschera di paperino, pistola ad acqua e una miscela di gel, farina e puntine da disegno sulla testa. Ecco cos’era quella schifezza, pensai; ora capisco perché, nonostante il vuoto totale nella mia testa, a metà della serata ebbi l’impulso di farmi una doccia. Certamente, qualche cocktail in meno e mi sarei anche tolto i vestiti, prima.

Completamente atterrito dal racconto e con l’amaro in bocca di un imperatore romano che ha invitato gli unni a cena, prendo una brioche alla crema. Cominciamo a rifare i bagagli e a pulire alla buona. Mentre le persone rimaste riprendono conoscenza, iniziano a guardarsi intorno con un espressione assente: un misto di atterrito stupore e incontenibile soddisfazione. Io mi avvio verso il parcheggio, seguito da Sabo e Bono. Appena varcata la porta di ingresso, vengo colto dalla sensazione di aver dimenticato qualcosa; come quando parti per un viaggio e dopo cento chilometri ti ricordi di aver lasciato il gas aperto. Torno sulle scale per liberare la Patty, ancora catatonica.

Gli altri si fermano a indugiare ancora un po’, pensando alla serata indimenticabile. In effetti, lo è stata per tutti. Soprattutto per mia nonna. Con il terrore della sua reazione nelle ossa, salgo in macchina e abbandono il campo di battaglia. Gli altri dietro di me, tirano il sipario su quest’episodio mentre percorriamo la stradina che porta lontano da qui. Nessuno l’avrebbe dimenticata. Avevamo superato un limite; non per tutti, lo stesso. Ancora oggi se ne parla: sconosciuti che ne hanno sentito parlare, ogni volta con qualche dettaglio nuovo. Ogni racconto diverso, a discrezione del narratore, eppure uguale: una festa indimenticabile, che tutti dovrebbero fare almeno una volta. E dopo tanti anni, resta un ricordo che ti fa alzare lo sguardo e spuntare un sorriso. Qualcosa che ci ha segnato tutti, di cui ridere di sé stessi. Nonostante tutto.

  
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