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Autore: Garmr    15/01/2013    1 recensioni
Raccolta di racconti, non necessariamente appartenenti alla stessa ambientazione o continuum narrativo. Tutti saranno comunque accomunati dalle tematiche di fondo: il macabro, il morboso, l'onirico, il fiabesco...
Il primo (e per il momento unico) racconto è incentrato sulla Notte delle Maschere, una festa sfarzosa e caotica che ogni anno anima la Città; i festaioli hanno dimenticato da generazioni quale sia l'antico significato di tale ricorrenza - diversamente dal Biondo e dal signor F., che come ogni anno si dedicano al dovuto Raccolto...
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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La Notte delle Maschere

L’orizzonte è ancora rosso e già la Notte delle Maschere spumeggia per le piazze e per le vie, inondando i più miseri tuguri e le ville più opulente della medesima, frastornante ebbrezza.
Un festoso e delirante campionario d'umanità si dimena nella babele di musiche ricercate e canti da osteria, grida d'estasi e risate, scoppi di petardi e di fuochi d'artificio. La volta stellata è sfregiata da luci mondane e pacchiane, che tingono di follia la fremente processione di maschere. Non v’è sagrato o camposanto a cui siano risparmiate le impunite danze e gli sghignazzi avvinazzati dei festanti, poiché nella Notte delle Maschere ciascuno può dimenticare le proprie catene e fingersi libero e spensierato, protetto da un volto di porcellana.
La città festeggia, incurante, pavoneggiandosi delle proprie luci e delle proprie strida; festeggia, dimentica del nome ancestrale con cui questa notte è celebrata da prima che la prima pietra venisse intagliata, la prima casa eretta, la prima croce piantata. Offre un tributo a sé stessa, al proprio nome e alla propria fama, consumandosi come un fiore in fiamme nella sua stessa presunta gloria. Uomini e donne s’agitano e si dimenano ridendo, bevendo, danzando e amoreggiando, chiamandosi liberi; e la festa li sovrasta tirando i loro fili, agitando quei corpi che con tanto entusiasmo si riscoprono marionette. Gioioso e obnubilante, il gioco delle maschere rapisce ogni animo.
 
Il signor F. scruta la folla festosa, concentrato, dalla sua piccola nicchia d’oscurità. Forse ha trovato ciò di cui ha bisogno.
Ovviamente, il signor F. indossa una maschera. Apparentemente d’una qualche stoffa grezza, è rozzamente cucita a simulare il viso d’uno spaventapasseri, reso grottesco dalle cuciture grossolane e dall’esagerato sogghigno. Nulla ha di familiare con le raffinate caricature di fine porcellana che s’inseguono sul selciato.
Vi è tuttavia una maschera che ha attratto la sua attenzione.
Alba non sembra a suo agio nella folla. Snella, minuta, ha già rifiutato svariati giri di danze, respingendo timidamente ogni aspirante cavaliere. Ha più volte rivolto i suoi grandi occhi chiari verso l’angolo da cui il signor F. la fissa meditabondo. Questi trova quanto mai appropriata la fine maschera da lepre dietro cui lei nasconde il rossore del volto.
Per la terza volta, lei lo guarda negli occhi, trovando il suo sguardo attraverso le ombre e la maschera deforme. Il signor F. si concede un lieve, malinconico sospiro. Ha trovato ciò che cercava.
 
Il Biondo passeggia senza fretta, fischiettando una vecchia nenia al buio dedalo di vicoli. Non ama la confusione; segue istintivamente le zone d’ombra e di quiete, percorrendo soddisfatto la desolata Città Bassa tra i cui tuguri nessun festaiolo, per quanto ubriaco, s’inoltrerebbe mai. 
A onor del vero, anche la Città Bassa ha le sue leggi; nemmeno il più efferato tagliagole toglierebbe la vita a una donna o a un bambino solo per soldi; né tantomeno oserebbe cercar vittime nella Notte delle Maschere. Talgaro, tuttavia, è un’eccezione.
La reputazione di Talgaro è scritta nel sangue. Squarcia gole con la stessa naturalezza con cui un ragazzino di strada sfila i portamonete. Non ha scrupoli, non ha rimorsi, non sente nemmeno il calore delle vite che estingue; solo l’oro guida le sue dita esperte.
Secondo una voce diffusa, Talgaro sarebbe stato uno dei migliori sicari dalla città, benché a quei tempi nessuno lo chiamasse per nome; ma su quale sia stata la disgrazia che lo ha esiliato nella Città Bassa, le voci tacciono.
Stasera Talgaro è di buonumore; e la vista d’una vittima così solitaria gli strappa un genuino sorriso. Emerge dalle ombre, alto e tracotante, il coltello gli danza nella mano. Il volto è un dedalo di sfregi e tatuaggi.
Il Biondo s’arresta, appena sorpreso. La mano destra, guantata e dalle lunghe dita, corre al cilindro in un istintivo gesto di saluto, mentre la sinistra raddrizza il sobrio jabot scarlatto che emerge dal lungo redingote scuro. La maschera da spaventapasseri ricambia a Talgaro il sorriso.
L’assassino si schiarisce la voce.
“Ma tu guarda,” esordisce, roco, “Un principino è scappato dalla reggia, ah? Ti sei perso, smilzo?” Ghigna malevolo, cercando d’ignorare la sottile aura d’inquietudine che esala dallo straniero.
 
Dov’è?
Un’irrazionale paura assale Alba quando si rende conto che l’individuo vestito di nero è sparito dal suo angolo buio. Percorre con lo sguardo la piazza, cercando tra le maschere dorate o argentate, tra i nasi spropositati e i grugni satirici, tra le corna ornate di brillanti, le chiome di zucchero e cotone, i ventagli di pizzo e le code di pavone; cerca nel frusciare di toghe e tabarri, tra tricorni, tiare e papaline; nella danza dei colori e degli eccessi, nel trionfo della porpora e dello scarlatto e del cobalto e dello smeraldo, cerca quell’ombra nera, sottile e morbosa... Il pianto lontano, malinconico, di un violino insinua una breve nota d’incubo tra le arie festose e gli allegri canti della Notte delle Maschere.
Dov’è?
Alba è giovane, eppure conosce le maschere a memoria. Il gobbo dalle lunghe vesti e con le corna ricurve è Narzaro, il folletto che getta carbone nelle cantine degli avari; lo spicchio di Luna dal volto di donna è Selaste, che con trucchi e dispetti fa tardare gli innamorati; e il Sole dal cupo cipiglio addobbato di sfarzi è suo marito Febra, il ricco brontolone di cui Scarlarte, la triplice maschera, ama prendersi gioco; Beltere la bambola sciocca, Silfaro il vecchio ingannatore, Talico il folle vestito di piume, Lepusa dal volto di coniglio...
Non ricorda di alcuno spaventapasseri.
A meno che...
“Buonasera, piccola maschera,” si sente sussurrare all’orecchio.          
 
Il Biondo non risponde. Inclina appena la testa, in un gesto che, se non fosse per l’evidente gravità della situazione, sembrerebbe divertito. Una lunga chioma biondo scuro incornicia il grottesco volto di stoffa.
Il ghigno di Talgaro s’indurisce. “Hai perso anche la lingua, ah? O sei troppo sbronzo per capire?” Con un gioco di destrezza, il coltellaccio rotea da una mano all’altra, bene in vista.
Lo straniero mantiene il suo silenzio. L’altro lo squadra meglio: è piuttosto alto, quasi quanto lui; l’abbigliamento è elegante quanto insolito, e troppo ben curato per aver attraversato una notte di bagordi. Il fisico è slanciato, la postura ben dritta. No, non è ubriaco.
“Ho capito. Sei venuto nella Città Bassa a cercar baldracche, ah? Devi aver dietro un bel gruzzolo, allora...”
“Sono sazio, grazie,” l’interrompe il Biondo. La voce, genuinamente divertita, esprime un gentile quanto altezzoso distacco. Nella ristretta e prosaica immaginazione di Talgaro guizza per un istante l’immagine di una volpe.
‘Cazzo avrà da ridere, questo idiota. Possibile che non capisca che sto per ammazzarlo?
“Ah. Uh. Beh.” borbotta l’omone. Gli è sempre piaciuto chiacchierare con le sue vittime, trova che aggiunga più significato alle sue scelleratezze. Di solito, tuttavia, non è lui a rimanere senza parole. “Spero non fossero troppo care, allora,” sbotta infine, trovandosi sorprendentemente spiritoso. Non vede l’ora di strappare quella ridicola maschera. È snervante, non puoi ammazzare uno che ti sorride a quel modo.
Fa ancora un po’ di scena con il pugnale, aspettandosi qualche reazione. Qualche cenno di comprensione. Niente.
“Ascolta, ah,” si arrende infine, “Adesso tu mi dai i soldi. Tutti, fino all’ultima corona. Tanto a te non serviranno più,” sfoggia il più truce dei suoi sorrisi. Vedendo l’indolenza dell’altro, aggiunge, a scanso di equivoci, “Perché dopo, ah, ti ammazzo. Ti concio peggio di quella mascheraccia.” Ridacchia di gusto, sempre più convinto d’essere un comico nato. L’altro non reagisce. Non si getta a terra, non implora pietà, non estrae armi né tenta la fuga. Non scoppia a piangere e non ride nemmeno un po’.
Sarà ... tramortito dal terrore, o qualcosa così.
Infine, con deliberata lentezza, la mano sinistra si stacca dal colletto e descrive vaghi cerchi nell’aria.
“Dunque tu...” accenna con la voce velata d’artificiosa curiosità, “...uccidi per denaro?”. La mano si ferma. Alla luce della Luna, Talgaro nota l’assurda lunghezza di quelle dita. Le terze falangi sembrano lunghe almeno il triplo del dovuto. Che razza di mani  ha questo svitato?   
Non lascia che la sorpresa rovini la sua trucida espressione né la crudeltà del tono. “Hai afferrato, damerino. Ora frugati bene le tasche, e non t’intristire troppo: presto babbo Talgaro t’aprirà un bel sorrisone,” ridacchia di nuovo, tracciando in aria la curva d’un sorriso con la punta del pugnale.
È il momento di cagarti addosso, smilzo. Fai la tua scenata, tira fuori la grana, e poi abbi la buona creanza di lasciarti sgozzare.
L’altro  raddrizza la testa. C’è una vocina disperata a gridare nella testa di Talgaro, ma l’omone è troppo assorto nel pregustare borsellini rigonfi e orologi d’oro zecchino per darle retta.
“Squallido.” La voce del Biondo è gelida.
Il silenzio coagula.
 
Camminano nella notte da un tempo che Alba non saprebbe calcolare. Ricorda a fatica le feste e le danze, come un sogno confuso; ricorda quando lui è venuto a cercarla, le ha preso la mano, sussurrando parole di crudele dolcezza. Ricorda che le ha rivelato il suo nome, un nome straniero che Alba non aveva mai sentito; ricorda di averlo seguito senza il coraggio di chiedersi il perché. Ora lui, l’ombra scura dalla maschera sardonica di spaventapasseri, la guida per mano in vicoli oscuri e dimenticati, dove della festa non vi è nemmeno la più lontana eco; dedali morti e silenti, popolati di fruscii, ignoti al Tempo e al Sole. Non si è ancora voltato a guardarla.
Alba non riesce a fare a meno di notare come i lugubri portici e i muri antichi dalle cieche bifore si addicano morbosamente al suo cupo accompagnatore. Egli è sottile, poco più alto di lei; veste un abito nero che forse, in un tempo lontano, poteva essere stato elegante; ora è logoro e sgualcito, ma conserva una sua oscura solennità, come il cilindro che lo corona. Le mani guantate, dalle dita assurdamente lunghe, non emanano alcun calore; e gelida è la sua voce, le poche volte che le rivolge la parola: gelida e roca, priva di musicalità, eppure delicata, dolce, a suo modo suadente, come un ringhio modulato in moina. Le sue parole carezzano le ombre, avvolgono Alba di silenzi e di sussurri; sono rassicuranti e a un tempo inquietanti, come una promessa contro mali ignoti e terribili.
Lei non parla, non ci riesce. Il suo cuoricino batte follemente, la implora di fuggire, voltarsi e correre, correre fino al sorgere del sole; eppure la sua stessa paura la vincola alla sua guida oscura e alle sue parole deliziose e terribili.
La Luna è uno sfregio di luce nel velluto della notte. Nel vicolo buio, ogni pietra sembra lo scrigno d’un dolore dimenticato, ogni porta sigilla un incubo folle e meraviglioso. Infine, di fronte a un contorto cancello di ferro ornato di forme mostruose, il signor F. si ferma.
“Siamo arrivati,” sussurra.
 
Talgaro annaspa. Stringe il coltello. “Che... cazzo hai detto, ah?”
L’altro si drizza in una posa sdegnosa. “Squallido,” ripete, la voce è nuovamente divertita. “Mediocre, patetico. Immagino tu ti ritenga un maestro della tua immonda arte.” A Talgaro sembra di sentir parlare un bambino, eppure non riesce a controllare i brividi.
Torna alla sua mente l’immagine della volpe.
Il Biondo sorride.
Soltanto, ora il muso appuntito rivela un ghigno irto di zanne affilate.
La voce del Biondo è una risata emersa dall’Abisso.
“Lascia che ti insegni.”
 
Appena nata, la Notte delle Maschere è una babele di musiche e canzoni, scoppi e boati, risate e grida. Grida... Quasi tutte di divertimento, alcune di piacere. Solo poche ... poche, poiché la Notte delle Maschere è sacra anche ai ladri e ai tagliagole ... solo poche di terrore o d’agonia.
 
Bubas si stiracchia, vezzosa. Pur arruffata, sporca e smagrita per la vita di strada, non ha perso la grazia e la bellezza che si addicono alla sua razza. Schiude i grandi occhi gialli, la grande pupilla beve avidamente la poca luce del cimitero dimenticato; la coda ondeggia e si torce impudicamente, lo sbadiglio rosato e le zanne candide contrastano con forza con il nero un tempo lucido del manto. Si guarda attorno, con pigra curiosità.
Questa stessa mattina, l’odore promettente di una buona colazione l’ha portata nel giardino di lapidi. Lì ha strisciato e danzato sulla punta delle delicate zampette, scrutando silenziosa la sospetta scodella di latte tiepido e l’individuo vestito di nero che, seduto tra i resti d’un angelo di pietra, l’osservava benevolo. Questi odorava di ferro e di té, d’incenso, di polvere e di vecchie pergamene; ma Bubas è una gatta di strada e non sarebbe viva se non avesse da tempo imparato a diffidare dei doni. Per questo aveva atteso, e atteso. Solo quando il sangue dell’uomo in nero – una, due, tre gocce scure – ha deturpato la candida superficie, lei ha compreso. E ricordato.
Ha ricordato di aver sognato la Madre, nella gloria di tombe più antiche e maestose baciate dal sole nelle sabbie dell’eternità; e la Madre le ha rivelato, in un tempo lontanissimo, di legami sacri e di creature ancestrali. L’ombra in nero è un amico – un amico che nessuno vorrebbe avere, di cui è pericoloso anche solo conoscere il nome. Bubas ha accettato il patto, leccando il latte inquinato, fino all’ultima goccia rosata.
Ora, il bacio della Luna l’ha svegliata. Le ombre l’hanno protetta, cullata e ristorata. Lui è tornato; la maschera copre metà del viso, la barba è macchiata, scarlatta, gli artigli stringono qualcosa, qualcosa di piccolo, rosso e ancora caldo, che gronda insozzando il nero sudario. Un’offerta. Un dono. Ha onorato il patto; ora tocca a lei.
“Per favore,” egli sussurra, in una lingua nota ai gatti, ai lupi, ai corvi, agli incubi e ai defunti.
Lei comprende. 
Chiude gli occhi. Lascia che il buio la avvolga e le entri dentro; il suo spirito dischiude la soglia e, per qualche tempo, si fa da parte.
Quando li riapre, le iridi risplendono d’un nuovo colore. Una luce diversa ... più antica, più triste ... li anima.
Il signor F. nasconde il volto con la mano artigliata. Nasconde il tremante sorriso e gli occhi umidi. Dura un istante.
Allunga la mano grondante sangue, porgendo il suo dono.
“Per te,” mormora, “mia preziosa creatura.”
 
L’alba è vicina, e ancora la Notte delle Maschere si dimena e si contorce. Il caos possiede la città, prigioniera dei propri vizi, dei propri peccati, delle proprie frustrazioni; grottesche, animalesche, le anime danno sfogo a ciò che per un anno hanno represso e nascosto; al sicuro sotto maschere e tabarri si deliziano credendosi osceni e blasfemi, selvaggi e sfrenati, liberi. Non pensano al domani: domani la Legge sarà ristabilita, l’Ordine sarà eretto nuovamente e ogni anima si rassegnerà di nuovo alle catene; ma questa è la notte del Caos.
 Per quanto sia un Caos programmato, previsto e contenuto. Un Caos tollerato, un Caos concesso; un Caos misero e paradossale.
Gli umani si accontentano. La Notte delle Maschere è viva e feroce, non si rassegna, non accetta d’assopirsi per un altro anno; la Luna è alta e le maschere pretendono anime.
 
Il Biondo percorre divertito le calli invase dall’orgia di musica e colori. Lo divertono i piccoli e prevedibili peccati che si consumano sotto i suoi occhi, i miseri e casti affronti al pudore e alla decenza che suscitano tanto amabili risate e finto scandalo, i giochi giovanili coronati di infantili pretesti; lo diverte la Vita che si traveste d’assurdo. Soprattutto, lo diverte lo sconcerto che la sua funerea eleganza e il suo crudele volto di stoffa diffondono, deturpando la spensieratezza degli astanti; adora l’inquietudine che traspare dalle loro maschere delicate, adora le smorfie e i mormorii e l’odore, l’odore delizioso dell’irrazionale, inspiegabile, incontenibile orrore...
L’olfatto gli rivela verità ancor più intriganti della vista e dell’udito: l’aroma dell’ebbrezza, la fragranza della pelle bagnata, la delicatezza delle sete, il gusto segreto della passione... La più splendida fanciulla può rivelarglisi come null’altro che uno spettro grigio e sbiadito imbellettato di volgari profumi, mentre un piccolo fiore annerito e calpestato può svelare un’estasi sensoriale, un trionfo sublime di candore e decadimento...
Il Biondo è sazio, ma non per questo intende sottrarsi a quel banchetto, con l’esaltazione di un lupo affamato nel mezzo di un mattatoio.
Sotto la maschera, egli sorride.  
    
Le ore propizie sono scadute. La Luna ha concesso il suo dono effimero e, volubile e capricciosa, l’ha subito negato. Come ogni volta. Come ogni anno.
Il signor F. cammina da solo per i dedali della Città Bassa. Ha ancora un dovere da onorare, prima che il Sole ponga fine a questa ancestrale ricorrenza.
I suoi passi sono silenziosi, si muove a piccoli scatti, ondeggiando incerto, a disagio sulle due gambe; il suo cammino si snoda tra le ombre, seguendo l’istinto antico del predatore. Percorre strade dimenticati e ponti in disuso, costeggiando canali maleodoranti, all’ombra di lampioni ciechi, tra vecchi campanili, biblioteche abbandonate, teatri in rovina. Evita i pochi, incauti nottambuli che, persi, si aggirano per quei silenzi.
Quando giunge alla vecchia piazza, attorniato da facciate di chiese sconsacrate dalle guglie minacciose, di fronte alla statua d’un poeta sepolto, si blocca. Non ha bisogno di fiutare l’aria né di volgere lo sguardo. Sa di non essere solo.
Appollaiato su un cornicione, un corvo lo scruta, nobile e imperscrutabile.
“Buonasera,” sussurra, quasi meccanicamente, sollevando appena il cilindro. 
Il corvo inclina appena il capo.
“Credevo ti fossi rassegnata,” continua il signor F. L’altra gracchia irritata.
“Io non mi arrendo mai.” La voce, di donna, è determinata, amara.
Lui si volta a squadrarla. Immagina, solo per un istante, le sue piume tingersi d’un meraviglioso rosso.
Un silenzio doloroso, sofferto, si dipana lentamente.
Infine, egli parla, calzando meglio il cilindro. “Tu mi troverai. E mi ucciderai.”
Non è una domanda.
“Sì,” promette il corvo.
“Giustizia sarà fatta.”
Il signor F. si concede un amaro sogghigno. “Buona fortuna, mia cara.”
Si allontana dandole le spalle, senza esitare. Sente lo sguardo gelido e penetrante seguire ogni suo passo. Mormora qualcosa, nel buio della notte, a se stesso e alla Luna.
 
Il Biondo guarda le piccole lanterne scivolare nei canali, inondandole d’una luce rubata. Immagina l’invidia dell’alba e delle stelle, la loro rabbia per quei minuscoli simulacri d’astri che le irridono. Ogni lanterna reca un contratto, un patto, una promessa; quando la luce arrosserà l’orizzonte, per qualche istante i morti potranno leggere quelle parole consegnate al fiume; forse, addirittura, potranno accettare un patto, se lo troveranno vantaggioso.
Alle lanterne si affiancano flotte di barchette di carta; ciascuna reca un nome amato e, probabilmente, qualche sdolcinata romanticheria di pessimo gusto. Quando la carta, fradicia, sprofonda nei flutti e il messaggio è definitivamente cancellato, il destinatario lo sentirà recitare all’orecchio dalla voce di colui che l’ha affidato alle acque.
Il Biondo è un collezionista; e, tra le altre cose, colleziona storie e leggende. Più sono ridicole e patetiche, più acquistano valore nella sua raccolta.
Se il signor F. fosse qui, avrebbe sicuramente un commento arguto per questo quadretto pietoso.
“Philemon,” chiama una voce roca, sommessa, alle sue spalle.
“Lupus in fabula,” borbotta in risposta, senza voltarsi.
L’altro gli si affianca senza un rumore.
Condividono un lungo silenzio.
“...Ti hanno seguito,” sbotta infine il signor F., secco.
“Dici? Oh...” Il Biondo si annusa distrattamente la mano, “Un pittoresco figuro della Città Bassa. Non temere,” calca quest’ultima parola con  marcata ironia, “L’ho seminato.”
“Dove?” insiste il signor F., d’istinto.
“Oh, beh,” borbotta l’altro, guardandosi attorno, “L’ho lasciato due isolati più in là.” Indica verso ponente. “E sotto quel campanile, laggiù,” puntando a levante, senza guardare. “E, aspetta, anche là. E là. E in altri due o tre posti, direi.” Ridacchia compiaciuto. “Tuttavia credo che la maggior parte stia attualmente galleggiando tra quelle barchette, laggiù.”
Finalmente guarda l’altro, cercando di capire se la maschera per metà sollevata lascia trasparire un qualsiasi segno d’emozione sul suo volto. Nulla.
“Per l’Abisso, la solita bestiaccia,” esclama poi, notando la barba ancora lorda. Gli allunga un fazzoletto di seta, con impeto. “Prendi, datti una sistemata”.
Il signor F. rimane immobile per lunghi secondi. Ha dimenticato il senso di questi gesti. Infine, in silenzio, muovendosi a scatti, raccoglie il fazzoletto e, goffamente, strofina la bocca e il lungo pizzetto. Infine lo rende, scarlatto e incrostato.
“Così va meglio,” riprende il Biondo. Attende una reazione. Qualsiasi reazione.
Niente.
Sospira. “Splendido raccolto, oggi.” Il tono è di nuovo allegro, gioioso, come può esserlo una volpe dopo una scorpacciata di pulcini. “Una delle migliori degli ultimi anni, te lo posso giurare. Bionda, ben fatta, con un...” si ferma, sconfortato dall’apatia dell’altro.
“Beh, ho conservato qualche souvenir. Come sempre,” borbotta di nuovo, “Ti andrebbe di venirli a vedere?”
Il signor F. emette un lungo sospiro. Scuote la testa.
L’altro sospira a sua volta. “Ti ricordi i vecchi tempi? Eravamo sempre assieme. Eravamo inseparabili. Avremmo dato tutto l’uno per l’altro...”
“Ti darei ancora la vita, fratello mio,” lo interrompe l’altro.    
Il Biondo tace per lunghi secondi. Infine, scuote la testa. “Quante volte abbiamo cacciato notti intere solo per goderci una Luna rossa?” evoca, sognante. “Ora sembra che non t’interessi più niente.” Guarda l’altro, che frattanto si è nuovamente calato la maschera. Poi, ispirato, domanda con malizia: “Com’è andato il tuo raccolto, invece?”
“Pulito.” Pensa a dei miseri resti masticati e al loro sudario bianco ridotto a brandelli. Pensa a occhi spenti e a una maschera da lepre. “Nessun intoppo.”
“Smettila di parlare come un fottuto macellaio,” sbotta il Biondo. “Com’era, lei?” Incalza: “Ti sarai divertito un po’, almeno. Una volta tanto.”
L’altro non si volta nemmeno. “No.”
“Come, no?”
Silenzio.
“Cosa ci sarebbe di sbagliato, scusa?” insiste il Biondo. “Dopotutto, siamo umani pure noi.”
Il signor F. lo guarda, perplesso. “...No.”
“Era un... come dire, un gioco di parole.”
“Quello che facciamo non è un gioco.” Scandisce a fatica. Non è più abituato a parlare così a lungo.
L’altro scuote la testa, agitando la chioma dorata. “Sei cambiato, amico mio.”
L’amico ringhia. “Certo che sono cambiato. Lo sai il perché.”
Il Biondo tace. Esita, poi gli poggia una mano sulla spalla.
“Certo. Ma dovresti...” Un dubbio lo pervade. “Hai di nuovo fatto il Dono?”
L’altro annuisce. Sembra non avere più forze.
Il jabot soffoca un’imprecazione. “Cerchi ancora il Libro, vero?”
Silenzio.
“Pensavo ti fossi rassegnato.”
“Non posso”. Il ringhio contiene più tristezza che rabbia. “Glielo... devo.”
Per un istante si guardano negli occhi.
Ho ricattato sogni e inseguito fantasmi. Ho dato la caccia ai magi delle terre del Sole e ai genii del deserto. Ho disseppellito i morti e interrogato ibis e sciacalli,  e contrattato con gli occultisti d’ogni cabala e d’ogni setta. Non c’è sognatore di cui non abbia visitato gli incubi. Non mi fermerò.
“La rivoglio indietro,” sospira. “Troverò il Libro.”
Il Biondo gli stringe la spalla. “Sei una bestia strana. Ma hai tempo.” Sogghigna sotto la maschera. “Tutto il tempo della Grande Clessidra. Tutto il tempo del mondo. Ci riuscirai.” Esita un attimo. “Posso aiutarti...” Il silenzio dell’altro lo raggela.
“Non ho tempo.”  Sfila il cilindro. “Ho incontrato un corvo, prima.”
Il Biondo trattiene il fiato. “Ti...”
“Mi ha quasi trovato.” La voce del signor F. è serena, ora. “Presto mi raggiungerà. Parlerà della Legge e della Giustizia e del Bene e del Male. Combatteremo. E mi pianterà la spada, qui,” indicando quel punto nel petto ove gli umani hanno il cuore. Sfila i guanti, rivelando artigli spropositati. “E io la lascerò fare.”
Guarda l’amico di sempre. “Non so se vedrò un’altra Notte delle Maschere, Philemon.”
L’altro è serio, infine. La sua voce è gelida, determinata. “Non se la uccido prima io.”
“Non sono sicuro che ci riusciresti. Nemmeno se io decidessi di lasciartelo fare. E non lo farei.” Emette un lungo sospiro. “Ti ringrazio, Philemon. Non serve. L’importante...” La voce si spezza. “Devo trovare il Libro. Prima.”
Il Biondo ammutolisce. Sentimenti troppo umani gli annodano la gola.
“Per favore,”  chiede alla fine. “Cacciamo insieme. Un’ultima volta. Prima dell’alba.”
Il signor F. guarda la Luna ormai bassa, un ghigno beffardo nel cielo notturno. Il suo sguardo ricade sulla città. Un serraglio di anime.
Un mattatoio.
Da molto tempo non cala la mannaia.
Strappa la maschera, ghignando al pari della Luna. Candide zanne macchiate di sangue.
“Un’ultima volta,” concede. “E che la Luna torni rossa!”
 
Bubas dorme soddisfatta, protetta dalle ombre. Le memorie ospiti stanno svanendo; per ora si gode i sogni bizzarri e il caldo pasto nello stomaco. In sogno si ripromette di raccontare alla sua prole, se mai ne avrà una, della loro Madre lontana in tombe antiche sotto il sole del deserto; e dirà loro che il signor F. è un amico, un amico pericoloso da cui è bene stare alla larga, ma pur sempre un amico che rispetta i patti.
 
La Notte delle Maschere – la notte in cui gli uomini celebrano la vita e i defunti dimenticano la Morte; in cui i fanciulli si mascherano da mostri e i mostri da fanciulli;   e un’altra Notte delle Maschere è conclusa. Le anime si concedono un breve riposo, prima di tornare ai loro gioghi.
Il Caos, lento e sinuoso, ritorna strisciando nel suo vaso antico, nell’ombra.
Le maschere giacciono mute, le marionette danzano cieche.
 
 
  
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