Il Touka Koukan è una balla.
Parole che
gli rimbombano in testa, senza la minima intenzione di dargli pace.
Le mani
premute sulle orecchie, quasi a fargli male, non servono a nulla.
Esse non
sono voci esterne, ch’è possibile fermare.
Vengono
dall’interno.
E
neppure le suppliche gridate al cielo lo possono aiutare.
Il Touka Koukan è una menzogna.
Voci
sottili e maligne che non fanno altro che pizzicare come spilli.
Il Touka Koukan non esiste.
Sadiche
come un torturatore che non trova altro godimento che nel dolore e nel
patimento.
Il Touka Koukan non ti ridarà mai il tuo tesoro.
E lo
vede lì.
In un lago di sangue.
Gli occhi chiari divenuti come fantasmi.
Le mani giunte in una preghiera ad un Dio che,
nell’impossibile eventualità ch’esista, è talmente
sordo o disinteressato da non averlo ascoltato nemmeno nel momento culmine
della sua esistenza.
La bocca semi aperta, come se stesse sussurrando qualcosa.
Un aiuto, forse.
Richieste perse nell’aria, inesaudite.
La voce gli
si congela in gola, le vene si bloccano, come esplodendo.
E addio
al cuore, al cervello.
Il Touka Koukan ti ha fottuto.
Si
risveglia in un bagno di sudore. La canottiera gli aderisce al petto che non
riesce a smettere di muoversi isterico. Gli occhi dilatati e
la pelle così pallida da sembrare quella di un morto.
Si
risveglia e si rende conto di non aver più buio intorno. Dalle tende delle
finestre penetra il forte Sole estivo di una mattina inoltrata.
Domenica,
di sicuro, altrimenti non sarebbe ancora a poltrire.
Un altro.
Ancora un altro.
L’ennesimo.
Devono smetterla! Smettete,
smettete!
Un incubo,
un incubo, un fottutissimo e
palpabile incubo. Così nero e così denso – come petrolio, come fango – che
quasi lo stava per inghiottire.
Gli è
sembrato tutto così vero, così doloroso – come le esperienze vere
e vissute – che il petto gli duole in modo inimmaginabile.
Si guarda
le mani, portandole agli occhi, e tremano, incessantemente.
E gli
ordini che lui dà loro vengono completamente ignorate.
Come se le
sue mani fossero quel Dio in cui non ha mai creduto, e in cui continuerà a non
credere, di cui seguiterà a professare l’inesistenza fin
quando avrà fiato.
Il respiro
non ha intenzione di farsi regolare, disubbidente anche lui di fronte agli
ordini del proprio padrone.
Mormorii
sconnessi escono dalla sua bocca, sillabe senza senso, pezzi di puzzle
impossibili da unire.
Neppure lui
sa se abbiano un senso.
Sono
lettere nate da vocaboli saturi di paura liquida, inframmezzate da singhiozzi
che gli agitano, convulsi, la spina dorsale.
Poi muove
la testa di lato.
Un gesto
che neppure vorrebbe compiere, ma è come se il capo si muovesse per cavoli suoi – quasi sadico nei suoi confronti nel
volerlo farlo scontrare con la verità.
Con l’assoluta certezza di non trovare nessuno al fianco, con la
convinzione di tastare l’altra parte di materasso e trovarla fredda, gelata – forse appena tiepida per il Sole.
Come ieri, come l’altro ieri, come i mille giorni trascorsi
nell’ascoltare solo il proprio respiro e il solo proprio battito cardiaco.
Ma si
ritrova ad avere di nuovo gli occhi sbarrati.
Lì c’è
qualcuno.
Ronfa beato
con la testa perfettamente nel mezzo del cuscino.
Capelli
castano chiaro, che emanano un buon profumo, sembrano essere appena stati
tagliati.
Canottiera
e boxer, questi abbassati fino all’inizio del sedere.
Tutto sommato, dorme in modo abbastanza composto.
Si mette a
boccheggiare, perché non sa inizialmente riconoscerlo.
E quello
si sveglia. O, meglio, inizia a farlo.
Sbadiglia
apertamente, con grande movenza della bocca. Si alza a
sedere e si sfrega gli occhi, poi stiracchiandosi.
Sorride
leggermente – quel che gli consente il cervello ancora annebbiato dalla
lunghissima dormita (dodici ore di fila, circa, si è concesso per ricaricare le
batterie del corpo).
“Buongiorno,
niisan. Dormito bene?”
E la
persona interpellata avrebbe bisogno di un secchio d’acqua gelata in faccia per
rendersi conto che non è tutta una visione onirica.
E’ stato solo un incubo.
Ma è stato così forte da convincerti?
E’ stato l’incubo a fregarti. Non il
Touka Koukan.
E’ stato lui a prenderti in giro.
Lui che hai davanti è reale.
Tutto quel che hai intorno è reale.
Ti sei reso conto che non hai più un
braccio meccanico, no?
No, probabilmente no.
Troppo preso ad ansimare.
E dire che
non stai nemmeno facendo l’amore…
“Al… Al?”
“Sì, niisan,
so come mi chiamo, non credo ci sia bisogno di ripetermelo…”
“Sei… vivo?”
“Eh?”
“Sei… qui?”
“Certo che
sei strano stamattina, niisan… hai fame?”
Al mette i piedi sul pavimento, stirandosi, e fa per andare via
dalla loro camera da letto, quando il suo niisan lo prende per la vita,
costringendolo a tornare a letto, tra le sue gambe allargate, appoggiato al suo
petto.
“Wa!!”
“Non
andartene…”
Affonda il
naso tra i suoi capelli. E’ l’artificiale profumo dello shampoo – non è alla
frutta, alla crema, o chissà quale vezzoso aroma perlopiù adatto alle donne, è
al sapor di… shampoo –, ma gli è impossibile non
marchiarlo come quello di Al.
Giura a se
stesso di non fargli mai cambiare marca di shampoo.
“Niisan,
non vado a morire! Ma sei tu che morirai se non mangi
qualcosa subito! Sento i rimbombi del tuo stomaco! E
probabilmente li sente anche Winry, a casa sua…”
Edward
mormora e mugola, senza pronunciare una parola in merito.
“Certo che
sei strano…”
E’ una
leggera risata quella che rimbomba nelle pareti del cranio di Ed.
Come acqua
pulita le puliscono dalle parole colanti sporco del
suo incubo.
“Sì, sono
strano…”
Il naso
passa alla spalla nuda – scesa la spallina per volere della mano di Edward – e si inebria anche dell’odore della sua pelle.
“Non siamo
in un sogno, vero, Al?”
Quello
pensa bene di tirargli un pizzicotto alla coscia, torcendo un po’ la carne tra
le dita.
“… no, non
lo è, dann…”
E il
niisan risponde. Ma l’altro non replica nuovamente, o
non finirebbero mai.
“Perché dovrebbe essere un sogno?”
“Mph… perché è troppo perfetto.”
Troppo
bello per sembrargli vero.
Come le statue di cristallo, come le tazze di porcellana, come i quadri
antichi.
Così belli,
così intoccabili. Così impalpabili.
Così falsi.
Non c’è
nulla di vero nel cristallo, nella porcellana finemente cesellata, nella
tempera stesa a regola d’arte.
E’ tutta
un’imitazione della realtà.
Ma
quella non deve (non deve non deve non
deve non deve) essere un’imitazione, un falso.
(O impazzirà.)
Gli
accarezza il collo con le labbra, salandosele col suo sapore.
“Talmente
perfetto che ho paura che si spezzi da un momento all’altro. Le cose belle
finiscono, o si rompono.”
“Cazzate, niisan. Tu non sei ancora finito. E nemmeno tutto questo finirà. Baka
no niisan.”
La stretta
intorno alla vita si fa più forte, e il respiro sulla sua pelle più caldo.
Il dolore
alla coscia gli ricorda, ancora una volta nel giro di un paio di minuti, che è
tutto vero, che deve smetterla di essere scettico.
Qui non si
tratta di credere in Dio.
Lì non c’è
Dio.
C’è solo
Alphonse.
Ch’è un
po’ meglio.
Perché
lui lo ascolta.
Scritta in poco meno di un paio d’ore, solo per colei a cui la dedico. Una piccola sorpresa per quando
ritornerà.
E’
bruttina, inutile, niente di che – niente, al confronto di quelle che lei mi
dedica.
Gliela
dedico con tutto il mio amore.
Lei
dovrebbe intuire.
E s’è tontola come le dico sempre di essere, le do un piccolo
indizio: tredici agosto.
E’ un po’
quello che credo penserò ogni mattina anch’io.
Mio piccolo Aru.